Commento sulla cd. legge Biagi e relativo d.lgs. di
attuazione
«Così si favorisce il lavoro indecente»
Intervista a: Luciano Gallino (di
Oreste Pivetta)
MILANO -
Raggiungiamo Luciano Gallino, professore di sociologia all’università di
Torino, autore del recente La scomparsa
dell’Italia industriale (Einaudi) uno dei
più attenti e acuti osservatori della società italiana, in vacanza in Bretagna,
per un aggiornamento: siamo al via di una legge contrastata e famosa, la legge
30, quella divulgata dal governo come legge Biagi, propagandata come la legge
che dovrebbe dare un lavoro a tutti.
Sarà così,
professore?
«Intanto lascerei
stare il povero Biagi e la chiamerei legge 30. Hanno provato a metterla al
riparo dalle critiche attribuendola al professore ucciso dai terroristi. In
questa legge si esprime la debolezza del sistema delle imprese che, ormai
incapace di innovazione e di reale invenzione nel campo dei prodotti e dei
processi, punta sulla compressione del costo del lavoro che si ottiene cercando
di utilizzare esattamente la quantità di forza lavoro necessaria in un certo
momento del ciclo produttivo. Il lavoro a chiamata, il lavoro intermittente, le
tante forme di part time, eccetera, quali che fossero le intenzioni dei
proponenti la legge, servono a questo: rendere una quota della forza lavoro più
adattabile alle esigenze del ciclo produttivo e alle variazioni dettate dal
mercato o dal ciclo tecnologico».
Almeno un effetto
razionalizzante questa legge l’avrà?
«Ma è un aspetto
che trovo particolarmente negativo: è una legge che dà una forma giuridica
istituzionale a diversi tipi di lavoro precario, che altrimenti si potrebbe
definire “poco dignitoso” o “povero di contenuti”. Nel 1999, l’Ilo,
l’International labour organization, tenne la sua seduta plenaria a Ginevra,
per discutere di un argomento: le travail decent. Cioè il lavoro decente, cioè il lavoro dignitoso, umano.
L’Ilo ha compiuto rilevazioni sia a livello paesi sia a livello imprese per
vedere quali sono paesi e imprese che offrono tassi più o meno elevati di
lavoro dignitoso... L’Ilo ha definito il lavoro dignitoso attraverso una serie
di parametri piuttosto precisi: la sicurezza dell’occupazione, la sicurezza del
reddito, il riconoscimento delle proprie capacità professionali e altre cose
del genere... Ebbene: una legge come la legge 30 con i suoi decreti attuativi
nega quasi tutti i parametri dell’Ilo».
Che non è
un’organizzazione sindacale...
«Appunto. Il bello
è che si tratta di una organizzazione in cui sono rappresentati i governi, i
sindacati, le associazioni padronali, un’organizazzione tripartita, sempre
molto cauta. La legge 30 offre una copertura istituzionale, giuridica a quelli
che secondo l’Ilo sono lavori poco dignitosi, “indecenti”...».
Il modello
italiano rispecchia altri modelli stranieri oppure siamo all’avanguardia?
«Siamo decisamente
all’avanguardia... Anche se bisogna riconoscere che in un anno e mezzo il
govermo Raffarin s’è mosso a lunghi passi in direzione analoga, restando
comunque indietro. Ormai si manifesta una linea europea, inaugurata dai governi
Thatcher in Gran Bretagna, però l’Italia si piazza in testa al gruppo,
raggiungendo il massimo di etichettature giuridiche di lavori sempre esistiti».
Quindi, in
sostanza, il paesaggio non cambia?
«Detto in modo un
po’ paradossale, prima c’era il vantaggio che il lavoro “indecente” non era legale.
La copertura legale si rivelerà un errore anche per le imprese: aumentando il
numero dei lavori precari dentro le aziende, ne soffrirà la qualità...
Soffriranno l’organizzazione, la memoria aziendale, la stessa efficienza
organizzativa».
Cioè, per produrre
a costi più bassi si produrrà sempre peggio. Con un risultato: minor
competitività.
«Competitività che
dovrebbe essere cercata attraverso la qualità del lavoro e una politica
industriale che non esiste».
Le critiche alla
rigidità del lavoro in Italia sono state assai diffuse, anche a sinistra...
«S’è assistito
all’adozione più o meno consapevole di certi canoni neo liberali o liberisti.
Se si guardasse agli indici di rigidità della forza lavoro, ci si accorgerebbe
che l’Italia già da alcuni anni è a metà della classifica. Il mercato francese
tedesco o austriaco sono molto più rigidi di quanto non fosse e non sia quello
italiano, con una produttività e un costo del lavoro molto più elevati. Quello
tedesco intorno al cinquanta. Si preferisce rincorrere la Spagna o la Grecia o
magari l’Irlanda e naturalmente la Gran Bretagna piuttosto che i paesi che
hanno una struttura industriale ben più robusta della nostra».
Altra motivazione
della legge: fa emergere il lavoro nero. In questo senso può funzionare?
«Esiste una legge
per l’emersione del lavoro irregolare e dell’azienda irregolare. Se non ricordo
male, a fine maggio i lavoratori che avevano fatto richiesta di emersione erano
meno di quattromila. Le posizioni irregolari sul mercato italiano sono circa cinque
milioni. La legge è stata un fallimento. Che questa nuova possa contribuire in
qualche minima misura è possibile, ma che riduca il fenomeno in maniera
significativa ritengo sia del tutto irrealistico, perché il lavoro nero
continuerà a costare meno. La flessibilità italiana è stata quella del lavoro
irregolare, come in altri paesi peraltro... La caratteristica del lavoro
irregolare è sempre stata la precarietà, l’intermittenza, la chiamata, il part
time, il non avere orari, la mancanza di tutele sindacali. Questa legge
ratifica tutto ciò, ma aggiunge dei costi, perchè bisognerà pure pagare i
contributi, pagare l’irpef. Flessibilità per flessibilità, uno si tiene quella
vecchia».
Abbiamo letto
della riforma previdenziale in Francia, dell’intesa sulla sanità in Germania.
In Italia si discute in modo patologico di pensioni...
«Un attacco
diffuso allo stato sociale. I problemi esistono, la cosiddetta transizione
demografica può imporre certe modifiche. È lecito che si parli di riforma delle
pensioni, però bisognerebbe pur dire che in Italia il monte retribuzioni sul
pil è diminuito di sei punti in dieci anni e di altrettanto è diminuito il
reddito disponibile alla famiglie. Il pil si è ridistribuito a favore di altri
redditi che non sono solo profitti, ma sono anche rendite, patrimoni e così
via. Resta il fatto che la quota del lavoro sul pil è fortemente calata come è
calato il reddito disponibile alla famiglie. Poi si fanno i convegni lamentando
la caduta dei consumi. Ma questa discesa incide anche sulle pensioni, perché se
la quota di pil destinato alle retribuzioni fosse di sei punti più alta,
sarebbero più alti anche i contributi previdenziali. Il sistema pensionistico
non è intangibile. Si dovrebbero però mettere sul tavolo tutte le carte, non
solo quelle che fanno comodo».
L’atteggiamento
così remissivo nei confronti del governo degli industriali si spiega solo con
l’opportunismo politico?
«Credo che ci
siano di mezzo una notevole mancanza di cultura industriale e un’adozione
acritica dei canoni liberisti. In Confindustria sembra si sia affermata la
componente con la cultura più modesta, più provinciale, meno strategica, meno
orientata ai grossi temi dell’economia contemporanea. Le richieste
confindustriali per rilanciare la competitività e lo sviluppo, per fronteggiare
le sfide delle globalizzazione e le turbolenze dell’economia mondiale, fanno
cadere le braccia: un po’ più di flessibilità, una burocrazia statale più
trasparente, qualche facilitazione all’export».
E l’impresa
pubblica?
«Hanno fatto la
guerra alle partecipazioni statali demonizzandole in modo inaudito,
mortificando anche settori vitali. Si sono dati un po’ la zappa sui piedi. Se
una struttura industriale si indebolisce, ne patiscono tutti. Di imprese
pubbliche efficienti ne abbiamo ancora qualcuna, malgrado tutto: Finmeccanica o
Fincantieri. Si dà il caso che i settori più avanzati e più dinamici in questo
momento siano quel po’ che rimane di industria pubblica. Mentre il pezzo più
grosso dell’industria privata, l’automobile, non sappiamo che fine farà...».
Come considera
l’ultimo piano industriale presentato dalla Fiat?
«Positivamente,
perché per la prima volta da decenni si è parlato della Fiat come di un gruppo
automotoristico. Una delle caratteristiche negative del recente passato era che
la Fiat si occupava di troppe cose. Che poi riescano in tempo a produrre i
nuovi modelli, ad accrescere la qualità... questo è un altro discorso».
(pubblicato su l’Unità del 1 agosto 2003, p.4)
NOTA
(1)
Grande soddisfazione è stata espressa dalla Confindustria, il cui
vicepresidente Guidalberto Guidi, con l'incarico per le relazioni industriali,
ora al mercato del lavoro, ha affermato: «non manca nulla: abbiamo a
disposizione una serie di strumenti che non dico mettono l'Italia
all'avanguardia in Europa ma certo rendono il nostro mercato del lavoro uno dei
più attrezzati». Una riforma che con le nuove forme di flessibilità
aumenterà le occasioni di lavoro che è « il positivo epilogo di una lunga
stagione di dialogo sociale». Negativa, da parte sindacale, la Cgil secondo il
cui segretario nazionale Casadio si tratta di: «norme raffazzonate che puntano
solo a maggiore precarietà. E in più assegnano alle parti sociali funzioni
improprie, nel far incontrare domanda e offerta di lavoro. C'è il rischio di
creare circuiti perversi» (così da la repubblica, 1.8.2003,"Al via
l'era del lavoro flessibile" p. 6). Analogo,
anzi superiore apprezzamento, manifesta il sito del Ministero del
lavoro che così si esprime:«Il
5 febbraio 2003 il Parlamento Italiano ha approvato definitivamente la legge Biagi
(Legge 14 febbraio 2003, n.30)
che delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro. La
legge, pubblicata sulla G.U. n. 47 del 26 febbraio 2003, è entrata in
vigore il 13 marzo scorso.Il 6 giugno il Consiglio dei Ministri ha approvato lo schema di decreto
legislativo in attuazione della legge delega 14 febbraio 2003, n. 30, che è
stato sottoposto all'esame delle parti sociali, della Conferenza Unificata e
delle competenti Commissioni preliminari.
Ministero dello Welfare
Il 31 luglio il Consiglio dei Ministri ha approvato definitivamente lo
schema del decreto attuativo della legge Biagi.
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