L’ampiezza di contenuto dell’art. 2087 cod.civ. secondo la Cassazione
1. La decisione n.
1307 del 5 febbraio 2000 della Cassazione
2.
La situazione di
fatto e i precedenti giudiziari di merito
3.
La decisione n.
8267 del 1 settembre 1997 della Cassazione
4.
La sentenza di
rinvio emessa nel dicembre 1998 dal Tribunale di Foggia e la decisione n.
1307/2000 della Cassazione
5. La decisione n. 4012 del 20 aprile 1998 della Cassazione in tema di misure aziendali “antirapina”nel settore bancario e di responsabilità per danni da scaturita malattia nervosa
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1. La decisione n. 1307 del 5 febbraio 2000 della Cassazione
La decisione n. 1307/2000 della Suprema
Corte (1) che qui si commenta, contiene una riaffermazione dell’ampiezza del contenuto
dell’art. 2087 c.c.- relativamente al dovere di salvaguardia dell’integrità
psico/fisica del prestatore di lavoro mediante l’approntamento datoriale delle
misure (anche organizzative) più adeguate e tecnologicamente idonee allo scopo
tutorio e prevenzionale – oltre a ribadire il già affermato principio della
sussistenza di un obbligo datoriale di cooperare, secondo correttezza e buona
fede ex artt. 1175 e 1375 c.c., affinché il prestatore di lavoro possa
adempiere la propria prestazione con risultati proficui e produttivi,
corrisposti da un conseguente
apprezzamento del creditore/datore di lavoro e da parte dell’ambiente di
lavoro.
La
Suprema Corte ha dovuto affrontare il caso per ben due volte, primariamente
nella decisione n. 8267 del 1 settembre 1997 (2) e, in ultima istanza, con
l’attuale decisione n. 1307 del 5 febbraio 2000, riaffermante i principi di
diritto della precedente.
2. La situazione di fatto e i precedenti
giudiziari di merito
Procediamo con
ordine, descrivendo innanzitutto la situazione di fatto che ha determinato le
prime e le seconde considerazioni della Suprema Corte.Un Capo Ufficio dell’Ente
Autonomo Fiera del Levante di Bari, a causa della stressante attività cui aveva
dovuto sottoporsi – per carenza di organico nell’Ufficio cui era preposto – al
fine di fronteggiare il carico di lavoro del medesimo, attività che gli aveva
comportato reiterata effettuazione di lavoro straordinario fino al limite
(monte ore) annuo consentito contrattualmente delle 500 ore e rinuncia ai periodi di ferie annuali, era incorso in un infarto
miocardico che la Consulenza Tecnica d’Ufficio aveva accertato essere
causalmente conseguente allo stress accumulato. In conseguenza del danno
alla salute aveva richiesto un risarcimento, per danno biologico, in misura di
50 milioni. Il Pretore di Bari, prima, ed il Tribunale di Bari,
successivamente, con sentenza risalente
al 1994, avevano entrambi escluso il diritto del ricorrente al risarcimento del
danno biologico. Al riguardo aveva argomentato il Tribunale di Bari, in sede di
appello, che:
a) se
nell’ufficio vi era un carico di lavoro esorbitante, rientrava nella
discrezionalità aziendale la scelta di
dimensionare (o meno) l’organico dell’ufficio, giacché l’obbligo non poteva
discendere da norme generali a tutela della salute del lavoratore;
b)il superlavoro (implicante
straordinario e rinuncia alle ferie annuali) non era stato imposto al
ricorrente dall’azienda ma era imputabile ad iniziativa volontaria (anche
nell’ottica di fare carriera) del medesimo Capo Ufficio, a tutto concedere al
suo senso di responsabilità.
Conseguentemente, era da escludersi
qualsiasi responsabilità aziendale.
3.
La decisione n.
8267 del 1 settembre 1997 della Cassazione
La Cassazione nella prima sentenza n.
8267/1997, censurava le argomentazioni del Tribunale di Bari, cui imputava di “poggiare
su un’asserzione di assoluta irresponsabilità del datore di lavoro in ordine ai
danni alla salute del lavoratore che dipendano da iniziative dallo stesso volte
a sopperire a carenze di organico per mantenere il livello di efficienza del
settore cui era addetto”. In buona sostanza, per realizzare i suoi
obiettivi aziendali, l’imprenditore – secondo il Tribunale di Bari – sarebbe
stato pienamente libero di dimensionare in maniera congrua l’organico
dell’ufficio come pure di mantenere un organico inadeguato. Se a tale carenza
sopperiscono volontariamente – e con la tolleranza non disinteressata
dell’impresa – i pochi addetti all’ufficio, le conseguenze negative cui possono
andare fisiologicamente incontro per stress sarebbero ascrivibili
unicamente ai volenterosi e non all’imprenditore (che del loro maggior impegno ha beneficiato).
Questo
modo di ragionare non venne considerato -
da Cass. n. 8267/1997 - rispettoso dei principi dell’ordinamento giuridico,
costituzionale e ordinario. In particolare dell’art. 41, 2°co., Cost., secondo
il quale la libertà di iniziativa economica privata incontra l’imprescindibile
limite di “non svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da
recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Nel
caso di specie la norma costituzionale imponeva – per non porsi in contrasto
con l’esigenza di tutela della sicurezza individuale, e cioè dell’integrità
fisio/psichica dei lavoratori - che l’organico dell’ufficio venisse
congruamente dimensionato al fine di evitare, giustappunto, quell’eccesso di
impegno lavorativo che aveva, in forma causale (cioè a dire con nesso
eziologico se non esclusivo, quantomeno concorrente o concausale), determinato
il danno allo stato di salute.
Il
limite alla libertà imprenditoriale,
contenuto nell’art. 41, 2° co., Cost., rappresentato dalla “sicurezza,
libertà e dignità umana”, si
riflette – secondo la corretta impostazione di Cass. n. 8267/1997 - sul potere direttivo e organizzativo
aziendale (ex art. 2086 e 2104, 2° co., c.c.) nel senso che le misure
organizzative ed i mezzi da apprestare per il lavoratore (affinché adempia la
prestazione con diligenza, ex art. 2104, 1° co., c.c.) debbono essere congrui
ed adeguati allo scopo.
Nel
caso di specie l’inadeguatezza, suscitando il senso di responsabilità del
prestatore di lavoro preposto ad un ufficio, gli aveva imposto un superlavoro,
aggravato da una rinuncia reiterata al riposo annuale, in conseguenza del quale
era disceso un danno alla salute. La fattispecie, già protetta dall’ art. 41,
2° co., c.c., occasionando il danno alla salute, riceve – sempre ad avviso di
Cass. n. 8267/1997 - la protezione
rafforzata dell’art. 2087 c.c., secondo il quale “l’imprenditore è tenuto
nell’esercizio dell’impresa ad adottare le misure che, secondo la
particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare
l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Ne
conseguì la dichiarazione - operata da Cass. n. 8267/1997 - secondo cui “ il mancato adeguamento
dell’organico che abbia determinato un eccessivo impegno da parte del
lavoratore, ovvero il mancato impedimento di un superlavoro eccedente – secondo
le regole di esperienza – la normale tollerabilità, con conseguente danno per
la salute del lavoratore stesso, costituiscono violazione, oltre che dell’art.
41, 2° co., della Costituzione, della regola contenuta nell’art. 2087 c.c., con
responsabilità contrattuale”.
Accogliendo
il ricorso del lavoratore infartuato per disimpegno di superlavoro da carenza
di organico nell’ufficio, la Suprema corte nel cassare la sentenza del Tribunale di Bari – con la decisione n.
8267/1997 – rinviò la causa al
Tribunale di Foggia.
Al
giudice di rinvio la Suprema Corte assegnò
il compito di applicare il principio di diritto secondo cui il potere
imprenditoriale, volto alla massimizzazione della produzione, incontra un
imprescindibile limite nella necessità di non arrecare danno alla sicurezza,
alla libertà e alla dignità umana e nel far sì che nell’attività di
collaborazione richiesta ai dipendenti venga predisposta una serie di misure,
oltre quelle legali, che appaiono utili a impedire l’insorgere o l’ulteriore
deteriorarsi di situazioni patologiche idonee a causare effetti dannosi alla
salute del lavoratore, ai sensi dell’art. 41 secondo comma Cost. e dell’art.
2087 cod. civ.
4.
La sentenza di
rinvio emessa dal Tribunale di Foggia nel dicembre 1998 e la decisione
n.1307/2000 della Cassazione
Con
sentenza depositata il 12 dicembre 1998 il Tribunale di Foggia, premettendo di
volersi uniformare a tale principio, ha accolto la domanda del Capo Ufficio
dell’Ente Fiera del Levante, ritenendo provata la sussistenza delle condizioni
di superlavoro in cui aveva operato il dipendente nell’indifferenza dell’Ente
datore di lavoro, sollecitato a ovviare alla insufficienza dell’organico. Il
giudice del rinvio, inoltre, sulla base della consulenza tecnica medico-legale
disposta dal Pretore, ha ritenuto che l’infarto subito dal prestatore di
lavoro, nonostante la sussistenza di altri fattori di rischio, quali la
familiarità ipertensiva, il fumo di 15 sigarette al giorno e la vita
sedentaria, era da attribuire in via causale all’attività lavorativa intensa
svolta dal lavoratore in concomitanza con l’omessa predisposizione da parte del
datore di lavoro di misure atte ad evitare tale effetto dannoso. Sulla base di
tale premessa il Tribunale di Foggia ha riconosciuto la risarcibilità del danno
biologico e ne ha determinato la misura nella complessiva somma di lire 300
milioni, oltre svalutazione monetaria e interessi quantificati nel 4% sulla
somma rivalutata dal giorno dell’evento dannoso sino al saldo. In seguito a
ricorso dell’Ente Fiera del Levante di Bari la causa è tornata davanti alla Suprema
Corte che, con la sentenza che si commenta (n. 1307 del 5 febbraio 2000 ), ha
rigettato l’impugnazione, in quanto ha ritenuto che il Tribunale di Foggia
aveva correttamente motivato la sua decisione con riferimento sia
all’inadempienza della datrice di lavoro all’obbligo di tutelare la salute del
dipendente, sia alla esistenza di un nesso causale fra le abnormi condizioni di
lavoro e l’infarto subito dal lavoratore, sia alla liquidazione del danno
biologico.La Corte ha richiamato la sua giurisprudenza che ha ritenuto
sussistente il danno biologico del lavoratore in relazione all’inosservanza
dell’obbligo del datore di lavoro di non
operare dequalificazioni offensive della dignità del prestatore (art. 41
Cost.) ed addizionalmente lesive del diritto alla salute (art. 32, primo comma
Cost.) e produttive di danni psico/fisici in diretta ed immediata conseguenza della dequalificazione (3). La
Corte ha altresì ricordato la sua giurisprudenza che, in tema di infortuni sul
lavoro, ha ritenuto sussistente la responsabilità del datore di lavoro per il
danno biologico, inteso come menomazione dell’integrazione psico-fisica, subita
dal lavoratore e valutabile monetariamente in modo autonomo rispetto al danno
morale e alla vita di relazione causati dal reato (Cass. 4.10.1994 n. 8054;
Cass. nn. 3510 e 7636 del 1996). Infine la Corte ha ribadito i principi, già
affermati nello stesso processo con la sentenza n. 8267 del 1997 secondo cui: “In
ottemperanza al precetto costituzionale di cui all’art. 41 secondo comma Cost. il
datore di lavoro non può esimersi dall’adottare tutte le misure necessarie,
compreso l’adeguamento dell’organico, volte ad assicurare livelli competitivi
di produttività, senza, tuttavia, compromettere l’integrità psico-fisica dei
lavoratori soggetti al suo potere organizzativo di dimensionamento delle
strutture aziendali. Pertanto l’accettazione da parte del lavoratore di un
lavoro straordinario continuativo, ancorché contenuto nel c.d. “monte ore
contrattuale massimo”, o la rinuncia a un periodo feriale effettivamente
rigenerativo dell’impegno lavorativo non possono esimere il datore di lavoro
dall’adottare tutte le misure idonee a tutelare l’integrità psico-fisica del
lavoratore, comprese quelle intese ad evitare eccessività di impegno da parte
di un soggetto che è in condizioni di subordinazione socio-economica.
L’eventuale concorso di colpa del lavoratore non ha efficacia esimente per il
datore di lavoro che abbia omesso le misure atte ad impedire l’evento lesivo,
restando egli esonerato da ogni responsabilità soltanto quando il comportamento
del dipendente presenti i caratteri dell’abnormità, dell’inopinabilità e
dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive
ricevute”.Nella specie – ha precisato Cass. n. 1307/2000 - si verte in
materia responsabilità contrattuale nascente dall’inosservanza di un obbligo
preesistente del datore di lavoro, previsto dalla Costituzione come limite al
diritto di libertà all’iniziativa privata nell’esercizio dell’impresa (art. 41
primo e secondo comma Cost.).Tale limite si sostanzia nell’obbligo di non
recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana e, posto in
relazione all’art. 32 primo comma Cost. e all’art. 2087 cod. civ., nell’obbligo
del datore di lavoro, costituzionalmente imposto, di adottare tutte le misure
necessarie a tutelare la integrità fisio-psichica del lavoratore.
L’inadempimento di tale obbligo deve essere dimostrato dal lavoratore che
chiede il risarcimento del danno biologico. Una volta, però, dimostrata la
sussistenza dell’inadempimento, non occorre, a norma dell’art. 1218 c.c., che
il lavoratore dimostri, come invece nella responsabilità extracontrattuale,
anche la sussistenza della colpa del datore di lavoro inadempiente. Su
quest’ultimo infatti, incombe l’onere di provare che l’evento lesivo dipenda da
un fatto a lui non imputabile e cioè da un fatto che presenti i caratteri
dell’abnormità, dell’inopinabilità e dell’esorbitanza in relazione al
procedimento lavorativo e alle direttive impartite. Tali caratteristiche non
sono state affatto riconosciute ricorrenti nel caso dell’infarto miocardico
subito dal Capo Ufficio dell’Ente Fiera del Levante di Bari rivestente
qualifica (non di “dirigente” ma) di
“quadro” - soggetto pertanto ad
integrale subordinazione socio/economica al datore di lavoro e privo (a differenza del “dirigente”) della
discrezionalità di scelta degli orari di lavoro e dell’autonomia in ordine ai metodi da adottare per il
conseguimento degli obbiettivi aziendali – conseguente causalmente al superlavoro
svolto, anziché ad altri fattori di rischio (richiamati dalla difesa datoriale)
quali il fumo di 15 sigarette al giorno, l’ipertensione familiare e la vita
sedentaria (connaturata al lavoro stesso), suscettibili semmai di possedere
mero valore concausale.
5. La decisione n.4012 del 20 aprile 1998 della
Cassazione in tema di misure aziendali “antirapina” nel settore bancario e
di responsabilità per danni da scaturita malattia nervosa
Per
connessione di problematica – in tema di contenuto dell’obbligo datoriale, ex
art. 2087 c.c., di predisporre le misure necessarie a tutela dell’integrità
psico/fisica del lavoratore e di conseguenti responsabilità per danno biologico
e morale – va menzionata Cass. 20 aprile 1998, n. 4012 (4), afferente la
fattispecie di un lavoratore bancario colpito da grave malattia nervosa per
essere rimasto coinvolto in tre rapine nel luogo di lavoro, successivamente
licenziato per superamento del periodo di comporto per malattia o comunque per
sopravvenuta inidoneità all’espletamento delle mansioni.
Questo
dipendente della Banca Popolare Pugliese con qualifica di funzionario – dopo
essere stato licenziato – chiese al Pretore di Lecce, tra l’altro, la condanna
dell’ex datrice di lavoro al risarcimento del danno biologico, patrimoniale e morale
per malattia nervosa derivatagli dall’essere rimasto coinvolto in tre rapine a
mano armata poste in essere da malavitosi presso la Filiale di Guagnano alla
quale era addetto. In particolare egli mosse alla Banca l’addebito di non aver
adottato sufficienti misure di sicurezza, essendosi limitata a munire i locali
di doppia porta con metal detector, senza provvedere al servizio di
vigilanza armata. La Banca si difese sostenendo di essersi attenuta alle
previsioni di un accordo integrativo aziendale che, quale misura di sicurezza,
prevedeva in particolare l’installazione di doppie porte con metal detector.
Il Pretore accolse la domanda del lavoratore, condannando la Banca al pagamento
della somma di 166 milioni oltre accessori a titolo di risarcimento del danno
biologico e di quello patrimoniale. L’importo venne elevato poi a 304 milioni,
in sede di appello, dal Tribunale di Lecce che gli riconobbe anche il danno
morale. Sia Il Pretore che il Tribunale ritennero che la Banca avrebbe dovuto
disporre anche il piantonamento diurno con guardia giurata, nonché installare
un sistema di allarme collegato con istituti di vigilanza o con le forze
dell’ordine, in quanto la previsione dell’accordo integrativo aziendale venne
considerata “quale misura minima comunque inderogabile”, non esonerativa
“dell’ obbligo datoriale di
adottare tutte le misure idonee a prevenire atti criminosi, e cioè di un impegno addirittura superiore
all’onere dell’ordinaria diligenza che,
ai sensi degli artt. 2043 e 1176 c.c., segna il limite della responsabilità per
danni”.
La
Cassazione nella decisione n. 4012 del 20 aprile 1998 – nel rigettare il
ricorso proposto dalla Banca – ha richiamato a sostegno delle proprie
argomentazioni (che di seguito esporremo) la sua precedente decisione n. 5048
del 1988 e la sentenza della Corte costituzionale n. 399 del 1996.
La
Cassazione ha asserito che “l’art.
2087 c.c. abbraccia ogni tipo di misura utile a garantire il diritto soggettivo
dei lavoratori ad operare in un ambiente esente da rischi”, così come posto
in rilievo dalla Corte costituzionale nella precitata sentenza n. 399/1996,
secondo cui: “la salute é un bene primario che assurge a diritto fondamentale
della persona ed impone piena ed esaustiva tutela, tale da operare sia in
ambito pubblicistico che nei rapporti di diritto privato…La tutela della salute
riguarda la generale e comune pretesa dell’individuo a condizioni (di vita, di
ambiente e) di lavoro che non pongano a rischio questo suo bene essenziale”.
Conseguentemente “non sono soltanto le norme costituzionali (artt. 32 e 41)
ad imporre ai datori di lavoro la massima attenzione per la protezione ella
salute e dell’integrità fisica dei lavoratori…L’art. 2087 del codice civile
stabilisce che l’imprenditore é tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa
tutte le misure che, secondo l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a
tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”
(Corte cost. n. 399/1996).
La
Cassazione, nella sentenza in commento, prosegue affermando che:“Coerentemente,
in adempimento del principio della massima sicurezza “tecnologicamente
possibile” vigente nel nostro ordinamento ai sensi del più volte citato art.
2087 c.c. (peraltro, di recente riaffermato dal d.lgs. 19 settembre 1994, n.
626), secondo cui la sicurezza non può essere subordinata a criteri di
fattibilità economica o produttiva
(Cass. sez .pen. 9 gennaio 1984, in causa Gorla), lo stesso datore di lavoro è
tenuto a trovare le misure sufficienti a conseguire il fine della protezione
della salute e dell’integrità fisica dei propri dipendenti in modo conforme al
principio direttivo costituzionale dell’art. 32.
Gli obblighi che l’art. 2087 c.c. impone all’imprenditore in
forma di tutela delle condizioni di lavoro non si riferiscono soltanto alle
attrezzature, ai macchinari e ai servizi che il datore di lavoro fornisce o
deve fornire, ma si estendono, nella fase dinamica dell’espletamento del
lavoro, anche “all’ambiente di lavoro, in
relazione al quale le misure e le cautele da adottarsi dall’imprenditore devono
prevenire sia i rischi insiti in quell’ambiente, sia i rischi derivanti
dall’azione di fattori ad esso esterni e inerenti al luogo in cui tale ambiente
si trova” ( così Cass. n. 940/1995).
Sempre nella sentenza
in commento, la Cassazione afferma: “In questi termini, va quindi
condiviso il canone interpretativo suggerito dalla sentenza n. 5048/1988,
laddove si è affermato che “l’art. 2087, per le sue caratteristiche di
norma aperta, vale a supplire alle lacune di una normativa che non può
prevedere ogni fattore di rischio, ed ha una funzione, sussidiaria rispetto a
quest’ultima, di adeguamento di essa al caso concreto”, senza che ciò
costituisca “strappi ai principi”, poiché il dovere di protezione (dei
lavoratori) che grava sull’imprenditore – collegato, del resto, al rischio
d’impresa – comporta che debba essere lo stesso imprenditore a valutare se
l’attività della sua azienda presenti rischi extra-lavorativi “di fronte al
cui prevedibile verificarsi insorga il suo obbligo di prevenzione”, giusta
il principio per cui ciascun datore, in riferimento alla particolarità del
lavoro, da una parte, ed all’esperienza e alla tecnica, dall’altra, deve nella
rappresentazione dell’evento (prevedibilità) prospettare a se stesso l’adozione
delle misure ( e, dunque, di tutte le misure) più consone e più aggiornate, al
fine di scongiurare la sua realizzazione (prevedibilità).
Prosegue
quindi la Cassazione asserendo: “Ne consegue che, proprio alla stregua dei
dati di esperienza, il suddetto obbligo “avrà un contenuto non teorizzabile
a priori, ma ben individuabile nella realtà alla luce delle tecniche di
sicurezza comunemente adottate” (così, Cass. n. 5048/1995). Trattasi,
evidentemente, di una obbligazione ex
lege accessoria e collaterale
rispetto a quelle principali proprie
del rapporto di lavoro, involgente, quindi, la diligenza
nell’adempimento ex art. 1176 c.c. (cfr. Cass. n. 7768/1995), “eventualmente
correlata alla natura dell’attività
esercitata, e comunque improntata nella sua esecuzione a quei criteri di
comportamento delle parti di ogni rapporto obbligatorio costituiti, ex art.
1175 e 1375 c.c., dalla correttezza e buona fede, oramai ampiamente valorizzati
dalla giurisprudenza” (così, Cass. n. 5048/1988 e Cass. n. 7768/1995).
Ed al
riguardo la Suprema corte asserisce che: “Con specifico riferimento
all’attività bancaria, il contenuto degli obblighi a tutela dell’integrità
fisica dei dipendenti deve, dunque, essere individuato nella
predisposizione di misure e mezzi di
sicurezza idonei a salvaguardare detti prestatori da possibili danni. Rischi e
mezzi di tutela, tenuti del resto ben presenti dalle parti (sociali)
contrattuali, alla cui attenzione già da tempo è dedicata, dai contratti
collettivi di categoria (che generalmente rimettono ai contratti integrativi
aziendali la concreta attuazione),la trattazione della relativa problematica;
con ciò potendosi ritenere ormai acquisito, anche nel convincimento delle parti
sindacali, la sussistenza di quel rilevante rischio per i dipendenti da azioni
criminose di terzi, che giustifica, in definitiva, l’applicazione dell’art.
2087 c.c.
Onde
deve ritenersi che il datore di lavoro, il quale in una simile situazione di
rischio prevedibile ed accertabile alla stregua dei comuni criteri di
diligenza“o addirittura disciplinata in
sede collettiva nazionale o aziendale”, non abbia predisposto gli adeguati
mezzi di tutela, debba rispondere ex art. 2087 c.c. dell’evento lesivo nei
confronti del dipendente (così Cass. n. 5048/1988). Dovendo, infatti, il datore
di lavoro ispirare la sua doverosa condotta alle acquisizioni della migliore
scienza ed esperienza per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle
condizioni di operare con assoluta sicurezza, atteso che l’art. 2087 c.c.
stimola obbligatoriamente il datore di lavoro ad aprirsi alle nuove
acquisizioni tecnologiche (Cass. pen. 29 aprile 1994, Giust. Pen. 1995, II,
505).
Allorquando
ricorra un tale inadempimento del datore di lavoro, le conseguenze della malattia o dell’infortunio del
dipendente, che abbiano origine e trovino causa in detto inadempimento, dunque,
debbono essere sopportate dallo stesso datore, per essere stato egli, appunto,
inadempiente all’obbligazione contrattuale a lui facente carico ai sensi
dell’art. 2087 c.c., giacché l’impossibilità della prestazione lavorativa è imputabile al comportamento
illecito della stessa parte cui detta prestazione è destinata (Cass. n.
3559/1984; Cass. n. 4723/1994; Cass. n. 6601/1995; Cass. n. 3751/1996)”.
Va
peraltro sottolineato come oltre al riconoscimento del danno biologico e del
danno patrimoniale – conseguente alla grave malattia nervosa contratta in
conseguenza delle rapine - la
Cassazione, confermando la decisione
del Tribunale, ha riconosciuto (nella sentenza in commento) al ricorrente anche
il danno morale. Al riguardo ha ritenuto infondata l’eccezione della difesa
della Banca – secondo cui tale richiesta costituiva un nuovo petitum avanzato in sede di appello – in quanto,
come correttamente rileva la Corte di Cassazione nella decisione in questione,
il ricorrente aveva fin dall’inizio richiesto nel ricorso “l’affermazione
della responsabilità della Banca Popolare Pugliese per tutti i danni
patrimoniali e morali derivanti dalla dedotta violazione dell’obbligo di
sicurezza previsto dall’art. 2087 c.c.”
Ha
quindi concluso la Suprema Corte sul punto, affermando che “su tale
indiscutibile presupposto si è conseguentemente determinato a condannare la
stessa banca a risarcire i danni morali subiti dal lavoratore, osservando
(correttamente e coerentemente con principi ripetutamente affermati dalla
giurisprudenza, puntualmente richiamati nella decisione ora gravata) che non
può escludersi “il rilievo anche penale della colpa per mancata adozione
delle misure di sicurezza obbligatorie ex art. 2087 c.c., colpa posta a
fondamento della responsabilità civile riconosciuta in sentenza” (v. Cass. pen.
sez IV, 8 marzo 1988, Corbetta; Cass. pen. sez. IV, 13 gennaio 1989, Marocco)”.
E da siffatta premessa, lo stesso giudice di appello è pervenuto all’esatta
conclusione che le lesioni colpose costituiscono proprio quella fattispecie
criminosa tipica, procedibile d’ufficio, (art. 590 c.p.), che giustifica il
risarcimento dei danni morali (art. 2059 c.c. e 185 c.p.)”.
L’affermazione
soprariferita è estremamente significativa, giacché abilita i lavoratori che
subiscono pregiudizi alla salute (in forma di disturbi neurologici a sfondo
depressivo, di sindromi DAP cioè strutturate da d’attacchi di panico con
agorafobia, di malattie cardiovascolari,
e simili) tali da configurare il reato di lesioni colpose ex art. 590 c.p. – in
conseguenza causale di violazione della
norma dell’art. 2087 c.c. o dell’art. 2103 c.c., afferente il divieto di
dequalificazione e di emarginazione riscontrabile nelle pratiche di mobbismo o
bossismo aziendale – a richiedere non solo il risarcimento del danno biologico
ma anche dei danni morali ricollegabili al riscontro d’ufficio del reato di
lesioni personali colpose.
Resta
naturalmente autonoma e praticabile disgiuntamente l’azione penale (diversa da
quella risarcitoria per i danni morali) nei confronti dei responsabili
aziendali (superiori) e/o dei colleghi “mobber” (responsabili di aver
posto in essere pratiche vessatorie ed emarginanti, determinative di
dequalificazione e forzata inattività, fonte di pregiudizi alla salute) ai fini
dell’assoggettamento alle pene
restrittive della libertà personale ex art. 590 c.p.
(pubblicato su Lav. prev.
Oggi 2000, n. 4, p. 828)
(1) In Lav. Prev. Oggi
2000, pag. 818.
(2)
In Lav. Prev. Oggi 1998 a pag.
367 ed ivi a pag. 386 la nota di
Mario Meucci dal titolo “Sugli obblighi di cooperazione datoriale per il
corretto espletamento della prestazione”.
(3) Cfr. Cass. 24.1.1990 n. 411,
in Lav. Prev. Oggi 1990, n.12, 2387 con
nota di Mario Meucci dal titolo “Condotta illegittima datoriale e
danno psichico al lavoratore”.
(4)
In Riv. it. dir. lav. 1999, 326 con nota di Mautone dal titolo “Sul
contenuto dell’obbligo di prevenzione delle rapine a carico dell’istituto di
credito e sulle conseguenze del suo inadempimento”.