- UNIVERSITÀ DEGLI STUDI
DI PAVIA
- FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA
- CORSO
DI DIRITTO DEL LAVORO (Anno
Accademico 2003/2004)
-
- dispensa della
- Prof. Mariella Magnani
-
-
-
-
- LA RIFORMA DEL
MERCATO DEL LAVORO E
DELLE
- TIPOLOGIE
CONTRATTUALI
-
- Indice - Sommario
-
1.
Introduzione
-
2.
I
servizi per l’impiego
-
3.
Le
esternalizzazioni
-
3.1.
La
somministrazione di manodopera
-
3.2.
Il
comando o distacco del lavoratore
-
3.3.
Il
trasferimento d’azienda
- 4.
Le
tipologie contrattuali
- 4. 4.1.
Il lavoro a tempo parziale
- 4.
4.2. I contratti a finalità
formativa
- 4.
4.3. Le
altre tipologie contrattuali (lavoro intermittente, ripartito, accessorio,
occasionale)
- 5. Le c.d.
collaborazioni coordinate e continuative (il lavoro a progetto)
- 6.
6.
La certificazione
- *****
- 1.
Introduzione.
-
- Quella che va sotto il nome di legge Biagi (l. 14 febbraio 2003,
n. 30 e correlato d.lgs. 10
settembre 2003,
n. 276) ha un periodo di gestazione alle spalle inusitatamente breve, se si
considerano i
tempi medi
di gestazione di una legge di un qualche significato –
e forse anche quelle di minor significato – in Italia.
- Prima
c’è stato – nell’ottobre 2001 – il
Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia, che contiene le linee
di politica del lavoro cui vuole ispirarsi il Governo; in esso manca, è vero,
il capitolo sulla previdenza, ma tale materia è oggetto del rapporto della
commissione Brambilla del settembre 2001. Poi c’è stato l’assassinio di Marco
Biagi che del Libro bianco è stato uno degli ispiratori. Da quel momento viene
impressa una notevole accelerazione all’iniziativa parlamentare. Presentato
dal Governo
alla Camera, nel novembre 2001, un disegno di legge delega per la riforma del
mercato del
lavoro
e delle tipologie contrattuali, questo diviene legge nel febbraio del 2003.
La
c.d. legge Biagi era composta di soli 10 articoli e delegava il Governo a
rivedere la disciplina dei
servizi per l’impiego e dell’intermediazione e interposizione privata nella
somministrazione di lavoro (art.1), a riordinare i contratti a contenuto
formativo e di tirocinio (art. 2), a riformare la disciplina del lavoro a
tempo parziale (art. 3), a disciplinare e/o razionalizzare le tipologie del
lavoro a chiamata, temporaneo, coordinato e continuativo, occasionale,
accessorio e a prestazioni ripartite
(art. 4), a disciplinare la certificazione dei rapporti di lavoro al fine di
ridurre il
contenzioso in materia di qualificazione dei rapporti di lavoro (art. 5),
oltreché a razionalizzare le funzioni ispettive
in materia di lavoro e di previdenza sociale (art. 8) 1.
- La
delega è stata esercitata con il decreto legislativo n. 276/2003 (v. in
appendice normativa) entrato
in vigore il 24 ottobre, ben prima dunque dell’anno che era riservato al
Governo. Si
tratta di un
decreto corposissimo, composto di ben 86 articoli.
- La legge delega non solo conteneva, conformemente alla sua
natura, unicamente i principi, ma presentava, per alcuni aspetti, contenuti
generici, che avevano fatto dubitare qualcuno della sua legittimità
costituzionale.
- Comunque
sia, proprio per questi motivi – sul piano politico o della politica
legislativa – era stato possibile fornire della legge delega letture
contrastanti: vi è stata una lettura improntata ad una visione per così dire
trionfalistica (si tratterebbe di una legge decisiva per la modernizzazione
del nostro mercato del lavoro); una lettura improntata ad una visione
catastrofista (la legge recherebbe una marcata impronta liberistica che
tenderebbe a distruggere il diritto del lavoro tradizionale e l’insieme
delle garanzie dei prestatori di lavoro); e infine una lettura minimizzatrice
(la legge delega
apporterebbe correttivi minimali, mentre ben altre sarebbero le riforme di cui
il nostro mercato del lavoro necessiterebbe).
- Si
trattava di valutazioni sopra le righe, in mancanza di specificazione dei suoi
contenuti da parte dei decreti legislativi. L’emanazione del decreto consente
ora valutazioni più ponderate. Si tratta di un decreto composto da ben 86
articoli , pari
a quelli dedicati dal Codice Civile alle obbligazioni in generale.
- Sarà
necessario un tempo non breve per metabolizzare la riforma. E ciò sia per le
incertezze interpretative, sia perché in molti punti essa non è
“autoapplicativa”, nel senso che necessita per la sua attuazione di “norme
secondarie”, in particolare di contratti collettivi2 ovvero, spesso
in funzione
sostitutiva, di un decreto del ministro del lavoro.
- Di
ciò è consapevole lo stesso legislatore delegato. Con una singolare
norma-annuncio, il comma 13
dell’art. 86 dispone che, entro i cinque giorni successivi alla entrata in
vigore del decreto, il “Ministro del lavoro convoca le associazioni sindacali
comparativamente più rappresentative sul piano nazionale al fine di verificare
la possibilità di affidare a uno o più accordi interconfederali la gestione
della messa a regime del decreto, anche con riferimento al regime transitorio
e alla attuazione
dei rinvii contenuti nella contrattazione collettiva”.
-
- 2. I servizi per l’impiego. (art. 1, legge delega; artt. 3-19, decreto legislativo)
-
- Una parte della riforma riguarda l’organizzazione del mercato
del lavoro (il “vecchio” collocamento)
che, normalmente pretermessa nell’analisi dei meriti e dei demeriti della
medesima, è
invece di capitale importanza per la modernizzazione del mercato e dello
stesso rapporto di lavoro. Il
buon funzionamento dei servizi per l’impiego è una precondizione affinché si
possa procedere ad
una
riduzione delle asperità garantistiche della disciplina del rapporto di
lavoro.
- Le ragioni della riforma.
- Obiettivo della riforma è quello di innalzare la quota di
incroci tra domanda ed offerta di lavoro, realizzati in forma organizzata e
non spontanea, come richiede un mercato del lavoro sempre più complesso e
sofisticato.
- In
proposito, il quadro a livello europeo ci segnala che l’incrocio
domanda-offerta in forma organizzata
raggiunge, nei casi migliori, tra il 20 ed il 25 per cento del totale degli
incontri.
- In
Italia si stima che le strutture pubbliche attualmente medino circa il 10 per
cento degli incontri tra
domanda ed offerta di lavoro, a cui va aggiunto qualche punto percentuale, tra
l’uno ed il due per cento, realizzato da soggetti privati.
- L’obiettivo
è dunque quello di superare il divario che ci separa da realtà più avanzate e
quindi di recuperare
alla mediazione organizzata circa un dieci per cento di incroci. L’importanza
di questo traguardo non può sfuggire: esso interessa sia i datori di lavoro,
che potrebbero così essere aiutati in tempi rapidi ed in forma puntuale nel
reperimento della manodopera necessaria; sia i lavoratori, in quanto buoni
servizi per l’impiego rendono trasparente il mercato del lavoro e sono dunque
fondamentali per far funzionare in modo efficace ed equo l’incontro tra
domanda ed offerta di lavoro.
-
- La tutela nel mercato del lavoro.
- Più
in generale possiamo dire che il tema è quello della tutela nel mercato
dei lavoratori; detto in altri termini, si tratta del modo di assicurare
un intervento pronto, efficace ed efficiente delle amministrazioni locali per
agevolare i giovani lavoratori che devono inserirsi nel mondo del lavoro
o
i lavoratori adulti in difficoltà occupazionale od ormai disoccupati e in
cerca di un nuovo lavoro. Si
noti che costruire un buon sistema locale di politiche attive del lavoro, di
formazione professionale e di servizi per l’impiego è compito fondamentale per
la tutela dei lavoratori: infatti, quanto più si va allentando la tutela
nel rapporto di lavoro (mediante le più svariate forme di flessibilità),
tanto più assume rilievo la tutela nel mercato del lavoro.
- In
proposito è possibile svolgere anche una riflessione più “raffinata”: tutela
nel mercato e
tutela nel rapporto non devono essere concepite come separate (o, peggio, in
contrapposizione). Esiste un legame
stretto tra i due tipi di tutela (si pensi ad es. ai lavori a termine o
comunque caratterizzati da
instabilità:
in un mercato con quote ridotte di lavoro a termine ed in grado di assicurare
una rapida e
qualificata ricollocazione potrebbe in astratto essere pressoché indifferente
la stabilità o meno del rapporto di lavoro; al contrario in un mercato con
alte quote di lavoro precario ed in cui non si attuano
politiche idonee alla rapida e qualificata ricollocazione di tali lavoratori,
vi sarà
una naturale tendenza
del sindacato a favorire la stabilizzazione del lavoratore presso lo stesso
datore di
lavoro).
- In
sintesi, la protezione nel mercato e la flessibilità/rigidità dei rapporti di
lavoro sono in parte collegate tra loro: costruire il buon sistema di
politiche attive del lavoro di cui si è detto, non è dunque
fare “altro” rispetto alla regolazione dei rapporti di lavoro, ma è creare le
condizioni per una
diversa regolazione dei rapporti di lavoro. Quindi, l’istituzione pubblica che
si preoccupa di assicurare buone tutele sul mercato, incide, indirettamente,
anche sui livelli e sulla modalità di protezione nel rapporto.
-
- Il sistema di servizi per l’impiego delineato dalla
riforma
- La
legge delega n. 30/2003, all'articolo 1, ci offre due preziose indicazioni per
cogliere la volontà del
legislatore rispetto alla nuova organizzazione del mercato del lavoro che si
intende costruire: -
da un lato, dichiara di perseguire la modernizzazione e razionalizzazione
dell'intervento pubblico con riconferma alle Province
delle
funzioni amministrative già attribuite dal d.lgs. n. 469/97; -
dall'altro
lato, mira all'ampliamento dei soggetti pubblici e privati che possono
svolgere le
diverse attività
riconducibili ai servizi per l'impiego, con la precisazione che vi deve essere
un unico regime
di autorizzazione o accreditamento.
- Il
decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, non si occupa delle strutture
pubbliche
competenti
all’esercizio
delle funzioni in esame (non si occupa quindi delle Province e dei Centri per
l’impiego, considerando
evidentemente sufficiente la disciplina vigente), ma, agendo sui requisiti per
l’autorizzazione allo svolgimento dei servizi per l’impiego, tende a favorire
l’ingresso nella fornitura
di servizi per l’impiego di nuovi soggetti, pubblici e privati.
- Per
quanto riguarda i soggetti pubblici,
il
decreto ammette allo svolgimento di attività di intermediazione tra domanda ed
offerta di lavoro, a condizione del possesso soltanto di alcuni requisiti
(c.d. autorizzazione a requisiti ridotti), anche i Comuni, le Università
pubbliche e private, gli
istituti di scuola secondaria di secondo grado e le Camere di commercio.
Per
quanto riguarda i soggetti del c.d. privato-sociale
il
decreto indica esplicitamente le associazioni dei datori di lavoro e dei
lavoratori comparativamente più rappresentative, gli enti bilaterali (composti
da rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro) ed i patronati, ai
quali sono richiesti requisiti ridotti, ma più ampi rispetto ai soggetti
pubblici sopra citati, per la concessione dell’autorizzazione. In questo
gruppo può essere considerato anche l’Ordine nazionale dei consulenti del
lavoro.
- Per
quanto riguarda i soggetti privati si ricorda, innanzitutto, che le
agenzie
di somministrazione di lavoro (le
vecchie agenzie di lavoro interinale), se abilitate a tale funzione, saranno
da considerarsi automaticamente autorizzate anche a svolgere tutti i tipi di
servizi per l’impiego considerati dalla legge (mediazione, ricerca e selezione
del personale, supporto alla ricollocazione professionale).
- Oltre a queste agenzie, possono chiedere l’autorizzazione a
svolgere servizi per l’impiego anche le società di capitali ovvero le
cooperative o i consorzi di cooperative in possesso di alcuni requisiti
economici, organizzativi e di affidabilità.
- Si punta in questo modo ad ampliare in massima misura la
tipologia dei soggetti che svolgono servizi per l’impiego.
- Alla
luce di queste indicazioni sembra ragionevole una lettura della riforma
secondo la quale si vuol costruire un sistema
misto e multipolare, finalizzato
all'erogazione di un'ampia gamma di servizi ed interventi: a) anagrafe dei
lavoratori; b) gestione pubblica di quote del mercato del lavoro (ad es. i
disabili); c) servizi per l'impiego; d) formazione professionale; e) politiche
attive. Il
sistema in generale, dunque, può essere così descritto:
- -
vi sono funzioni pubbliche (quelle di cui al d.lgs. n. 469/1997) che si
intendono comunque mantenere in capo alle strutture pubbliche deputate
(Province e Centri per l'impiego): anagrafe del lavoro
e gestione di alcune quote del mercato del lavoro;
- -
vi sono servizi di interesse pubblico che potrebbero (in relazione alle scelte
insindacabili di ciascuna Regione) essere gestiti direttamente dalle
Province, oppure che possono essere affidati in convenzione a
soggetti del c.d. privato-sociale (ad es., associazioni dei datori di
lavoro o enti bilaterali) o a privati, nonché ad enti locali diversi
dalle Province, purché autorizzati dal Ministero e/o accreditati dalle
Regioni, così come a Università e scuole superiori (ad es., i
colloqui di orientamento da effettuarsi entro 3 mesi dall'inizio della
disoccupazione o le proposte di inserimento lavorativo possono essere affidati
a questi soggetti, dietro pagamento da parte della Provincia
di un corrispettivo per ciascun intervento);
- Se
un soggetto, diverso dalla Provincia e dai Centri per l'Impiego, intende
svolgere Servizi per l'Impiego a prescindere dal quadro programmatorio
pubblico deve chiedere l'autorizzazione ministeriale; mentre se lo stesso
soggetto intende invece svolgere alcuni servizi per l'impiego come
affidatario della
Provincia deve essere autorizzato e, inoltre, accreditato dalla Regione.
Nell’intento
di censire tutti i compiti assegnati agli enti locali in materia di lavoro si
segnala infine che il decreto di attuazione della legge n. 30/2003 include le
Province tra i soggetti che possono istituire
commissioni di certificazione dei rapporti di lavoro.
-
- Le questioni aperte.
- Questo impianto normativo offre alla nostra attenzione almeno
tre profili di rilievo:
- i) l’individuazione delle modalità di integrazione
dell’intervento dei diversi soggetti pubblici;
- ii) la capacità di questo sistema di elevare la quota di
incontri tra domanda ed offerta di lavoro in forma strutturata;
- iii)
la ricerca di eventuali forme di presenza pubblica diverse
dall’amministrazione ordinaria in grado
di garantire maggiore tempestività, efficienza ed efficacia.
-
- i) Quanto al primo punto possono essere segnalate due questioni:
la prima di ordine strettamente giuridico,
la seconda invece di tipo organizzativo.
- Sotto
il profilo giuridico, l'autorizzazione a requisiti ridotti di soggetti
pubblici, quali gli enti locali, gli istituti di scuola secondaria superiore e
le Università pubbliche, solleva, secondo alcuni interpreti, un delicato
problema: tra le funzioni ed i compiti amministrativi conferiti alle Regioni e
attribuiti alle Province dal d.lgs. n. 469/97 vi sono la "preselezione e
l'incontro tra domanda e offerta
di lavoro" (norma mai abrogata e che il decreto non sopprime); ed allora sul
piano giuridico
ci si chiede se lo Stato può, nel ribadire tale competenza, autorizzare altri
soggetti pubblici a svolgere le stesse attività, al di fuori di ogni potere
programmatorio delle Regioni e delle Province. Sembra privo della necessaria
coerenza interna un provvedimento che, da un lato, riconosce alle Province le
funzioni ed i compiti amministrativi in materia di servizi per l’impiego e,
dall’altro, autorizza
direttamente altri soggetti pubblici (ed in particolare i comuni) a erogare
gli stessi
servizi, anche
al di fuori di qualunque disegno di programmazione.
- La
seconda questione, si è detto, è di tipo organizzativo. Il rischio che si può
intravedere sul piano organizzativo è la frammentazione dell’intervento
pubblico, disperso in mille rivoli (ogni piccolo Comune con i suoi servizi per
l’impiego scollegati dal resto del sistema provinciale). Ovviamente non è in
discussione l’importanza del contributo che i Comuni possono dare per il buon
funzionamento della rete dei servizi per l’impiego (si tratta di un punto
fermo, condiviso da tutti). Ciò a cui si fa riferimento è la necessità che vi
sia, per quanto riguarda la parte pubblica, un “padrone del processo”. In
altri termini, se un limite è rinvenibile nel decreto, è quello di rendere
debole l’individuazione del soggetto istituzionale che presiede all’esercizio
della funzione. Chi, tra i vari
soggetti pubblici, ha la responsabilità nei confronti dei cittadini
di
garantire che la quantità e la qualità dei servizi erogati siano adeguate al
bisogno esistente sul territorio? La risposta dovrebbe essere: la Provincia.
Ma se altri soggetti pubblici (come le Università, le Camere di commercio, i
Comuni) possono, con risorse proprie o comunque acquisite, decidere
autonomamente di svolgere servizi
per l’impiego, in che consiste il potere di governo della Provincia?
-
- ii) Abbiamo detto in precedenza che obiettivo della riforma dei
servizi per l’impiego è quello di innalzare
la quota di incroci tra domanda ed offerta di lavoro realizzati in forma
organizzata. Su
questo punto i commenti al decreto legislativo n. 276 del 2003 sono
generalmente improntati all’ottimismo,
sulla base del seguente ragionamento: quanto più numerosi sono i soggetti
ammessi a
svolgere questo tipo di servizio, tanto più numerosi saranno gli incroci tra
domanda ed offerta in forma organizzata.
- In
realtà, il risultato non è automatico. E’ necessario infatti che i soggetti
chiamati in causa dal legislatore siano effettivamente interessati. E invero
non depone a favore dell’esistenza di un vivo interesse
il fatto che già in precedenza, ai sensi dell’art. 10 del d.lgs. n. 469, molti
dei nuovi soggetti
avrebbero potuto svolgere attività di mediazione tra domanda ed offerta di
lavoro e non lo hanno fatto.
-
- iii) In questo sistema misto, qual è il rapporto tra pubblico e
privato? La legge sembra orientata ad una “cooperazione forzosa”, giustificata
da una implicita valutazione negativa del pubblico (considerato sempre
inefficiente) e positiva del privato (considerato sempre efficiente).
Consapevole del fatto che la multipolarità può tradursi in confusione, il
legislatore ha comunque disposto che, al fine di favorire la circolazione
delle informazioni relative all’incontro tra domanda ed offerta di lavoro tra
tutti i soggetti coinvolti nel sistema di servizi per l’impiego, è istituita
la Borsa
continua del lavoro.
- Il
decreto legislativo n. 276 del 2003 offre certamente interessanti opportunità
di raccordo pubblicoprivato.
Bisogna però evidenziare che quella offerta dal decreto legislativo n. 276 del
2003 non è l’unica prospettiva possibile. Accanto a queste forme ne possono
esistere altre, già sperimentate, in cui pubblico e privato si uniscono per lo
svolgimento di servizi per l’impiego ed attività di formazione professionale,
adottando agili forme di tipo privatistico, mediante la costituzione di
società,
in grado di assicurare la necessaria efficienza.
-
- 3. Le esternalizzazioni.
-
- Con il termine “esternalizzazione” (ovvero anche
outsourcing)
si
indica quel fenomeno attuale attraverso cui determinate attività aziendali,
fondamentali per l’impresa e tradizionalmente esercitate
internamente alla stessa, vengono affidate all’esterno attraverso la
stipulazione di
contratti d’appalto
o di altro tipo. In questo modo l’azienda mira a migliorare la propria
efficienza, mediante un
contenimento di tempo e di costi. Affidando a soggetti esterni tali attività,
l’azienda si mette in condizione di concentrare interamente le proprie risorse
sull’attività principale (liberando costi ed energie profuse per attività
collaterali) e di migliorare in questo modo la propria competitività sul
mercato.
-
- I caratteri generali della nuova
disciplina
- Tra
i punti più significativi del d. lgs. n. 276 del 2003 vi è la nuova disciplina
degli appalti di opere e servizi e di quella che viene definita
somministrazione di lavoro (il “vecchio” lavoro interinale, oltre a quello che
viene chiamato staff
leasing o
somministrazione a tempo indeterminato). Se poi si considera che il decreto
contiene una riforma della disciplina del trasferimento del
ramo di azienda, nonché del comando o distacco, possiamo dire che viene
completamente innovato il quadro giuridico in cui si collocano i fenomeni di
outsourcing
e
di esternalizzazione, fenomeni apparentemente
inarrestabili nel modo attuale di organizzazione delle imprese ed anche dei
pubblici servizi.
- Occorre
fissare subito i criteri attorno a cui viene organizzata la revisione degli
istituti che
insistono sull’outsourcing,
perché
essi non sono di immediata rilevazione. Il decreto legislativo abroga
espressamente la vetusta legge n. 1369 del 1960 sul divieto di interposizione
e, nello stesso tempo, gli
artt. 1-11 della legge n. 196/1997 che aveva legalizzato il lavoro interinale,
il quale assumeva nel sistema
il ruolo di vera e propria eccezione al divieto di interposizione nelle
prestazioni di lavoro. La
abrogazione di queste due leggi non è funzionale ad una sostanziale
deregolazione – né questo sarebbe stato possibile alla luce della legge-delega
– ma rappresenta unicamente la condizione per una revisione normativa
dell’intera materia.
- Infatti
la legge n. 1369 del 1960, sul divieto di interposizione, è formalmente
abrogata, ma sostanzialmente riscritta dalle norme del d. lgs. n. 276/2003 di
cui si dirà. Solo che la sistematica viene rovesciata. Prima si muoveva da un
generale divieto di interposizione nelle prestazioni di lavoro, contenuto
appunto nella legge n. 1369/1960. Poi, a partire dal 1997, si è sottratto da
tale divieto il lavoro interinale. Oggi si muove dalla disciplina di quella
che viene chiamata somministrazione
di manodopera sia a tempo determinato (il
vecchio lavoro interinale) sia
a tempo indeterminato (il
nuovo staff
leasing) per
prevederne la liceità solo in caso di esercizio autorizzato e nei
casi espressamente previsti.
- Oltre
alla previsione di sanzioni penali, in caso di esercizio non autorizzato (art.
18 del d. lgs. n. 276/2003),
si sanziona la somministrazione al di fuori dei limiti e delle condizioni di
cui agli artt.
20 e 21 (cd. somministrazione
irregolare), attraverso
l’imputazione del rapporto di lavoro in capo all’utilizzatore. In aggiunta si
costruisce la nuova, e per la verità di incerta identificazione, fattispecie
della somministrazione
fraudolenta, per
le ipotesi in cui essa sia posta in essere “con la specifica finalità di
eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicato al
lavoratore” (art. 28).
- Dunque,
resta un generale divieto di interposizione o somministrazione di lavoro. Del
resto la conferma esplicita dello stesso termine “interposizione” – qui
aggettivata come illecita – si ha nella rubrica
dell’art. 84, che consente di fare ricorso all’istituto della certificazione
(cfr. infra, § 6) ai fini della distinzione tra somministrazione di lavoro e
appalto.
- Il
decreto poi ridisciplina gli effetti lavoristici dell’appalto di opere e
servizi (espungendo l’obbligo,
già contenuto nell’art. 3 della legge n. 1369/1960, della c.d. parità di
trattamento) e, coerentemente con la sopravvivenza del divieto di
interposizione, si preoccupa del problema fondamentale, che ha sempre afflitto
l’applicazione della l. n. 1369, vale a dire quello dei suoi tratti distintivi
rispetto a quest’ultima.
- E,
sempre coerentemente con la persistenza nell’ordinamento del divieto di
interposizione, affronta la questione dei limiti del distacco; istituto,
quest’ultimo, di origine giurisprudenziale, che si è sempre
considerato in potenziale rotta di collisione col divieto di
interposizione.
-
- Alle origini del divieto di interposizione nelle prestazioni di
lavoro
- Al
fine di comprendere meglio la portata delle innovazioni introdotte e di darne
una valutazione maggiormente consapevole, è opportuno ritornare alle origini
del divieto di interposizione contenuto nella l. n. 1369 e ai mutamenti che ne
hanno reso l’impianto vetusto e non più adeguato alle
caratteristiche dell’odierno mercato del lavoro.
- Nonostante
l’apparenza, poche disposizioni hanno per la verità origini così confuse e
riposano su giustificazioni vischiose, di diverso segno e pregnanza. La
ratio
più
immediata che presiedeva alla l. n. 1369 era quella di evitare che
l’imprenditore, ponendo un diaframma tra sé e i lavoratori, ovvero
interponendo un soggetto che si limita ad assumere, dirigere e retribuire la
manodopera, senza impiego di propri capitali ed attrezzature, potesse sfuggire
alle obbligazioni che conseguirebbero alla diretta utilizzazione delle energie
lavorative dei prestatori d’opere: dunque una ragione antifraudolenta.
- Prima
della legge del 1960 qualcuno aveva anzi teorizzato che la dissociazione tra
titolare del rapporto di lavoro ed effettivo fruitore della prestazione
lavorativa fosse già interdetta dall’ordinamento.
E ciò perché, se è lavoratore subordinato, in base all’art. 2094 c.c.,
chi si obbliga a prestare il proprio lavoro “alle dipendenze e sotto la
direzione dell’imprenditore”, è impossibile sussumere nel tipo legale lavoro
subordinato il contratto tra datore e prestatore avente ad oggetto un’attività
lavorativa destinata ad essere utilizzata da un soggetto terzo. Quest’ultimo
contratto si configurerebbe come un contratto atipico e là dove fosse
utilizzato per eludere o vanificare norme imperative di tutela del lavoratore,
quindi in funzione di interessi non meritevoli di tutela, esso dovrebbe essere
escluso dal novero dei contratti cui l’ordinamento riconnette gli effetti
voluti dalle parti.
- Per
la verità è quanto meno dubbio che nella formulazione dell’art. 2094 vi siano
argomenti univoci a sostegno dell’incompatibilità tra schema del lavoro
subordinato e somministrazione di manodopera. Ma ad ogni buon conto si può
tralasciare ora questo aspetto, anche perché esso è
stato superato dalla legge del 1960.
- Il
punto è che, se il divieto di interposizione si giustificava con ragioni
antifraudolente, la legge ha poi finito per oggettivarlo, svincolandolo
dall’accertamento della frode. Non era infatti essenziale, nel sistema della
l. n. 1369, ai fini dell’applicazione del divieto e dell’applicazione
dell’apparato sanzionatorio, che l’interponente avesse inteso eludere obblighi
retributivi e contributivi, e neppure che il trattamento riservato ai
lavoratori interessati fosse inferiore a quello cui essi avrebbero avuto
diritto
se assunti direttamente alle dipendenze dello stesso utilizzatore.
La
legge, mentre poneva il divieto di interposizione, disciplinava altresì gli
effetti lavoristici degli appalti di opere e servizi, ex art. 1655 c.c.,
inerenti al ciclo produttivo dell’impresa, sancendo un principio di parità di
trattamento tra i dipendenti del committente e quelli dell’appaltatore, e
prevedendo
un’ipotesi di responsabilità solidale in capo a committente ed appaltatore per
i crediti
di lavoro
dei dipendenti dell’appaltatore, nonché degli istituti previdenziali.
Queste
regole erano invero costellate di eccezioni, mediante la menzione di singole
attività cui questa normativa garantistica non andava applicata; e ciò al
fine, o comunque con l’effetto, di sottrarre al divieto di interposizione
tipologie di lavori che altrimenti vi sarebbero ricaduti (si pensi
ad
es. ai lavori di facchinaggio, pulizia e manutenzione ordinaria degli
impianti). Il
vero è che la “storica” legge n. 1369 nasce in una fase in cui decentramento
voleva dire soprattutto sfruttamento aggiuntivo dei lavoratori e lucro
parassitario da parte di pseudo-appaltatori di mera manodopera. Si muoveva,
dunque, in un’ottica marcatamente proibizionista e si tendeva a disincentivare
nel loro complesso i processi di esternalizzazione, senza eccessive
distinzioni. Approccio ben diverso da quello seguito in altri paesi che, meno
preoccupati di demonizzare i processi di decentramento, mirano solo a creare
una forte condivisione di responsabilità tra committente ed appaltatore.
- Soprattutto,
la legge n. 1369/60 nasce in una fase economica in cui l’organizzazione di
impresa è caratterizzata da un’integrazione verticale dei fattori produttivi.
Per un secolo questa è stata la tendenza. Ma ora il processo di integrazione
industriale realizzato in verticale dentro l’impresa ha preso
la direzione opposta e si sta realizzando in orizzontale tra le imprese. Senza
pronunciarsi sulla
definitività della tendenza, una parte di quello che viene chiamato
post-fordismo
sta
proprio in ciò: per competere l’impresa si concentra sul core
business e
compra tutto il resto. Non solo: la legge n. 1369 nasce in un contesto e in
una fase economica caratterizzati da un’accentuata materializzazione dei
processi produttivi. Oggi la rivoluzione elettronica sta segnando una nuova
era in cui alla centralità dell’apparato strumentale del lavoro e delle
materie prime si è sostituito il primato dell’intelligenza, dell’informazione
computerizzata e più in generale dei servizi. E’ il fenomeno che si indica
come smaterializzazione dell’impresa: sempre più la funzione imprenditoriale
si realizza attraverso l’impiego di beni immateriali o mediante attività
puramente organizzative della forza-lavoro, con il relativo ridimensionamento
di quegli elementi (attrezzature,
impianti etc.) che erano tradizionalmente ritenuti i soli idonei a
identificare l’azienda.
-
- La progressiva erosione del divieto di
interposizione.
- Proprio
questa evoluzione delle strutture organizzative dell’impresa aveva del resto
indotto la giurisprudenza ad un aggiornamento interpretativo della legge n.
1369. Per la verità la legge nasce con un vizio di origine: quello di non
avere definito il fenomeno interpositorio, di cui si è costretti a
dare una definizione a
contrario, ovvero
in negativo: è interposizione ciò che non è appalto di opere o
servizi. In un contesto organizzativo tendenzialmente stabile questo poteva
non causare grandi problemi: un po’ come per la subordinazione, anche per
l’interposizione il fenomeno, o meglio il suo
contrario, non era difficilmente individuabile nella realtà.
- Si
spiega così che – non diversamente dalla vicenda analoga della subordinazione
– la giurisprudenza si sia sempre rifatta ad indici presuntivi. Ebbene, tra
gli indici rivelatori dell’esistenza dell’appalto, utilizzati dai giudici, vi
è sicuramente la gestione dei rapporti di lavoro da parte dell’appaltatore, in
completa autonomia, attraverso l’esercizio del potere direttivo e disciplinare
sui lavoratori. La direzione e il coordinamento della forza lavoro da parte
dell’appaltatore è anzi un indice in ascesa nella giurisprudenza, a fronte
dell’appannamento dell’efficienza
scriminante e del valore sintomatico del profilo “attrezzistico e
impiantistico”. Il
dibattito dottrinale va ancora più in là perché, attenuato il valore
scriminante di mezzi e attrezzature,
si finisce per dover rilevare che, sul piano civilistico della nozione di
appalto, non
vi è nulla che impedisca di ricomprendervi il contratto avente per oggetto una
prestazione realizzata prevalentemente
o anche esclusivamente mediante l’impiego di forza-lavoro. Ma
un’altra breccia nell’impianto della l. n. 1369 è stata rappresentata dalla
legalizzazione del lavoro interinale. Certo, il lavoro interinale è
giustamente rappresentato come un’eccezione al generale divieto di
interposizione che viene mantenuto in vita. Sul piano sistematico, però, e dei
principi, essa mette in crisi il postulato – si potrebbe dire il “dogma” –
della necessaria corrispondenza tra titolarità formale del rapporto di lavoro
e utilizzazione della prestazione lavorativa che sta dietro alla l. n.
1369.
-
- Interposizione, appalto di servizi e somministrazione di lavoro
nella nuova normativa
- Questo è il quadro che si presenta al legislatore delegante e
delegato: un quadro propizio ad interventi sullo scricchiolante impianto della
storica legge del 1960. La legge, come detto, appare vetusta a fronte di
un’impresa esternalizzata e smaterializzata, con conseguente difficoltà di
tracciare il discrimine tra appalto e interposizione, al cui divieto ha
inferto un colpo decisivo la legalizzazione del lavoro interinale.
- Da
quel che si è prima detto, risulta che la materia ha subito sconvolgimenti
sistematici minori di quelli temuti da qualcuno ovvero auspicati da altri.
Alla legalizzazione del lavoro interinale si aggiunge quella dello
staff
leasing, oggi
denominati somministrazione a tempo determinato e a tempo indeterminato, che
possono continuare ad essere rappresentati come eccezioni al divieto di
interposizione di manodopera.
- Il
punto indubbiamente più innovativo - e denso di interrogativi in relazione al
suo rapporto con l’appalto - è rappresentato dalla legittimazione dello
staff
leasing: diversamente
da quanto previsto per la somministrazione a tempo determinato, vi è nel
decreto delegato un’elencazione di ipotesi tassative in cui è ammissibile la
somministrazione di lavoro a tempo indeterminato. Questo elenco menziona
innanzitutto attività che erano considerate (o qualificate) dalla stessa legge
n. 1369 o dalla giurisprudenza come oggetto di appalto lecito. Ma menziona
anche tipi di attività particolarmente innovative a sostegno del sistema
produttivo e delle imprese (v. ad es. attività specialistiche di consulenza
direzionale, assistenza alla certificazione, programmazione delle risorse
etc.). Qualcuno
ha detto che lo staff
leasing può
ben essere in concorrenza con il regime dell’appalto di servizi (poiché il
maggior costo dei servizi offerti dalle agenzie di somministrazione sarebbe
bilanciato da una maggiore qualità).
- Ma uno degli aspetti più problematici della riforma è proprio
rappresentato dalla distinzione tra somministrazione di lavoro e appalto. A
questo proposito non vi è nel decreto delegato che la sommaria riproduzione
dei criteri elaborati dalla giurisprudenza. Stando alla lettera dell’art. 29,
l’appalto si distingue dalla somministrazione “per l’organizzazione dei mezzi
necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare (…)
dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei
lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per l’assunzione, da parte del
medesimo, del rischio di impresa”.
- Se,
come qualcuno ha detto, i mezzi possono anche essere immateriali, l’enfasi
finisce per essere posta sull’esercizio del potere direttivo nei confronti dei
lavoratori utilizzati nell’appalto. Questo dovrebbe
allora rappresentare il criterio discretivo rispetto alla somministrazione di
manodopera per
la
quale, infatti, l’art. 20, 2° co., dispone che, per tutta la durata della
somministrazione, i
lavoratori svolgono
la propria attività nell’interesse e sotto la direzione e il controllo
dell’utilizzatore.
- Se
questa è la conclusione, può però risultare discutibile affidare ad un
elemento di così difficile identificazione, quale l’esercizio del potere
direttivo, il discrimine fra due regimi di tutela del lavoratore
(quello dell’appalto e quello della somministrazione) assai differenti quanto
ad
intensità.
-
- 3.1. La somministrazione di manodopera.
(art. 1, legge delega; artt. 20-28, decreto legislativo)
-
- Introduzione.
- Come
si è detto, nel corso degli ultimi quarant’anni, uno dei cardini della
disciplina del mercato del
lavoro è stato il generale divieto di interposizione di manodopera introdotto
dalla legge n. 1369/1960.
In particolare, l’art. 1 di quest’ultima stabiliva: “è vietato
all’imprenditore di
affidare in appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma […]
l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera
assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario, qualunque
sia la natura dell’opera o del servizio cui le prestazioni si riferiscono”.
Una
prima consistente deroga al generale divieto di interposizione è stata
introdotta dalla legge n. 196/97 (c.d. “Pacchetto Treu”), la quale ha
disciplinato la fornitura di lavoro temporaneo (o lavoro interinale).
- Come
detto, la legge delega n. 30/2003 (attuata dal d.lgs. n. 276/2003) ha portato
alla sostanziale liberalizzazione della somministrazione di manodopera. La
nuova figura della “somministrazione” prevista dalla riforma è, quindi,
destinata ad assorbire al suo interno sia il lavoro temporaneo, o interinale,
disciplinato dal c.d. pacchetto Treu, sia il c.d. staff-leasing,
sino
ad oggi vietato dal nostro ordinamento.
-
- La nozione di somministrazione.
- Il
decreto definisce la somministrazione come la “fornitura professionale di
manodopera, a tempo indeterminato o a termine”. Staff-leasing
e
lavoro temporaneo, dunque, divengono articolazioni, modi
di essere, di una più generale fattispecie denominata somministrazione.
- Schematizzando, si instaura una relazione trilaterale in virtù
della quale i lavoratori, assunti da un’agenzia di somministrazione (d’ora
innanzi “agenzia”), sono chiamati a svolgere un’attività lavorativa presso un
soggetto (“utilizzatore”) con il quale l’agenzia abbia concluso un contratto
di fornitura di manodopera. Per tutta la durata della somministrazione, come
dispone l’art. 20, “i lavoratori svolgono la propria attività nell’interesse
nonché sotto la direzione e il controllo dell’utilizzatore”.
- Il vantaggio del ricorso a tale schema negoziale può essere
duplice:
- i)
attraverso la somministrazione è possibile avvalersi delle prestazioni di
manodopera assunta da altri soggetti (le agenzie di somministrazione), cui è
imputata la titolarità del rapporto di lavoro. In altre parole, la
somministrazione consente all’imprenditore di utilizzare le prestazioni di un
certo numero
di lavoratori senza sobbarcarsi degli oneri che solitamente gravano sul datore
di lavoro; ii)
inoltre, la somministrazione a tempo determinato consentirà, così come è
accaduto in passato al lavoro temporaneo, di selezionare il personale da
assumere stabilmente, svolgendo nella sostanza una funzione di “prova”.
-
- La struttura del rapporto.
- Quando si parla di somministrazione vengono dunque in
considerazione due rapporti distinti:
- i)
da un lato, il rapporto di lavoro che lega il lavoratore all’agenzia, che è un
rapporto di lavoro subordinato
nel quale l’assunzione del lavoratore può avvenire a tempo indeterminato o a
termine; ii)
dall’altro lato, il rapporto che si instaura in seguito alla conclusione del
c.d. “contratto di somministrazione”
tra l’agenzia e l’utilizzatore della prestazione; tale contratto può prevedere
che
la somministrazione
avvenga per un tempo definito –
ossia a termine – oppure a tempo indeterminato. La somministrazione realizza
la dissociazione tra titolarità del rapporto con il prestatore di lavoro, che
resta in capo all’agenzia intermediatrice, ed effettiva utilizzazione della
prestazione lavorativa, svolta presso un terzo soggetto. Tra lavoratore ed
utilizzatore, perciò, non intercorre un rapporto di lavoro, ma una
relazione di fatto, ancorché connotata dall’esercizio del potere
direttivo da parte dell’utilizzatore. Si prevede infatti che “per tutta la
durata della somministrazione i lavoratori svolgono
la loro attività nell’interesse nonché sotto la direzione e il controllo
dell’utilizzatore”.
-
- I requisiti per lo svolgimento dell’attività di
somministrazione.
- Per
poter svolgere l’attività di somministrazione, l’agenzia deve iscriversi ad un
apposito Albo delle
agenzie per il lavoro, tenuto presso il Ministero del lavoro e delle Politiche
sociali. La domanda di iscrizione all’Albo va inoltrata al Ministero, il
quale, entro sessanta giorni, accertata la sussistenza dei requisiti di legge,
rilascia un’autorizzazione provvisoria all’esercizio dell’attività di
somministrazione.
I requisiti di legge sono di carattere giuridico (ad es., costituzione nella
forma
di società di capitali o cooperativa) e finanziario (ad es., la sussistenza di
un capitale minimo determinato).
-
- Il contratto di somministrazione.
- Il
contratto di somministrazione può essere definito come il contratto con il
quale un soggetto (l’agenzia) si obbliga a fornire manodopera, a tempo
determinato o indeterminato, ad un altro soggetto
(l’utilizzatore) verso il pagamento di un corrispettivo.
-
- La somministrazione a tempo indeterminato (c.d.
staff-leasing).
- La
prima forma di somministrazione presa in considerazione dal decreto è quella a
tempo indeterminato (c.d. staff-leasing).
- La
somministrazione di lavoro a tempo indeterminato è ammessa solo in presenza di
causali obiettive tassativamente previste dalla legge. In ogni caso i
contratti collettivi nazionali o
territoriali stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro
comparativamente più rappresentative potranno introdurre ulteriori ipotesi.
Quindi, anche in considerazione di tale potere assegnato ai contraenti
collettivi, lo spettro delle possibilità di ricorso a tale strumento pare
piuttosto ampio.
-
- La somministrazione a termine.
- La
somministrazione di lavoro a tempo determinato, nel disegno del legislatore, è
destinata ad occupare il posto precedentemente assegnato al lavoro interinale:
la nuova disciplina della somministrazione
a termine si sostituisce, abrogandola, a quella prevista dalla legge n.
196/1997.
A differenza dello staff-leasing,
per
il quale sono richieste causali obiettive tassativamente previste,
essa
è consentita, più genericamente, in presenza di ragioni di carattere tecnico,
produttivo, organizzativo
o sostitutivo, analogamente a quanto previsto in materia di contratti a
termine ai
sensi del d.lgs. n. 368/2001.
- Memore
del dibattito seguito all’emanazione del decreto legislativo sui contratti a
termine, il legislatore, questa volta, si è premurato di precisare che le
ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo possono
anche essere riferibili all’ordinaria
attività dell’utilizzatore.
Questa precisazione permette di affermare che ai fini del ricorso alla
somministrazione a termine – a differenza di quanto avveniva per il lavoro
interinale – non è più richiesto il requisito del soddisfacimento di esigenze
di carattere temporaneo dell’utilizzatore. Lo strumento della somministrazione
a tempo determinato, dunque, si rende fruibile in un numero potenzialmente più
ampio di casi.
- Quanto
alla valutazione delle causali obiettive che giustificano il ricorso alla
somministrazione, il decreto stabilisce che “il controllo giudiziale é
limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell'ordinamento,
all'accertamento della esistenza
delle
ragioni che la giustificano e non può essere esteso fino al punto di sindacare
nel
merito valutazioni
e scelte tecniche, organizzative o produttive
che spettano all'utilizzatore”.
- In
caso di somministrazione di lavoro a tempo determinato – la quale sostituisce
il vecchio lavoro interinale – “è
nulla ogni clausola diretta a limitare, anche indirettamente, la facoltà
dell’utilizzatore di
assumere il lavoratore al termine del contratto di somministrazione”. Rispetto
alla previgente disciplina, però, c’è una differenza importante. Mentre prima
il divieto era assoluto, ora è prevista una possibilità di deroga: la norma,
infatti, “non trova applicazione nel caso in cui al lavoratore sia corrisposta
un’adeguata indennità, secondo quanto stabilito dal contratto collettivo
applicabile al somministratore”.
In mancanza di disciplina collettiva, nel silenzio della norma, è da ritenersi
che la deroga non sia consentita.
-
- Divieti di ricorso alla somministrazione.
- La stipulazione del contratto di somministrazione, sia essa a
tempo determinato o indeterminato, è vietata in tre casi:
- i) per la sostituzione di lavoratori che esercitino il diritto
di sciopero;
- ii) salva diversa disposizione degli accordi sindacali, presso
unità produttive nelle quali si sia proceduto, entro i 6 mesi precedenti, a
licenziamenti collettivi che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle stesse
mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione; ovvero presso
unità produttive in cui sia in corso una sospensione dei rapporti o una
riduzione dell’orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale,
che interessino lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il
contratto di somministrazione;
- iii) da parte delle imprese che non abbiano effettuato la
valutazione dei rischi ai sensi del d.lgs. n. 626/1994.
-
- Forma e contenuto del contratto di
somministrazione.
- Il
contratto di somministrazione deve essere stipulato in forma scritta. La
mancanza di forma scritta
comporta la nullità
del
contratto di somministrazione: in tal caso i lavoratori sono considerati a
tutti gli
effetti alle
dipendenze dell’utilizzatore. Esso
deve obbligatoriamente contenere una serie di elementi, nell’indicare i quali
le parti devono recepire le indicazioni contenute nei contratti collettivi. È
quindi espressamente esclusa la possibilità per le parti individuali di
derogare a quanto stabilito
in sede di contrattazione collettiva.
-
- Il rapporto di lavoro tra l’agenzia e il
lavoratore.
- Per
quanto riguarda la relazione che intercorre tra il lavoratore e l’agenzia, si
è detto che le due parti stipulano
un contratto di lavoro. L’assunzione può essere a tempo determinato o
indeterminato.
-
- L’assunzione a tempo indeterminato.
- L’assunzione del lavoratore da parte dall’agenzia avviene a
tempo indeterminato in due casi:
- i)
nel caso di somministrazione a tempo indeterminato (staff-leasing).
In
tal caso, il rapporto di lavoro tra agenzia e lavoratore è soggetto alla
“disciplina generale dei rapporti di lavoro di cui al codice civile e alle
leggi speciali”;
- ii)
anche nel caso di somministrazione a termine, l’agenzia può assumere il
lavoratore a tempo indeterminato: in questo caso, si alterneranno periodi in
cui il lavoratore svolge la prestazione di lavoro
presso l’utilizzatore e periodi in cui il lavoratore rimane a disposizione
dell’agenzia, in attesa di nuova assegnazione. Durante il periodo in cui il
lavoratore resta a disposizione, l’agenzia è tenuta
a
corrispondergli un’indennità di disponibilità, la cui entità è stabilita dai
contratti collettivi.
In caso di
assegnazione del lavoratore ad attività lavorativa part-time
(che
può essere prestata sia presso un soggetto utilizzatore, sia presso lo stesso
somministratore), l’indennità di disponibilità è proporzionalmente
ridotta.
- Quando,
come in questo caso, il lavoratore sia assunto dall’agenzia a tempo
indeterminato, ma somministrato a tempo determinato, il rapporto di lavoro è
soggetto alla disciplina prevista dal d.lgs.
n. 368/2001 sul lavoro a termine, in quanto compatibile.
-
- L’assunzione a tempo determinato.
- L’assunzione
a termine da parte dell’agenzia è compatibile unicamente con lo schema della
somministrazione
a tempo determinato. Il rapporto di lavoro tra agenzia e lavoratore è
soggetto
alla disciplina
prevista per i contratti a termine (cfr.
d.lgs. n. 368/2001),
in quanto compatibile. È
in ogni caso esclusa l'applicazione dell'art. 5, commi 3 e 4, del d.lgs. n.
368/2001, per cui potrà essere stipulato
un secondo contratto, diverso dal primo, senza peraltro incorrere nelle
limitazioni previste
in
materia di successione di contratti a termine.
- Il
termine inizialmente posto al contratto di lavoro può essere prorogato,
purché
siano rispettate alcune condizioni, ossia:
- i) che vi sia il consenso del lavoratore;
- ii) che la proroga sia oggetto di una pattuizione scritta;
- iii) che il termine sia prorogato “nei casi e per la durata
prevista dai contratti collettivi applicati dal somministratore”.
-
- L’esercizio del potere disciplinare.
- Data
la dissociazione tra titolarità del rapporto ed utilizzazione della
prestazione, una serie
di poteri datoriali resta in capo al somministratore. Tra questi, vi è il
potere disciplinare. Infatti viene affermato che l’esercizio del potere
disciplinare “è riservato al somministratore”. Ai fini dell’esercizio di tale
potere, si prevede che l’utilizzatore comunichi al somministratore gli
elementi che formeranno oggetto della contestazione ai sensi dell’art. 7 dello
Statuto dei lavoratori. Quindi, nel caso in cui il lavoratore si renda
responsabile di un inadempimento nell’esecuzione della prestazione,
l’utilizzatore non potrà sanzionarlo direttamente, ma dovrà informare il
datore di
lavoro (cioè
l’agenzia), in modo che sia questo ad esercitare il potere disciplinare.
-
- Il trattamento economico e normativo.
- Quale
che sia la natura della somministrazione, nel corso della medesima i
lavoratori hanno diritto ad un trattamento economico e normativo
complessivamente non inferiore a quello dei dipendenti di
pari livello dell’utilizzatore, a parità di mansioni svolte.
- Qualora
il lavoratore sia assegnato a mansioni superiori o, comunque, non equivalenti
a quelle dedotte in contratto, l’utilizzatore è tenuto a darne comunicazione
al somministratore, in modo che questi possa tenerne conto nell’erogazione
della retribuzione spettante al lavoratore. In caso di omissione di
comunicazione, “l’utilizzatore risponde in via esclusiva per le differenze
retributive spettanti al lavoratore occupato in mansioni superiori e per
l’eventuale risarcimento del danno derivante
dall’assegnazione a mansioni inferiori”.
- Ciò che il decreto non prevede, attuando così una deviazione
rispetto al principio sancito dall’art. 2103 c.c., è il diritto alla
promozione automatica a seguito dell’assegnazione del lavoratore a mansioni
superiori per più di tre mesi (ovvero per il periodo inferiore eventualmente
stabilito dai contratti collettivi).
-
- L’esercizio dei diritti sindacali.
- Ai lavoratori delle società o imprese di somministrazione si
applicano i diritti sindacali previsti dallo Statuto dei lavoratori.
- Per
impedire che la dislocazione dei dipendenti dell'agenzia presso diversi
utilizzatori possa pregiudicare l'esercizio dei loro diritti sindacali nei
confronti dell'agenzia medesima, ai prestatori di lavoro che dipendono da uno
stesso somministratore e che operano presso diversi utilizzatori compete
uno specifico diritto di riunione secondo la normativa vigente e con le
modalità specifiche determinate dalla contrattazione collettiva.
-
- L’estinzione del rapporto.
- Per quanto riguarda l’estinzione del rapporto, essa può aversi,
in primo luogo, in seguito a dimissioni del lavoratore. Altra ipotesi è quella
del licenziamento. A questo proposito, occorre distinguere fra tre situazioni
diverse:
- i)
nel caso di staff-leasing,
come
si è visto, trova applicazione la “disciplina generale dei rapporti di
lavoro
subordinato”. Di conseguenza, il datore di lavoro potrà recedere in presenza
di una giusta causa
oppure di un giustificato motivo (soggettivo o oggettivo);
- ii)
nel caso di somministrazione a tempo determinato, con assunzione a termine del
lavoratore da parte dell'agenzia, il rapporto di lavoro è soggetto alla
disciplina di cui al d.lgs. n. 368/2001, in quanto compatibile (art. 22, comma
5°). Ne consegue che, il recesso ante
tempus dovrebbe
essere consentito solo per giusta causa;
- iii)
anche nel caso di somministrazione a termine, ma con assunzione del lavoratore
a tempo indeterminato,
è applicabile la disciplina di cui al d.lgs. n. 368/2001, in quanto
compatibile (art.
22, comma 5°). Sennonché nell'ipotesi in cui i lavoratori vengano assunti con
contratto di lavoro a tempo indeterminato, essi rimangono a disposizione del
somministratore per i periodi in cui non svolgono la prestazione lavorativa
presso un utilizzatore, salvo che esista una giusta causa o un giustificato
motivo di risoluzione del contratto di lavoro. Le due disposizioni potrebbero
essere coordinate tra loro in questo modo: a) durante il periodo di
somministrazione, il recesso dovrebbe essere consentito solo per giusta causa,
come accade per i contratti a termine, di cui è richiamata la disciplina; b)
dal momento della cessazione del periodo di somministrazione – dunque, durante
il periodo di disponibilità presso l'Agenzia – il recesso sarebbe possibile
non solo in presenza di una giusta
causa, ma anche un di giustificato motivo.
-
- L’esecuzione della prestazione di lavoro.
- Per
quanto riguarda la relazione tra lavoratore ed utilizzatore, si è già detto
che tra questi due soggetti non intercorre un rapporto di lavoro, ma solo una
relazione di fatto. Tuttavia, anche tra lavoratore
ed utilizzatore sorgono diritti e obblighi reciproci.
- In
primo luogo “per tutta la durata della somministrazione, i lavoratori svolgono
la propria attività nell’interesse nonché sotto il controllo e la direzione
dell’utilizzatore”. Quindi, da un lato, all’utilizzatore
compete l’esercizio del potere direttivo; dall’altro lato, il lavoratore dovrà
eseguire
la prestazione di lavoro attenendosi alle indicazioni dell’utilizzatore e
rispettando gli obblighi di cui agli artt. 2104-2105 del codice civile.
- Per
quanto attiene all’esercizio dei diritti sindacali il prestatore di lavoro ha
diritto ad esercitare presso l’utilizzatore, per tutta la durata della
somministrazione, “i diritti di libertà e di attività sindacale
nonché a partecipare alle assemblee del personale dipendente delle imprese
utilizzatrici”. In
caso di contratto di somministrazione, il prestatore di lavoro non é computato
nell'organico dell'utilizzatore ai fini della applicazione di normative di
legge o di contratto collettivo. Questa norma può avere una certa rilevanza
soprattutto per il fatto che consente all’utilizzatore di mantenersi al di
sotto della soglia dimensionale richiesta per l’applicazione dell’art. 18 o
del Titolo III
dello Statuto dei lavoratori, pur disponendo, nei fatti, di un organico
superiore.
-
- Le patologie del rapporto.
- i)
Parlando della forma del contratto di somministrazione, è già stato affrontato
il problema della sanzione prevista per i vizi di forma: "il contratto
di somministrazione è nullo e i lavoratori sono considerati
a tutti gli effetti alle dipendenze dell'utilizzatore".
- ii) Nel caso in cui la somministrazione sia irregolare,
quando cioè la somministrazione di lavoro avvenga al di fuori dei
limiti e delle condizioni previsti, il lavoratore può chiedere la
costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze del soggetto
utilizzatore, con effetto dall’inizio della somministrazione.
- iii)
Nel caso invece di somministrazione fraudolenta, che ricorre ogni qual
volta la somministrazione sia utilizzata "con la specifica finalità di eludere
norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicato al
lavoratore", al somministratore e all'utilizzatore è irrogata "un'ammenda
di 20 € per ciascun lavoratore coinvolto e per ciascun giorno di
somministrazione".
-
- 3.2 Il comando o distacco del
lavoratore.
(art.
1 legge delega; art. 30, decreto legislativo)
-
- La fattispecie.
- Il
d.lgs. n. 276/2003 stabilisce che si ha distacco quando un datore di lavoro,
per soddisfare un proprio
interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di un
altro soggetto per
l’esecuzione di una determinata attività lavorativa. Istituto di origine
giurisprudenziale, esso trova ora specifica disciplina nell’art. 30, che
individua espressamente i requisiti necessari per la legittimità della
prestazione lavorativa mediante distacco, onde distinguerlo dalla
interposizione, tuttora vietata.
-
- I requisiti del distacco.
- Il legislatore della riforma indica due condizioni necessarie
affinché il distacco possa dirsi legittimo:
- i) l’interesse del datore di lavoro a distaccare il
lavoratore;
- ii) la temporaneità del distacco.
- Per
quanto attiene al primo requisito, in assenza di ulteriori specificazioni, è
sufficiente anche il solo interesse del datore a sgravarsi temporaneamente del
costo del personale distaccato, che resta comunque legato all’impresa in vista
di un suo pronto riutilizzo, ad esempio al termine di una fase di contrazione
produttiva. Un consolidato orientamento giurisprudenziale ritiene altresì
l’interesse del soggetto distaccante e del soggetto fruitore della prestazione
in
re ipsa qualora
il distacco avvenga
presso una società collegata, in considerazione dell’appartenenza ad un
medesimo gruppo. Per quanto riguarda il requisito della temporaneità,
quest’ultimo deve essere inteso in senso potenziale o teorico, ovvero, secondo
l’orientamento consolidato in giurisprudenza, non come brevità ma come non
definitività, correlata alla persistenza dell’interesse al distacco. Ne
consegue che il distaccante ed il distaccatario non devono accordarsi per una
durata predefinita del distacco.
-
- Il distacco comportante un mutamento di mansioni o uno
spostamento oltre i 50 Km.
- Il
legislatore, con una disciplina invero di non facile interpretazione, regola
l’ipotesi in cui al distacco si accompagni un mutamento di mansioni, per
sancire che in tal caso lo spostamento non potrà
avvenire se non con il consenso del lavoratore. E’ difficile coordinare questa
disposizione con
la disciplina del c.d. ius
variandi di
cui all’art. 2103.
- La
norma sembra introdurre una regolamentazione speciale della variabilità delle
mansioni del lavoratore
distaccato, rendendola sempre legittima in caso di consenso del lavoratore, in
deroga
alla regola generale contenuta nell’art. 2103 cod. civ. che limita la
variabilità sia unilaterale che consensuale
all’equivalenza economica e professionale delle mansioni di origine e di
destinazione. Il legislatore disciplina anche l’ipotesi in cui il distacco
avvenga ad una unità produttiva sita
a più di 50
Km da quella presso cui il lavoratore opera, per stabilire che esso è
ammissibile solo in presenza di
un interesse qualificato da comprovate ragioni tecniche, organizzative,
produttive o sostitutive. Non
si capisce in che cosa possano tradursi queste ragioni e soprattutto in che
cosa questo interesse qualificato si distingua da quell’interesse del
distaccante che è condizione di legittimità del distacco.
-
- Il trattamento economico e normativo del
lavoratore.
- “Il datore di lavoro rimane responsabile del trattamento
economico e normativo del lavoratore distaccato, nonché di tutti gli
adempimenti amministrativi e previdenziali”, sancisce il 2° comma dell’art.
30. Per il resto continueranno a trovare applicazione le regole frutto
dell’elaborazione giurisprudenziale.
- Il
distaccatario potrà esercitare il potere direttivo, affinché la prestazione
venga integrata nella propria organizzazione produttiva. L’esercizio del
potere disciplinare dovrebbe rimanere in capo al distaccante,
salvo che nell’accordo tra le imprese sia prevista la delega al distaccatario.
Il
lavoratore, dal canto suo, dovrà rispettare l’obbligo di fedeltà e diligenza
sia verso il distaccatario
che verso il distaccante.
-
- 3.3. Il trasferimento d’azienda.
(art. 1 legge delega; art. 32, decreto legislativo)
-
- Introduzione.
- Il
trasferimento d’azienda è disciplinato dall’art. 2112 cod. civ. e dall’art. 47
della legge n. 428 del 1990,
così come modificati dal d.lgs. n. 18/2001 e, da ultimo, dal d.lgs. 276/2003.
Anche
in relazione all’istituto del trasferimento d’azienda è possibile registrare
un significativo intervento del legislatore della riforma. Quest’ultimo, senza
incidere sugli altri profili di disciplina della
materia (per i quali si rinvia al manuale), riforma il 5° comma dell’art. 2112
nella parte avente
ad
oggetto la definizione della fattispecie “trasferimento di un ramo
dell’azienda”.
- Secondo
la nuova versione del 5° comma dell’art. 2112, deve intendersi per ramo
dell’azienda “l’articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica
organizzata, identificata come tale
dal cedente e dal cessionario al momento del trasferimento”.
- L’individuazione
dei contorni della fattispecie costituisce un’operazione di fondamentale
importanza essendo rivolta a circoscrivere l’ambito di applicazione di una
normativa inderogabile. In altre parole, gli effetti previsti dalla norma, la
continuità del rapporto di lavoro, la solidarietà dell’alienante e
dell’acquirente, nonché la stessa procedura sindacale, si attivano soltanto in
presenza di un trasferimento di azienda. Solo in tal caso la cessione del
rapporto di lavoro non richiede il consenso del lavoratore, a differenza di
quanto accadrebbe nel caso in cui venissero ceduti dall’alienante beni e
rapporti che non formano l’azienda; in tale ultima ipotesi, infatti, il
trasferimento del rapporto lavorativo si configurerebbe come cessione del
contratto, per cui risulterebbe
indispensabile il consenso del lavoratore ai sensi dell’art. 1406 cod. civ.
La
versione originaria dell’art. 2112 – da ultimo modificata nel 2001 -
individuava come ramo d’azienda “l’articolazione funzionalmente autonoma di
un’attività economica organizzata ai sensi del presente comma, preesistente
come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria
identità”.
- La definizione confermava l’orientamento giurisprudenziale
secondo cui, in assenza di un’esplicita previsione legislativa, la disciplina
del trasferimento d’azienda doveva essere applicata anche alle cessioni di una
singola parte dell’azienda, purché si trattasse di un complesso di beni
autonomamente suscettibile di costituire idoneo e compiuto strumento di
impresa. L’articolazione ceduta doveva essere cioè in grado di produrre in
modo autosufficiente un servizio, realizzato in funzione delle esigenze
dell’azienda, ma idoneo ad essere di per sé oggetto anche di valutazioni
economiche, prescindendo dalla funzione che è chiamato ad assolvere
all’interno dell’organizzazione di impresa.
-
- La nuova nozione di ramo d’azienda.
- Il
faticoso equilibrio tra esigenze di tutela dei lavoratori e libertà di scelta
dell’imprenditore raggiunto con la definizione di “ramo d’azienda” elaborata
dal d.lgs. n. 18/2001 viene messo in pericolo
dal d.lgs. n. 276/2003, che dispone la eliminazione del requisito
dell’autonomia funzionale
del
ramo di azienda preesistente al trasferimento.
- Eliminando il requisito della preesistenza dell’autonomia
funzionale, la riforma sembra avvalorare un criterio soggettivo di
identificazione della parte di impresa da trasferire, rimettendo alla volontà
del cedente e del cessionario l’individuazione del c.d. ramo d’azienda e della
sua autonomia funzionale.
- La
direttiva comunitaria 98/50/Ce, di cui il d.lgs. n. 18/2001 è attuazione, nel
definire la fattispecie
del trasferimento di un ramo d’azienda non contiene invero alcun riferimento
al concetto di “autonomia funzionale preesistente al trasferimento”,
richiedendo invece che l’entità trasferita “conservi la propria identità,
intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere attività
economica sia essa essenziale o accessoria”. Nella nozione comunitaria ciò che
viene richiesto, dunque, è solo un residuo di organizzazione che dimostri
l’attitudine all’esercizio potenziale all’esercizio dell’attività di impresa,
implicitamente ammettendo il trasferimento anche di attività non
compiutamente delimitate od indipendenti presso l’impresa cedente.
Da
questo punto di vista, la riscrittura dell’art. 2112 contribuirebbe a rendere
la disciplina interna in
linea
con la tecnica normativa utilizzata dalla direttiva comunitaria 98/50/Ce.
Pur
alla luce della ratio
dell’intervento
riformatore, la disposizione non manca tuttavia di suscitare perplessità.
- E’
già stato sostenuto che il venir meno del requisito della preesistente
autonomia
funzionale del ramo
di azienda eliminerebbe una disposizione a tutela dei lavoratori, facendo del
trasferimento del
ramo di una azienda uno strumento atto ad eludere la disciplina in materia di
licenziamenti collettivi.
- Il requisito era stato indubbiamente introdotto in chiave
antifraudolenta.
- Utilizzando
questa chiave antifraudolenta, ancora oggi si può ritenere che il
trasferimento del ramo d’azienda
debba poggiare comunque, pur in assenza di esplicita previsione normativa,
su
un criterio di
reale autonomia, anche se potenziale, dell’attività trasferita.
-
- 4. Le tipologie contrattuali.
- Tra
le finalità perseguite dal decreto legislativo n. 276/2003, vi è certamente
quella di sedare la continua espansione – registratasi a partire dal 1995 –
dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa. Onde evitare la
stipulazione di contratti di lavoro asseritamente autonomo che, per le
modalità esecutive con cui hanno svolgimento, celano in realtà vere e proprie
situazioni di subordinazione,
il legislatore del 2003 ha ritenuto opportuno muoversi in due direzioni.
- Da un lato, il decreto legislativo n. 276/2003 definisce e
disciplina la fattispecie del c.d. lavoro a progetto (artt. 61 ss.),
introducendo più rigorosi elementi nella qualificazione della fattispecie
“lavoro coordinato e continuativo”.
- Dall’altro,
al fine di incentivare la stipulazione di contratti di lavoro riconducibili, a
pieno titolo, nella più tutelata area della subordinazione, lo stesso
provvedimento legislativo contempla un ampio ventaglio di tipologie e schemi
contrattuali, nell’intento di apprestare modelli negoziali idonei a soddisfare
le esigenze di uno svolgimento flessibile del rapporto di lavoro. All’interno
del decreto legislativo si rinviene dunque un’articolata disciplina relativa
ad una serie di differenti
schemi contrattuali, attraverso i quali può avere svolgimento il rapporto di
lavoro.
- Fatta eccezione per la fattispecie della somministrazione, che
presenta uno schema negoziale trilaterale, le rimanenti tipologie contrattuali
regolate dal d.lgs. n. 276/2003 (lavoro intermittente, a tempo parziale,
ripartito) sono riconducibili allo schema sinallagmatico-bilaterale del
contratto di lavoro subordinato.
- In
relazione ad alcune delle fattispecie contemplate dal legislatore, la
disciplina legale assolve soltanto il compito di introdurre una
regolamentazione più compiuta di rapporti contrattuali già ammessi
dall’ordinamento. Ciò vale per quei rapporti che, pur non essendo corredati da
norme legali ad hoc, dovevano ritenersi legittima espressione
dell’autonomia negoziale delle parti: è questo il caso, come si vedrà, del
contratto di lavoro ripartito (c.d. job-sharing), in cui l’obbligo di
eseguire
la prestazione lavorativa è assunto in solido da parte di due o più soggetti.
In
altre ipotesi, invece, il d.lgs. n. 276/2003, introduce schemi contrattuali
più radicalmente innovativi,
come nel caso del lavoro intermittente (c.d.
job on call) e del lavoro accessorio.
-
- 4.1. Il lavoro a tempo parziale.
(art. 3, legge delega; art. 46, decreto legislativo)
-
- Introduzione.
- Si definisce “tempo parziale”, o part-time, il tempo di
lavoro inferiore al “tempo pieno”. La misura della prestazione di lavoro a
tempo pieno si definisce più precisamente come “orario normale di lavoro”.
L’orario normale di lavoro è fissato dalla legge in 40 ore settimanali, salvo
che esso sia stabilito in una misura inferiore dai contratti collettivi
(cfr. d.lgs. n. 66/2003).
Dunque, il tempo parziale consiste in una durata del tempo di lavoro inferiore
alle 40 ore settimanali o all’eventuale minore
orario fissato dai contratti collettivi.
- Va
da sé, quindi, che con l’espressione “rapporto di lavoro a tempo parziale” (o
rapporto di lavoro part-time)
ci
riferiamo a una prestazione lavorativa di durata inferiore all’orario normale
di lavoro. Il
lavoro a tempo parziale è oggetto di disciplina normativa a diversi livelli:
i) a livello internazionale, è oggetto di una convenzione dell’OIL (n.
175/1994); ii) a livello comunitario, di una
direttiva del Consiglio dell’Unione europea (n. 97/81); iii) a livello
nazionale, è disciplinato dal
d.lgs.
n. 61/2000, modificato più volte (da ultimo, dal d.lgs. n. 276/2003).
- Nel
nostro Paese il lavoro a tempo parziale è stato per molto tempo osteggiato dal
legislatore e da parte del mondo sindacale, principalmente per il fatto che la
prestazione a orario ridotto (e quindi a retribuzione ridotta) pone il
lavoratore in una condizione socio-economica di ulteriore debolezza,
rispetto
a quella che caratterizza normalmente il lavoro subordinato.
- Per
questo motivo, la normativa in materia (sia quella interna, sia quella
internazionale) ha posto un
principio di “non-discriminazione” del lavoratore a tempo parziale rispetto al
lavoratore a tempo pieno comparabile (quello, cioè, svolgente le stesse o
analoghe mansioni). Questo principio comporta che il lavoratore a tempo
parziale non debba essere assoggettato a un trattamento economico-normativo
inferiore in virtù della prestazione a orario ridotto (pertanto, ad es.,
l’importo
della retribuzione “oraria” dovrà essere lo stesso di un lavoratore a tempo
pieno). Lo stesso principio implica, invece, che determinati trattamenti siano
riproporzionati, in base all’orario di lavoro prestato, rispetto a quelli
dovuti per il caso di un lavoratore a tempo pieno (ad es., importo
- 3
Il
d.l.gs. 8 aprile 2003, n. 66 introduce la nuova disciplina dell’orario di
lavoro, che si applica, a mente dell'art. 2, a "tutti i settori di attività
pubblici e privati". Il legislatore si è anzitutto preoccupato di definire
l'orario di lavoro come "qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al
lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua
attività o delle sue funzioni" (art. 1), con ciò superando ed ampliando la
nozione di "lavoro effettivo" fatta propria dalla normativa del 1923.
- L'orario
normale di lavoro è di fissato, come già nella legge del 1997, in 40 ore
settimanali, ma i contratti collettivi, anche aziendali, stipulati dai
sindacati comparativamente più rappresentativi, potranno individuare una
durata inferiore e "riferire l'orario normale alla durata media delle
prestazioni lavorative in un periodo non superiore all'anno" (art. 3).
Qualora venga scelta quest'ultima opzione, le ore di lavoro che eccedano il
limite massimo non saranno computate come
straordinario, ma saranno compensate da altrettante ore di riposo nel restante
periodo di riferimento. E' comunque previsto un limite massimo invalicabile di
durata della prestazione lavorativa settimanale: l'art. 4 prevede che esso sia
stabilito dai contratti collettivi cui si è più sopra fatto cenno, con
l'avvertenza che non potrà peraltro superare le 48 ore settimanali, comprese
le ore di lavoro straordinario. Come nel caso dell'orario normale, anche il
limite massimo di durata potrà essere riferita ad una media della
retribuzione “globale”). Il principio di proporzionalità rispetto all’orario
svolto si applica anche ai fini del computo dei lavoratori a tempo parziale,
quando per disposizione di legge o di contratto collettivo sia necessario
accertare la consistenza dell’organico dell’impresa (per cui, se l’orario
normale è di 40 ore settimanali, il lavoratore part-time a 20 ore
settimanali sarà computato come “mezzo” dipendente).
- Nei
Paesi occidentali il ricorso al lavoro a tempo parziale è fortemente cresciuto
negli ultimi anni, per diversi motivi. Gli Stati, in primo luogo, hanno
incoraggiato l’utilizzo di questa tipologia contrattuale, ritenendo che la
riduzione dell’orario di lavoro fosse strumento idoneo a creare nuovi posti di
lavoro (questo nesso tra riduzione d’orario e benefici occupazionali è in
verità da molti contestato). Più specificamente, si ritiene che il
part-time possa favorire l’ingresso (o il reingresso) nel
mercato del lavoro di fasce deboli della popolazione (donne, giovani,
anziani). E’ possibile peraltro che il lavoro a tempo parziale rappresenti una
scelta consapevole da parte del lavoratore, poiché consente di utilizzare il
tempo di non-lavoro al fine di occuparsi della famiglia, di
svolgere una seconda attività lavorativa (magari di carattere autonomo), di
curare la propria formazione, ecc.
- Esistono
tre tipologie di lavoro part-time: i) part-time “orizzontale”,
per cui la riduzione dell’orario è
effettuata in base ad ogni singola giornata lavorativa; ii) part-time
“verticale”, nel quale la prestazione lavorativa è svolta a tempo pieno,
ma limitatamente a predeterminati periodi nel corso della settimana, del mese
o dell’anno; iii) part-time “misto”, risultante di una combinazione del
part-time orizzontale e di quello verticale.
- Inoltre,
il contratto di lavoro a tempo parziale si può combinare con il contratto a
termine, per cui è consentito
stipulare un contratto di lavoro a tempo parziale e determinato.
-
- Forma, contenuti del contratto e
sanzioni.
- Il
contratto di lavoro a tempo parziale deve essere stipulato in forma scritta.
Tuttavia, questa non è richiesta ad substantiam ma ad probationem.
Ne consegue che la sua mancanza non comporta la nullità
del contratto di lavoro. E’ dunque possibile provare la stipulazione di un
contratto di
lavoro a tempo
parziale mediante la prova testimoniale, nei limiti di cui all’art. 2725 cod.
civ. (cioè
nel caso in
cui il contraente abbia senza colpa perduto il documento che gli forniva la
prova scritta). In difetto di prova, su richiesta del lavoratore, potrà essere
dichiarata la sussistenza fra le
parti di un rapporto di lavoro a tempo “pieno” a partire dalla data in cui la
mancanza della scrittura sia giudizialmente accertata. In altre parole, la
“sanzione” per la mancanza della forma prescritta consiste
nella prosecuzione del rapporto di lavoro con modalità a tempo pieno, con
effetti ex
nunc.
- E’
poi prescritto (art. 2) che nel contratto a tempo parziale siano indicate la
“durata” della prestazione e la sua “collocazione temporale” nel giorno, nella
settimana, nel mese e nell’anno (in altre parole, è necessario indicare il
quantum di ore di lavoro e la sua distribuzione). La mancata
indicazione di questi elementi comporta delle conseguenze sul piano
sanzionatorio. Se non è indicata la durata della prestazione, su richiesta del
lavoratore potrà essere dichiarata la sussistenza tra le parti di un rapporto
di lavoro a tempo pieno a partire dalla data del relativo accertamento
giudiziale.
Se difetta invece la sola collocazione temporale, sarà il giudice a
determinarla: i) facendo riferimento alla eventuale disciplina del
part-time
contenuta
nei contratti collettivi; ii) in mancanza di detta disciplina, con valutazione
equitativa, tenuto conto delle responsabilità familiari del lavoratore
interessato, della sua necessità di integrazione del reddito derivante dal
rapporto a tempo parziale mediante lo svolgimento di altra attività
lavorativa, nonché delle esigenze del datore di lavoro.
- In
entrambi i casi, in cui manchino l’indicazione della durata o della
collocazione temporale, il lavoratore ha diritto a una somma, liquidata dal
giudice in via equitativa, a titolo di risarcimento del
danno.
-
- Il “diritto al part-time”.
- Nel
nostro ordinamento non esiste in linea generale un diritto del lavoratore ad
essere assunto a tempo parziale, né un diritto a vedere trasformato il
rapporto a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale. L’unica
eccezione concerne i lavoratori affetti da patologie oncologiche, i quali
hanno diritto di trasformare il rapporto di lavoro dal tempo pieno al tempo
parziale, nonché di riconvertirlo successivamente in rapporto a tempo pieno.
La trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale è ovviamente
possibile in presenza di un accordo scritto delle parti, convalidato
dalla Direzione provinciale del lavoro.
- La
legge tenta comunque di favorire l’aspirazione di un lavoratore a trasformare
il rapporto da tempo pieno a tempo parziale. Nell’art. 5 del d.lgs. n. 61/2000
si dispone infatti che, qualora il datore di lavoro intenda assumere personale
a tempo parziale, debba: i) darne tempestiva informazione al personale già
dipendente con rapporto a tempo pieno occupato in unità produttive
site
nello stesso ambito comunale, anche mediante comunicazione scritta in luogo
accessibile a
tutti nei locali dell’impresa; ii) prendere in considerazione le eventuali
domande di trasformazione a tempo
parziale del rapporto dei dipendenti a tempo pieno.
- Con riferimento al caso inverso, della trasformazione del
rapporto part-time in rapporto a tempo pieno, la normativa prevede che
il contratto individuale possa assegnare ai dipendenti part-time un
diritto di precedenza nelle future assunzioni a tempo pieno, relativamente
alle stesse mansioni o a mansioni equivalenti.
- Dovendo
intercorrere un accordo tra le parti al fine di modificare, in un senso o
nell’altro, l’orario di
lavoro, la legge precisa che il rifiuto di trasformare il rapporto non
costituisce giustificato motivo di licenziamento.
-
- La disciplina del rapporto a tempo
parziale.
- Come
visto nel precedente paragrafo, le parti del contratto di lavoro a tempo
parziale determinano nel testo contrattuale la durata della prestazione e la
sua collocazione temporale. Da questo punto
di vista,
si è da più parti ritenuto che la disciplina del part-time,
prima
della recente modifica ad opera del d.lgs. n. 276/2003, fosse eccessivamente
“rigida”, consentendo variazioni della durata e della collocazione
temporale solo in presenza di requisiti assai rigorosi. E ciò è stato visto
come una delle
cause dello scarso ricorso al lavoro part-time
da
parte dei datori di lavoro. La riforma ha inciso notevolmente su questo punto,
modificando, da una parte, la disciplina del lavoro “supplementare” e
“straordinario”, nonché delle clausole “elastiche” (strumenti, questi, che
consentono di variare in aumento la durata della prestazione lavorativa);
dall’altra, la disciplina delle clausole “flessibili” (che permettono di
variare la collocazione della durata della prestazione lavorativa).
-
- Lavoro supplementare e straordinario.
- Per
lavoro supplementare si intende il lavoro prestato in misura superiore
all’orario concordato nel contratto individuale, ma comunque inferiore al
tempo pieno. Esso dunque consente di modificare (in aumento) la durata del
lavoro a tempo parziale nel corso dello svolgimento del rapporto. Mentre la
precedente disciplina era molto restrittiva, rendendo piuttosto difficoltoso
il ricorso
al lavoro supplementare, la recente riforma attenua alcune rigidità.
- In
via preliminare, va precisato che il lavoro supplementare ricorre unicamente
nel caso di part-time
di
tipo orizzontale (anche a tempo determinato), dove, come detto, la prestazione
si effettua a orario
ridotto
rispetto all’orario normale giornaliero di lavoro.
- La legge (art. 3) rinvia, per la disciplina del lavoro
supplementare (numero massimo di ore, conseguenze del superamento del numero
massimo di ore, causali in presenza delle quali è ammesso il lavoro
supplementare) ai contratti collettivi stipulati a livello nazionale e
territoriale dai sindacati comparativamente più rappresentativi o, a livello
aziendale, da datore di lavoro e RSA o RSU.
- In presenza di una disciplina collettiva applicabile e nei
limiti da essa fissati il lavoratore sarà tenuto a prestazioni di lavoro
supplementare, senza che sia necessario il suo consenso individuale. Questa
disposizione è stata criticata, poiché si ritiene che impedisca al singolo
lavoratore di programmare con certezza il tempo di lavoro. L’obbligo di
prestare lavoro supplementare ogni volta che il datore lo richieda potrebbe
pregiudicare lo svolgimento di una seconda prestazione lavorativa o la cura di
altri interessi, in vista dei quali il lavoratore si è determinato alla scelta
di un lavoro a tempo parziale.
- Solo
nel caso in cui i contratti collettivi non prevedano e non regolamentino il
lavoro supplementare, e manchi dunque una disciplina collettiva, il datore di
lavoro dovrà necessariamente ottenere il consenso individuale del lavoratore
al fine della prestazione di lavoro supplementare. ii)
Il lavoro straordinario è invece il lavoro prestato in sovrappiù rispetto
all’orario a tempo pieno (che, come detto, è di 40 ore settimanali salva
riduzione da parte dei contratti collettivi). Esso è consentito, nell’ambito
del part-time, solo per le tipologie “verticale” e “misto”, anche a
tempo determinato.
Al lavoro straordinario si applica la disciplina generale, di cui al d.lgs. n.
66/2003.
-
- Clausole elastiche e flessibili.
- Le c.d. clausole elastiche e quelle flessibili
hanno due funzioni diverse.
- Le
prime comportano la variazione in aumento della “durata” della prestazione; le
seconde, la variazione della sua “collocazione temporale”, rispetto a quella
concordata (con riferimento al giorno,
alla settimana, al mese, all’anno) nel contratto individuale. La trattazione è
però unificata
in questo
paragrafo per la sostanziale coincidenza della loro disciplina.
- La
variabilità della durata della prestazione ovvero della sua collocazione
temporale può essere prevista nel rispetto di quanto previsto dai contratti
collettivi. Questi ultimi devono determinare: i) condizioni
e modalità in relazione alle quali il datore di lavoro può modificare la
collocazione della
prestazione
lavorativa o la sua estensione temporale in aumento; ii) i limiti massimi di
variabilità in
aumento della prestazione lavorativa.
- In
mancanza di una disciplina collettiva (o nel caso in cui questa sia
incompleta), le parti individuali possono
accordarsi direttamente.
- L’inserimento
di queste clausole nel contratto comporta per il lavoratore la disponibilità
alle variazioni dette. Consapevole della gravosità di tale obbligo, il
legislatore prevede che tale disponibilità
richieda il consenso del lavoratore formalizzato in uno specifico patto
scritto. Una
volta che le clausole flessibili o elastiche siano inserite nel contratto
individuale, il datore di lavoro potrà esercitare lo ius variandi. Nel
fare ciò, dovrà dare però un preavviso di almeno due giorni (fatte salve
diverse intese tra le parti) e dovrà corrispondere “specifiche compensazioni”
a favore
del lavoratore, secondo quanto stabilito dai contratti collettivi.
- La
effettuazione di prestazioni di lavoro in regime di flessibilità (della durata
e della collocazione) in
violazione della disciplina sulle clausole elastiche e flessibili comporta la
corresponsione a
favore del
lavoratore, oltre che della retribuzione, di una somma a titolo di
risarcimento del danno. Le
clausole elastiche e flessibili possono essere apposte anche ad un contratto
part-time
a
termine.
-
- 4.2. I contratti con finalità formativa.
(art. 2, legge delega; artt. 47-60, decreto legislativo)
-
- Introduzione.
- I
contratti di lavoro con finalità formativa disciplinati dal d.lgs. n. 276/2003
sono
due: i) il contratto di
apprendistato e ii) il contratto di inserimento (ex
contratto
di formazione e lavoro). Tali contratti vengono altresì denominati contratti a
causa mista in quanto lo scambio lavoro contro retribuzione
viene arricchito dal profilo dell’addestramento del prestatore di lavoro.
-
- Le disfunzioni della disciplina
previgente.
- Il
legislatore della riforma non introduce ex novo le due tipologie
contrattuali, limitandosi a modificare, anche se profondamente, la disciplina
dei contratti a contenuto formativo (apprendistato e
formazione lavoro) da tempo presenti nel nostro ordinamento.
- La
ratio dell’intervento governativo in materia è riassumibile nel
tentativo di porre fine alle ambiguità
e agli equivoci che ne hanno contraddistinto l’utilizzo e lo sviluppo.
Le
assunzioni di personale con contratto di formazione si sono fatte via via
sempre più massicce, sino
al punto che le imprese hanno iniziato a coprire con tale tipologia
contrattuale tutto il
loro turn over. Grazie agli incentivi legislativi e contrattuali ad
esso connessi, le aziende acquisivano manodopera
necessaria a costo considerevolmente ridotto.
- Il
fenomeno dell’eccessivo ricorso al contratto di formazione e lavoro ha finito
per oscurare l’altro contratto
formativo, l’apprendistato, che, a sua volta, è stato oggetto di manovre
legislative volte
ad incentivarne l’utilizzo. Ne è conseguita una parziale sovrapposizione dei
due contratti che ne ha determinato la disfunzione.
- La
componente più genuinamente formativa del sinallagma contrattuale è stata per
di più mortificata. Accanto ai tradizionali obiettivi formativi si sono
progressivamente affiancate, fino ad assumere un ruolo preponderante, funzioni
ulteriori ed improprie delle due tipologie contrattuali, quali
la riduzione del costo del lavoro e il sostegno del reddito di fasce sempre
più estese di giovani disoccupati.
-
- Le linee di riforma dal Libro Bianco al d.lgs. n.
276/2003.
- La
revisione dei contratti a contenuto formativo è stata propugnata già dal Libro
Bianco sul mercato del
lavoro. Secondo quest’ultimo, il riordino dei contratti con finalità formativa
avrebbe dovuto attuare una maggiore distinzione tra le funzioni proprie
dell’apprendistato e quelle del contratto di formazione
e lavoro (d’ora in poi CFL): il primo avrebbe dovuto essere valorizzato come
strumento formativo
per il mercato, mentre il secondo avrebbe dovuto essere concepito come veicolo
di inserimento mirato del lavoratore in azienda.
- Un’impostazione
del genere mirava a fare dell’apprendistato una tipologia contrattuale
funzionale alle
esigenze effettive del mercato, e del CFL il mezzo per adeguare la
professionalità posseduta dal
lavoratore
alle concrete esigenze dell’impresa che lo assume.
- Con la riforma, l’apprendistato diventa uno strumento di
formazione vera e propria per il mercato, mentre il CFL viene meno ed al suo
posto il legislatore tipizza un nuovo schema contrattuale flessibile,
denominato contratto di inserimento, in cui il profilo della formazione è del
tutto eventuale rispetto all’obiettivo primario di inserire o reinserire nel
mercato del lavoro particolari categorie di persone.
-
- Il nuovo apprendistato.
- L’art.
47 del d.lgs. n. 276/2003 identifica tre tipologie di contratti di
apprendistato, che,
con diversa gradualità, coniugano la formazione con il lavoro, nell’ottica
della preparazione del giovane non tanto
per la singola attività quanto per il mercato del lavoro.
- i) Il contratto di apprendistato per l’espletamento del
diritto-dovere di istruzione e formazione;
- ii)
Il contratto di apprendistato professionalizzante per il conseguimento di una
qualificazione attraverso
una formazione sul lavoro e un apprendimento tecnico-professionale;
- iii) Il contratto di apprendistato per l’acquisizione di un
diploma o per percorsi di alta formazione.
-
- Il contratto di apprendistato per l’espletamento del
diritto-dovere di istruzione e formazione.
- Finalità
prima di questa tipologia contrattuale è far conseguire al lavoratore una
qualifica
professionale.
- Possono essere assunti con contratto di apprendistato per
l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione, i giovani e gli
adolescenti che abbiano compiuto quindici anni, ovvero, anche soggetti di età
superiore ai diciotto che non abbiano ancora completato il percorso di
istruzione e formazione iniziale.
- Con l’entrata a regime della c.d. riforma Moratti, che prevede
dodici anni di istruzione obbligatoria, questo tipo di contratto di
apprendistato risulta l’unica forma di rapporto di lavoro possibile tra i
quindici e i diciotto anni.
- La durata del contratto non può essere superiore ai 3 anni.
- La
regolamentazione dei profili formativi dell’apprendistato per l’espletamento
del diritto-dovere di istruzione
e formazione è rimandata alle Regioni. In particolare, alle Regioni spetterà
disciplinare il
monte ore di formazione interna ed esterna alla azienda idoneo al
conseguimento della qualifica professionale; il riconoscimento, sulla base dei
risultati conseguiti all’interno del percorso di formazione esterna ed interna
all’impresa, della qualifica professionale ai fini contrattuali; la
registrazione della formazione effettuata nel libretto formativo; la presenza
di un tutore aziendale con formazione e competenze adeguate.
- In particolare questi ultimi due requisiti, libretto formativo
in cui vengono registrate le competenze acquisite durante la formazione del
lavoratore in tutto l’arco della vita lavorativa e tutore aziendale con
formazione e competenze adeguate, dovrebbero scongiurare la possibilità di un
abuso dell’istituto.
-
- Il contratto di apprendistato
professionalizzante.
- Questo contratto consente al lavoratore l’acquisizione di
competenze di base trasversali e tecnico-professionali.
- Possono essere assunti con contratto di apprendistato
professionalizzante i soggetti di età compresa tra i diciotto ed i ventinove
anni.
- La
durata del contratto non può essere inferiore a 2 e superiore a 6 anni. La
regolamentazione dei profili
formativi dell’apprendistato professionalizzante è rimandata alle Regioni.
Saranno
poi i contratti collettivi di lavoro stipulati a livello nazionale,
territoriale o aziendale da associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro
comparativamente più rappresentative a determinare le modalità
di
erogazione ed articolazione della formazione interna ed esterna
all’azienda.
-
- Il contratto di apprendistato per l’acquisizione di un diploma o
per percorsi di alta formazione.
L’obiettivo
di questo contratto è quello di consentire al lavoratore il conseguimento di
un titolo
di studio di
livello secondario, universitario e di alta formazione.
- Possono
essere assunti con questa tipologia contrattuale i soggetti di età compresa
tra i diciotto ed
i ventinove anni.
- Le Regioni saranno responsabili della regolamentazione dei
profili che attengono alla formazione.
-
- Le regole comuni ai tre percorsi e gli
incentivi.
- Il contratto di apprendistato, nelle sue tre varianti,
costituisce una forma di assunzione particolarmente vantaggiosa per i datori
di lavoro per via dei consistenti incentivi normativi, retributivi e
contributivi ad esso connessi.
- Durante il rapporto di apprendistato, la categoria di
inquadramento del lavoratore potrà essere inferiore di due livelli alla
categoria spettante, in applicazione del CCNL, ai lavoratori addetti a
mansioni o funzioni che richiedono qualificazioni corrispondenti a quelle al
conseguimento delle quali è finalizzato il contratto.
- I lavoratori assunti con contratto di apprendistato sono esclusi
dal computo dei limiti numerici previsti per l’applicazione di particolari
normative ed istituti, fatte salve specifiche previsioni di legge o di
contratto collettivo.
- Restano confermati, in attesa della riforma degli incentivi
all’occupazione, gli attuali sistemi di incentivazione economica: retribuzione
ridotta, contribuzione minima e fissa settimanale, la cui erogazione è
soggetta all’effettiva verifica della formazione svolta secondo modalità che
saranno fissate con apposito decreto ministeriale.
- L’eventuale
inadempimento formativo è punito con il versamento della quota di contributi
agevolati e
con la maggiorazione del 100% della quota agevolata.
-
- Il contratto di inserimento.
- La
seconda tipologia contrattuale a contenuto formativo è il contratto di
inserimento (ex
contratto
di formazione e lavoro).
- Preso
atto della quasi totale inesistenza di una componente formativa nel contratto
di formazione e lavoro, fin dalla stesura del Libro Bianco, si è auspicata la
rivisitazione di quest’ultimo come strumento
“per realizzare un inserimento mirato del lavoratore nell’azienda”.
Il
legislatore della riforma ridisegna dunque la figura del CFL, denominandolo
contratto di inserimento, con finalità di inserimento appunto, e, soprattutto,
di reinserimento nel mercato del lavoro di particolari gruppi di lavoratori
attraverso un progetto individuale di adattamento delle competenze
professionali a un determinato contesto lavorativo.
- La durata del contratto di inserimento non può essere inferiore
a nove mesi né superiore a diciotto.
- Il contratto di inserimento viene equiparato quanto a disciplina
applicabile al contratto di lavoro a tempo determinato, da cui si differenzia
per la presenza di un progetto di inserimento e per il fatto che il contratto
non è rinnovabile tra le parti ed eventuali proroghe sono ammesse entro il
limite massimo di durata.
- Possono essere soggetti di un contratto di inserimento:
- -i soggetti di età compresa tra i diciotto ed i ventinove
anni;
- -disoccupati di lunga durata da ventinove fino a trentadue
anni;
- -lavoratori con più di cinquant’anni di età privi di
occupazione;
- -lavoratori che desiderino riprendere un’attività lavorativa e
che non abbiano lavorato per almeno due anni;
- -persone affette da un grave handicap fisico mentale o
psichico;
- -donne
di qualsiasi età residenti in aree geografiche a basso tasso di occupazione
femminile. Elemento
centrale del contratto di inserimento è la messa a punto da parte dei
contraenti del cd. piano di inserimento professionale. Spetta ai contratti
collettivi di lavoro stipulati a livello nazionale, territoriale od aziendale
da associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente
più rappresentativi determinarne le modalità di definizione.
-
- Gli incentivi.
- Per
quanto riguarda gli incentivi, apprendistato e contratto di inserimento non
differiscono in relazione a quelli di tipo normativo e retributivo. Destinato
profondamente a mutare è invece il regime degli incentivi di tipo economico.
In attesa della riforma del sistema degli incentivi all’occupazione, in caso
di contratto di inserimento troveranno applicazione gli attuali incentivi
economici previsti per il cfl ma solo con riferimento all’assunzione di
lavoratori svantaggiati così come
definiti dalla direttiva n. 2204/2002/Ce.
- In
caso di gravi inadempienze nella realizzazione del progetto individuale di
inserimento il datore è tenuto
a versare la quota di contributi agevolati maggiorati del 100%.
-
- 4.3. Le altre tipologie contrattuali (lavoro intermittente,
ripartito, accessorio, occasionale).
-
- Il contratto di lavoro intermittente.
(art. 4, legge delega; art. 33-40, decreto legislativo)
- Mediante
il contratto di lavoro intermittente “un lavoratore si pone a disposizione di
un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa”. Stando
alla definizione legale, dunque, la principale obbligazione gravante sul
lavoratore è costituita non tanto dall’esecuzione della prestazione
di lavoro, quanto dalla propria disponibilità al lavoro.
- Tale
schema contrattuale intende rispondere all’esigenza imprenditoriale di
disporre in modo flessibile della forza-lavoro, per periodi tendenzialmente
brevi ed in modo discontinuo, se e quando se ne manifestasse la necessità. Le
parti, al momento della stipulazione, non determinano con esattezza
l’estensione temporale della prestazione di lavoro né la sua collocazione
temporale, rimanendo perciò incerti sia il quando
sia
l’an
della prestazione lavorativa. Proprio tale stato di incertezza, connaturato
alla fattispecie, mostra chiaramente la sussistenza di speciali
esigenze di tutela del lavoratore, perseguite dal legislatore del 2003 sotto
diversi profili. Innanzitutto,
il ricorso al contratto di lavoro intermittente va annoverato tra i casi, già
conosciuti dall’ordinamento, di c.d. flessibilità contrattata. Il decreto
legislativo rimette infatti ai contratti collettivi, stipulati da sindacati
comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale o territoriale, il
compito di individuare le ipotesi ed i casi in cui sarà consentita la
conclusione di tale contratto. Saranno dunque i contraenti collettivi a
determinare, con riferimento alle peculiarità ed alle esigenze di ciascun
settore merceologico, le situazioni che giustificano la stipulazione di
contratti individuali di lavoro intermittente.
- Sul
piano delle fonti di disciplina della fattispecie, esce invece dai più
collaudati schemi normativi del nostro ordinamento la previsione che
attribuisce al Ministro del lavoro il compito di sostituirsi provvisoriamente
alle parti sociali, attraverso un proprio decreto, ove gli accordi collettivi
di
cui si è appena detto non vengano conclusi.
- In
ogni caso, sino alla stipulazione dei succitati contratti collettivi (o, in
assenza di questi, sino all’emanazione del menzionato decreto ministeriale),
la conclusione di contratti di lavoro intermittente è consentita soltanto in
ipotesi residuali (definite “sperimentali”), individuate secondo un criterio
selettivo soggettivo. I contratti in esame possono essere sin d’ora stipulati
solo da particolari categorie di soggetti svantaggiati (lavoratori
infraventicinquenni disoccupati ovvero ultraquarantacinquenni
espulsi dal ciclo produttivo o iscritti alle liste di mobilità e di
collocamento); soggetti,
questi, di cui si intende, per tale via, promuovere l’assunzione, seppur con
un contratto che
non
garantisce continuità nello svolgimento del lavoro.
- Ciò
posto in ordine alla esatta delimitazione dei possibili contraenti, va detto
che il più rilevante problema giuridico posto dal contratto di lavoro
intermittente è indubbiamente costituito dalla remunerazione,
non tanto delle prestazioni svolte, quanto della disponibilità offerta dal
lavoratore. Nel
momento in cui si obbliga a rispondere alla chiamata del datore di lavoro,
secondo le necessità di quest’ultimo, il lavoratore si trova infatti
nell’impossibilità di destinare il proprio tempo di nonlavoro
allo svolgimento di altre attività produttive di reddito. In questa
prospettiva va perciò letta
la norma (art. 36 del d.lgs. n. 276/2003) che sancisce il diritto del
lavoratore a percepire un’indennità di
disponibilità, fissata dalla contrattazione collettiva in una misura comunque
non inferiore a quella stabilita da un decreto del Ministro del lavoro.
- La disciplina legale relativa all’indennità di disponibilità va
ritenuta costituzionalmente necessaria, poiché discende direttamente dal
principio di sufficienza della retribuzione di cui all’art. 36, 1° comma,
Cost..
- A
tale proposito va del resto ricordato che la Corte costituzionale è già stata
chiamata a pronunciarsi sull’apponibilità di clausole c.d. elastiche nel
part-time (quelle clausole, cioè, con cui viene prevista
dalle parti una facoltà datoriale di mutare la collocazione temporale della
prestazione: sul punto, in tema di contratto a tempo parziale, v.
sub
3.1.); e
con la sentenza n. 210/1992 ha affermato la necessità, a pena di
incostituzionalità ex
art.
36 Cost., di una specifica remunerazione della disponibilità offerta dal
lavoratore, il quale si trova nell’impossibilità di programmare ed utilizzare
il
proprio tempo al fine di svolgere altre attività lavorative.
- Pertanto,
la previsione di un obbligo datoriale di compensare economicamente la
disponibilità del lavoratore è essenziale ai fini della legittimità
costituzionale della disciplina legale del lavoro intermittente, giacché tale
fattispecie limita, per sua stessa natura, la programmabilità del tempo in
cui
il lavoratore non è impegnato nell’esecuzione della prestazione.
- Va
in verità evidenziato che la disciplina voluta dal legislatore del 2003 non
risulta del tutto perspicua,
laddove introduce una poco chiara distinzione tra due tipologie di lavoro
intermittente. Nell’una,
il lavoratore assumerebbe contrattualmente l’obbligo di rispondere alla
chiamata del datore di lavoro, se e quando ciò avvenisse; il che
determinerebbe l’insorgenza del diritto all’indennità di disponibilità.
- Nell’altra,
il lavoratore rimarrebbe libero di rifiutare l’eventuale chiamata del datore
di lavoro;
ed in tal caso non gli sarebbe perciò dovuta alcuna indennità, a fronte di una
disponibilità che nel contratto non viene nemmeno pattuita.
- A
ben vedere, tuttavia, la fattispecie da ultimo descritta non sembra nemmeno
definibile come contratto
di lavoro, se è vero che predispone soltanto una generica base per eventuali
futuri accordi,
senza
determinare però alcun vincolo o impegno in capo alle parti. Il lavoratore si
obbligherebbe in
sostanza
a prestare il suo lavoro “se vorrà”, come il datore di lavoro si obbligherebbe
a convocare il
lavoratore
ed a pagarlo “se vorrà”; il che non fa sorgere, in definitiva, alcun obbligo
contrattuale. L’unica
fattispecie giuridicamente rilevante di lavoro intermittente appare dunque
quella in cui le parti prevedano l’obbligo del lavoratore di rispondere
all’eventuale convocazione, a fronte della corresponsione di un’indennità di
disponibilità.
-
- Il lavoro ripartito.
(art. 4, legge delega; artt. 41-45, decreto legislativo)
- Il
lavoro ripartito (meglio conosciuto come job-sharing)
è
una tipologia contrattuale sorta negli Stati
Uniti, ma ormai diffusa anche nel nostro continente.
- In
Italia il lavoro ripartito, prima della disciplina del d.lgs. n. 276/2003, era
già di fatto utilizzato nella prassi. Pur in mancanza di una apposita
disciplina legale, i contratti collettivi avevano già dettato
alcune regole ed il Ministero del lavoro (cfr. Circolare del Ministero del
Lavoro, n. 43/1998) aveva
fornito alcune indicazioni di principio.
- Pertanto, non si può dire che il d.lgs. n. 276/2003 abbia
“introdotto” nel nostro ordinamento il lavoro ripartito, ma semplicemente che
gli abbia conferito quella maggiore certezza e stabilità di disciplina che
deriva dalla fonte legislativa. Peraltro, tale disciplina riprende ampiamente
quella contrattual-collettiva e, quasi letteralmente, il testo della
menzionata Circolare del Ministero del lavoro.
- Il
job-sharing
è
un contratto di lavoro che ha come parti, da un lato, il datore di lavoro e,
dall’altro, due
lavoratori obbligati
in solido per
un’unica e identica prestazione lavorativa. Riprendendo la nozione civilistica
della solidarietà (v. art. 1292 c.c.) il decreto stabilisce che “ogni
lavoratore resta personalmente e direttamente responsabile dell’adempimento
dell’intera obbligazione lavorativa”. Salvi i tratti di specialità, di cui si
dirà, al lavoro ripartito si applica, in quanto compatibile, la normativa
generale in tema di rapporto di lavoro subordinato e quella eventualmente
prevista specificamente dai contratti collettivi.
- L’utilità
di questa tipologia contrattuale consiste in ciò: il datore di lavoro ha la
possibilità di richiedere l’adempimento della prestazione lavorativa all’uno
come all’altro lavoratore e, in questo senso, ha una maggiore garanzia di
soddisfazione del credito. I lavoratori, d’altro canto, hanno la possibilità
in ogni momento di sostituirsi tra loro e di modificare consensualmente la
distribuzione oraria dei rispettivi turni lavorativi, concordati inizialmente
nel contratto di lavoro con la controparte datoriale. Si tratta pertanto di
una tipologia contrattuale flessibile che, potenzialmente, può offrire
vantaggi a entrambe le parti contrattuali. Certamente, però, il lavoro
ripartito richiede una buona intesa tra i due lavoratori coobbligati, i quali
tempestivamente devono comunicarsi eventuali impedimenti (ad es. in caso di
malattia), affinché, attraverso una pronta sostituzione, la prestazione
lavorativa possa comunque essere adempiuta da uno dei due. Analogamente
a quanto previsto in materia di part-time,
ogni
lavoratore percepisce un trattamento economico e normativo proporzionale
all’attività lavorativa effettivamente
prestata (la
retribuzione, dunque, sarà commisurata per ciascun lavoratore in base
all’orario di lavoro concretamente prestato). Inoltre, sempre in riferimento
al trattamento economico-normativo, il legislatore ha avvertito l’esigenza di
affermare anche per i lavoratori in job-sharing il principio di
nondiscriminazione rispetto ai lavoratori, di pari livello e di pari
mansioni, assunti con altre tipologie contrattuali.
- L’estinzione
del rapporto di lavoro nei confronti di un lavoratore comporta l’estinzione
dell’intero vincolo contrattuale, a meno che, su richiesta del datore di
lavoro, l’altro lavoratore si renda disponibile
ad adempiere integralmente o parzialmente l’intera prestazione
lavorativa.
-
- Il lavoro accessorio.
(art. 4, legge delega; artt. 70-74, decreto legislativo)
- Gli
artt. 70 ss. del decreto legislativo n. 276/2003 sono dedicati alla disciplina
del “lavoro accessorio”,
che contempla una singolare ed innovativa modalità di remunerazione di talune
attività
lavorative saltuarie.
- Si
tratta di uno schema contrattuale assai particolare, improntato alla massima
semplificazione degli
adempimenti fiscali e previdenziali, ed al quale le parti possono accedere
soltanto ove ricorra una duplice condizione.
- Una prima delimitazione, di natura oggettiva, restringe l’area
del lavoro accessorio ad una serie predeterminata di prestazioni “meramente
occasionali”, indicate dall’art. 70, svolte in favore di famiglie, enti
pubblici ed organizzazioni non-profit. Si tratta, per citare solo le
figure emergenti, di prestazioni di assistenza domiciliare e di lavori
domestici a carattere straordinario, di piccoli lavori di giardinaggio e
pulizia, di collaborazione alla realizzazione di manifestazioni sociali,
sportive, culturali o caritatevoli.
- Una seconda delimitazione, di natura soggettiva, circoscrive
l’ambito del lavoro accessorio a determinate categorie di lavoratori: la
disciplina indica (con elenco da ritenersi tassativo) taluni soggetti deboli
del mercato del lavoro, quali disoccupati da oltre un anno, casalinghe,
studenti, pensionati, disabili, lavoratori extracomunitari regolarmente
soggiornanti nei sei mesi successivi alla perdita del posto di lavoro.
- Altresì
rilevante, in chiave antifraudolenta, appare la norma che determina secondo
criteri oggettivi
la natura “occasionale e accessoria” di tali rapporti. Con una presunzione
iuris et de iure, infatti, si restringe lo schema del lavoro accessorio
alle sole attività che comportino un impegno del lavoratore
non superiore a trenta giorni nel corso dell’anno solare e che non diano luogo
a compensi superiori a cinquemila euro nel corso dello stesso anno
solare.
- Ciò
che caratterizza il lavoro accessorio, sino a renderlo un unicum nel
panorama dei contratti di lavoro contemplati dall’ordinamento, è, come detto,
la peculiare modalità di corresponsione della retribuzione,
oltre che di assolvimento degli obblighi previdenziali.
- Infatti,
il beneficiario di tali prestazioni potrà retribuire il lavoratore per mezzo
di speciali “buoni”, da acquistarsi preventivamente presso apposite rivendite
indicate da un emanando decreto ministeriale (presumibilmente, tabaccherie,
edicole, uffici postali). Il valore di ciascun “buono” è pari all’importo di
un’ora di lavoro ed è comprensivo di una somma destinata a copertura degli
oneri previdenziali. Il lavoratore potrà utilizzare il buono come un titolo di
credito, ponendolo all’incasso presso concessionari abilitati
(presumibilmente, banche ed uffici postali), i quali provvederanno
a trattenere una porzione del valore del buono onde versarla agli enti
previdenziali. In tal modo, il legislatore ottiene l’effetto di semplificare
(ed anzi, di eliminare) l’insieme degli adempimenti formali normalmente
connessi all’instaurazione di un rapporto di lavoro (obbligo di iscrizione
presso gli enti previdenziali, comunicazione dell’avvenuta assunzione al
competente centro per l’impiego, tenuta di libri e scritture, obbligo di
operare ritenute fiscali in qualità di sostituto d’imposta provvedendo poi al
relativo versamento, obbligo di calcolare e quindi versare i contributi
previdenziali, etc.).
- Scopo
primario della disciplina legale è perciò quello di propiziare l’emersione e
la regolarizzazione di attività lavorative “minori”, che oggi hanno
svolgimento in uno stato di quasi generalizzata irregolarità fiscale e
previdenziale. È infatti di comune percezione che nel mercato del
lavoro esistano occasioni di impiego saltuario - aventi svolgimento fuori dal
contesto dell’impresa e per lo più riconducibili all’ambito lato sensu
familiare (attività di baby-sitter, operazioni di pulizia,
giardinaggio, tinteggiatura, etc.) - che
sono oggi soddisfatte con il ricorso al lavoro c.d. nero. Attraverso
la descritta semplificazione, la disciplina legale in questione vuole
facilitare e regolarizzare l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro in
questo limitato segmento del mercato, privilegiando le menzionate categorie
soggettive. In tale logica, intendendosi promuovere una convenienza di
entrambe le parti alla regolarizzazione del rapporto, si spiega anche la norma
che sancisce
la sottrazione del compenso così erogato a qualunque imposizione fiscale.
-
- Il lavoro occasionale.
(art. 4, legge delega; art. 61, decreto legislativo)
- Il
campo di applicazione della disciplina del lavoro a progetto (cfr. infra,
§ 5) è delimitato in negativo da una serie di esclusioni. Prima fra tutte
va ricordata quella di cui all'art. 61, comma 2°, relativa
ai rapporti di lavoro occasionale, "intendendosi per tali i rapporti di durata
complessiva non
superiore
a trenta giorni nel corso dell'anno solare con lo stesso committente, salvo
che il compenso
percepito
nel medesimo anno solare sia superiore a 5 mila Euro".
- Per la prima volta la prestazione occasionale ottiene una
definizione legislativa di tipo quantitativo, in una duplice dimensione:
temporale e pecuniaria. Secondo il tempo, sono considerate prestazioni
occasionali quelle con durata complessiva non superiore a trenta giorni
nell’anno solare con lo stesso committente; secondo il compenso, sono tali
quelle che nel medesimo anno solare non superano i 5.000 euro.
- Lo
scopo del duplice limite è quello di evitare che le parti, con una indicazione
formale nel contratto di poche giornate di lavoro, ma con la previsione di un
compenso elevato, da "spalmare" su un numero effettivo di giornate di lavoro
ben superiore a quello indicato, riescano ad eludere la disciplina
delle collaborazioni coordinate e continuative e del lavoro a progetto.
Qualora
però si scopra che la prestazione non possiede le caratteristiche richieste
dalla disposizione legale non è chiaro come possa essere qualificata.
- Il
secondo comma dell’art. 61 prevede che, in caso di superamento del tetto dei
5.000 euro, “trovano applicazione le disposizioni contenute nel presente
capo”. Come prima si dovrebbe allora sostenere
che la prestazione nata come occasionale diventa lavoro a progetto: in tal
caso, per essere
ritenuto valido, il contratto dovrà però integrare tutti i requisiti formali e
sostanziali previsti dalla legge.
-
- 5. Le c.d. collaborazioni coordinate e continuative (il
lavoro a progetto).
(art.
4, legge delega; artt. 61-69, decreto legislativo)
-
- Le incertezze del disegno ispiratore della
riforma.
- Tra
le norme fonte di maggior affanno interpretativo nel decreto legislativo 10
settembre 2003, n. 276 vi sono indubbiamente quelle sul cd. lavoro a progetto.
E questo, non solo per la difficoltà di lettura, non tanto del disegno
ispiratore, quanto della sua concretizzazione tecnica, ma anche per
l’enorme
rilevanza del fenomeno che le norme intendono regolare.
- E’
a tutti nota la sua dimensione: l’esplosione delle collaborazioni coordinate e
continuative si è consumata a partire dal 1995, con la legge n. 335 che in un
certo senso le ha legittimate, per approdare
alla ragguardevole cifra di più di due milioni di unità.
- Questa
esplosione ha alimentato un intenso dibattito circa la reale natura del
fenomeno: se ed in che
misura, cioè, esso fosse da imputare ad una genuina scelta per l’autonomia,
ovvero al tentativo di eludere
la normativa sul lavoro subordinato. Si è trattato di un dibattito non
conclusivo, anche per la
mai
sciolta controversia in ordine ai criteri identificativi della subordinazione
e, per converso,
della autonomia: una controversia probabilmente "ontologicamente" insolubile
se a questi criteri vuole essere
attribuito l’impari compito di attivare ovvero di escludere l’intero statuto
protettivo del
diritto del lavoro.
- Il
disegno ispiratore della nuova disciplina è apparentemente chiaro, essendo
enunciato vuoi nel documento preparatore (il cd. Libro bianco sul mercato del
lavoro) vuoi nelle relazioni di accompagnamento al disegno di legge-delega e
allo schema di decreto legislativo. Si è detto che è solo
apparentemente chiaro, dal momento che lo stesso Libro bianco –
da cui nasce l’idea del lavoro a progetto – non è su questo punto
assolutamente univoco. Anzi, contiene una certa dose di contraddittorietà
poiché, apprezzando criticamente, nel metodo e nei contenuti, le proposte
discusse
nel corso della precedente legislatura, valuta negativamente l’idea di
intervenire nel campo della para-subordinazione, che non lascerebbe spazio
alle "nascenti esperienze negoziali", e suggerisce di coltivare “un’iniziativa
legislativa limitatamente alla identificazione e regolazione di una
fattispecie particolarmente
diffusa, specialmente ma non esclusivamente nel terziario" (appunto il cd.
“lavoro
a progetto”). Nello stesso tempo però ritiene che "sia necessario evitare
l’utilizzazione delle collaborazioni coordinate e continuative in funzione
elusiva e frodatoria della legislazione posta a tutela del lavoro subordinato,
ricorrendo a questa tipologia contrattuale al fine di realizzare spazi
anomali
nella gestione flessibile delle risorse umane” .
Il che implica di intervenire, e pesantemente, nel campo della cd.
para-subordinazione.
- La
relazione al d.d.l. delega si limitava a riprodurre esattamente il contenuto
del Libro bianco –
con la conseguente ambiguità – e lo stesso art. 4 della legge n. 30 del 2003
appariva in definitiva anodino perché nulla si prevedeva circa la sorte dei
rapporti di collaborazione coordinata e continuativa
non rispondenti ai requisiti delineati.
- La
relazione allo schema di decreto delegato, invece, non contiene oscillazioni:
essa qualifica senza
mezzi termini la nuova normativa come “riforma delle collaborazioni coordinate
e continuative” e la riconduce inequivocabilmente all’intento di superare “la
farisaica accettazione di questa pratica elusiva” e riportare “le attuali
co.co.co al lavoro subordinato o
al lavoro a progetto, forma di lavoro autonomo che non può dare luogo alle
facili elusioni riscontrate pena la trasformazione in rapporto
di lavoro subordinato a tempo indeterminato”.
-
- I dati tipizzanti la fattispecie.
- In
via di prima approssimazione, il legislatore delegato tipizza una figura
contrattuale – il lavoro a progetto – che viene a porsi in posizione
intermedia, in considerazione dell’intensità e della natura delle
tutele accordate, tra il lavoro autonomo e il lavoro subordinato.
- Secondo
l’art. 61 del d. lgs. n. 276/2003, i rapporti di collaborazione coordinata e
continuativa, prevalentemente
personale, e senza vincolo di subordinazione, di cui all’art. 409, n. 3
c.p.c.,
devono essere "riconducibili a uno o più progetti specifici o programmi di
lavoro o fasi di esso determinati dal
committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del
risultato, nel rispetto del
coordinamento con la organizzazione del committente ed indipendentemente dal
tempo impiegato per l’esecuzione della attività lavorativa”.
- Da
una parte, dunque, si richiamano la continuatività, la coordinazione, e il
carattere prevalentemente personale dell’opera; dall’altra, la riconducibilità
ad un progetto, programma o fase di esso che sia gestito autonomamente, in
funzione del risultato, e (dunque) prescinda dal tempo
impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa.
- Da
questo coacervo di elementi, vecchi e nuovi, utilizzati per disegnare la
fattispecie emerge chiaramente l’intento di fissare un forte discrimine
rispetto alla fattispecie del lavoro subordinato.
Così si spiega l’enfasi posta sulla gestione autonoma in funzione del
risultato e la predicata irrilevanza del tempo impiegato per l’esecuzione
dell’attività lavorativa (che ne costituisce conseguenza).
Sulla correttezza degli indici impiegati (o, meglio, sulla opportunità del
loro impiego,
dal momento che il legislatore è sovrano), si potrebbe discutere. Sembra però
di dover chiarire che il riferimento al risultato (col suo corollario:
l'irrilevanza del tempo impiegato per l'esecuzione dell'attività
lavorativa) è operato allo stesso modo con cui esso viene utilizzato dalla
giurisprudenza: esso
riflette non tanto il discutibile e discusso assunto dogmatico che riconduce
la locatio
operis all’obbligazione
di risultato e la locatio
operarum alla
obbligazione di mezzi, ma rappresenta – molto più debolmente – il mero
criterio indiziario della presenza o meno della subordinazione, più facilmente
ipotizzabile qualora, senza che sia necessario un risultato qualsivoglia da
raggiungere, il lavoratore abbia impiegato le proprie energie diligentemente
per il tempo previsto e secondo gli ordini via via ricevuti.
- Ciò
che però, innanzitutto, richiama l’attenzione è l’individuazione della nozione
di progetto, programma di lavoro, o fase di esso. Poiché il legislatore ha
ritenuto di distinguere tra "progetto" e "programma" (e addirittura "fase di
esso"), di ciò l'interprete dovrà tenere conto. Se il progetto appare più
legato ad un’attività di tipo “creativo”, svolta da professionalità elevate,
il termine programma di lavoro – o fase di esso – è idoneo ad allargare la
fattispecie anche ad attività meno professionalizzate
(ad es. riordinare una biblioteca) .
Poiché però, a ben vedere, qualsiasi attività di lavoro potrebbe essere
ricondotto ad un programma, ciò che appare determinante in questi casi è
l’apposizione
del termine, che fa tutt’uno con il programma .
- Detto
termine, in base all’art. 62, deve essere determinato o comunque determinabile
in relazione ad
un
avvenimento futuro la cui verificazione sia certa, anche se non ne è già
conosciuto il momento. Nonostante
sia già stato prospettato – con una interpretazione forse prudenziale, alla
luce delle conseguenze previste dalla legge – che l’attività oggetto del
progetto o del programma debba presentare il carattere della straordinarietà o
della eccezionalità, rispetto all’ordinario ciclo produttivo dell’impresa
committente, una interpretazione fedele al dato positivo deve partire dalla
constatazione
che nessuna delle norme in commento fa riferimento a questi requisiti. Tolto
di mezzo il carattere della straordinarietà, qualsiasi attività di lavoro,
anche quella rientrante nel normale ciclo produttivo, può essere dedotta in un
progetto o in un programma, purché quest'ultimo abbia i requisiti indicati
dalla legge, primo fra tutti la temporaneità, sulla base del menzionato art.
62, lett. a). Temporaneità, dunque, come dato strutturale, implicando di per
sé
l'idea di
progetto o di programma il momento finale della sua realizzazione.
Potranno
di conseguenza legittimamente essere dedotte in un contratto di lavoro a
progetto le attività direttamente afferenti al ciclo produttivo e che non sono
per nulla straordinarie ed occasionali, nel senso che soddisfano esigenze che
ciclicamente si ripropongono all'interno della stessa attività economica
ordinaria, ed anche ad intervalli di tempo ravvicinati. Superfluo è
puntualizzare
che nessun problema si pone nel caso in cui il progetto o programma sia
finalizzato al
soddisfacimento di esigenze solo contingenti.
- Parrebbe
confermare questa conclusione quanto previsto dal 3° co. dell’art. 69, là dove
si prevede che il controllo giudiziale è limitato “all’accertamento della
esistenza del progetto, programma di lavoro o fase di esso e non può essere
esteso fino al punto di sindacare nel merito valutazioni e scelte
tecniche, organizzative e produttive che spettano al committente”.
-
- Il rilievo sistematico dei rapporti di collaborazione coordinata
e continuativa alla luce dei
meccanismi sanzionatori.
- Dal punto di vista sistematico, assume un assoluto valore
baricentrico l’art. 69 del decreto legislativo che porta la rubrica “divieto
di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa atipici e conversione
del contratto”.
- Il
primo comma sembra porre una presunzione assoluta di esistenza di un rapporto
di lavoro subordinato
a tempo indeterminato in caso di contratto avente ad oggetto una prestazione
lavorativa coordinata
o continuativa senza che sia preventivamente individuato un progetto o
programma di lavoro aventi le caratteristiche di cui sopra . Se
questo è vero, le conseguenze sono enormi, non solo da
un punto di vista pratico, ma anche da un punto di vista teorico–sistematico.
Dal
punto di vista teorico potremmo trovarci di fronte alle famose tre parole del
legislatore che distruggono un'intera biblioteca. La subordinazione dovrebbe
essere identificata nella semplice continuità e coordinazione, a prescindere
dalla eterodirezione in senso pregnante che fin qui – almeno secondo
l’impostazione dominante – è stata ritenuta costituire il nocciolo della
nozione. Dal punto di vista pratico, i rapporti di collaborazione coordinata e
continuativa, pur caratterizzati da autonomia nelle modalità esecutive, ma
privi di un progetto o programma, dovrebbero trasmigrare nelle caselle del
lavoro subordinato. Il disegno originario era in effetti proprio questo:
bonificare la categoria delle collaborazioni coordinate e continuative dai
fenomeni elusivi della disciplina del lavoro subordinato, consentendo però,
nello stesso tempo, un alleggerimento dei limiti e degli oneri di
quest’ultimo, onde ridurre l’eccessivo divario dei costi del ricorso all’una o
all’altra figura contrattuale. Tale disegno appare però incompiuto perché la
moltiplicazione delle tipologie
contrattuali non comporta necessariamente una flessibilizzazione dei
trattamenti. Meno destabilizzante, sia dal punto di vista pratico, sia,
soprattutto, dal punto di vista teorico, sarebbe poter qualificare la mancanza
del progetto quale presunzione, vincibile dalla prova contraria,
dell’esistenza della subordinazione. Si tratta di una tecnica usata in altri
ordinamenti, in particolare in quello francese, sia pure non per fattispecie
generali, ma per specifiche
figure socialtipiche (viaggiatori, piazzisti, etc.).
- La
tesi della esistenza di una presunzione relativa è stata per la verità già
adombrata da qualche autore.
Ma essa è basata su dati normativi di per sé fragili, poiché intende far leva
sul 2° co. dell’art. 69,
cui viene assegnata la funzione di indicare che il giudice dovrà, in primo
luogo e senza automatismi,
accertare la natura autonoma o subordinata del rapporto (“qualora venga
accertato dal
giudice
che il rapporto instaurato ai sensi dell’art. 61 del presente d.lgs. sia
venuto a
configurare un rapporto di lavoro subordinato…").
- Il
secondo comma dell’art. 69 sembra concernere in realtà il momento
dell'esecuzione del rapporto e l’ipotesi dello scostamento tra programma
negoziale e sua attuazione, per sancire, probabilmente in modo pleonastico,
che il rapporto “si trasforma” in un rapporto di lavoro subordinato
corrispondente alla tipologia negoziale di fatto realizzatasi tra le parti. In
effetti se non vi si attribuisse
questo significato, non si comprenderebbe la autonoma rilevanza del
1°
comma. Sebbene non si ritengano fondati i dubbi di legittimità costituzionale,
da alcune parti ventilati, si conferma
comunque l'incongruità della tecnica impiegata.
-
- Il regime delle esclusioni.
- Gli interrogativi sul rilievo sistematico della nuova disciplina
sul lavoro a progetto sono altresì alimentati dalle corpose esclusioni dal suo
campo di applicazione. Sopravvivono infatti rapporti di lavoro coordinato e
continuativo, da qualificare come autonomi, sebbene non ancorati all'esistenza
di un progetto.
- Il
campo di applicazione della disciplina del lavoro a progetto è delimitato in
negativo da una serie di
esclusioni espressamente previste. Prima fra tutte va ricordata quella di cui
all'art. 61,
comma 2°, relativa
ai rapporti di lavoro occasionale, "intendendosi per tali i rapporti di durata
complessiva non
superiore
a trenta giorni nel corso dell'anno solare con lo stesso committente, salvo
che il compenso
percepito nel medesimo anno solare sia superiore a 5 mila Euro". Come detto,
la tipologia del lavoro occasionale è contraddistinta da un limite duplice al
fine evidente di evitare che le parti, con l'indicazione nel contratto di
poche giornate di lavoro, accompagnata dalla previsione di un compenso
elevato da "spalmare" su un numero effettivo di giornate di lavoro ben
superiore a quello indicato,
riescano ad eludere la disciplina del lavoro a progetto (cfr. § 4.3.)
- I
rapporti di lavoro autonomo coordinato e continuativo, non assistiti da alcuna
presunzione di subordinazione in mancanza di progetto, potranno continuare a
riguardare: a) gli agenti e rappresentanti di commercio; b) le professioni
intellettuali per l'esercizio delle quali è necessaria l'iscrizione in
appositi albi professionali, esistenti alla data di entrata in vigore del
decreto legislativo; c) le attività di collaborazione rese e utilizzate a fini
istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche
affiliate alle federazioni sportive nazionali; d) i componenti degli organi di
amministrazione e controllo delle società ed i partecipanti a collegi e
commissioni;
e) i titolari di pensioni di vecchiaia.
- Così come la maggior parte del decreto, in base alla previsione
generale contenuta nell'art. 1, comma 2°, la disciplina del lavoro a progetto
non si applica alle pubbliche amministrazioni. L'art. 86, comma 8°, prefigura
tuttavia una omogeneizzazione della disciplina tramite una pratica
concertativa e successiva normazione; ed è prevedibile che la relativa
armonizzazione riguarderà anche la disciplina del lavoro coordinato e
continuativo, considerato il largo uso che ne viene fatto nel settore
pubblico.
- La corposità delle eterogenee esclusioni dal regime del lavoro a
progetto indica quanto meno l’inopportunità di ancorare all’inesistenza di un
“progetto” una presunzione invincibile di subordinazione.
- Va
da sé peraltro che tali esclusioni dovranno passare al vaglio del giudizio di
ragionevolezza ex art.
3 Cost.. Che dire, in particolare, per l'esclusione concernente la
p.a.?
-
- La disciplina.
- La disciplina che correda il lavoro a progetto è in verità
“leggera”, ma comunque significativa.
- La
disposizione relativa al corrispettivo rinvia al criterio di proporzionalità
alla quantità e qualità del lavoro prestato. E' evidente, sul piano
teorico-dogmatico, lo “scollamento” rispetto ai criteri di cui all’art. 2225
c.c., che fa riferimento al risultato ottenuto, oltreché al lavoro normalmente
necessario per ottenerlo. Ed anche rispetto alle previsioni di cui all’art. 36
Cost., pacificamente ritenuto inapplicabile ai rapporti di lavoro
parasubordinato, del quale non riproduce il criterio della sufficienza.
Sul piano pratico, come è stato notato ,
il parametro all’uopo individuato – vale a dire “i compensi normalmente
corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di
esecuzione del rapporto” – non
appare particolarmente costrittivo, non solo perché di detti compensi
si
deve semplicemente “ tenere
conto”, ma anche perché è lo stesso referente ad apparire incerto. E’
evidente
la difficoltà di applicazione della norma, per la mancanza di un referente
affidabile al fine di individuare quali siano i compensi normalmente
corrisposti ai lavoratori autonomi (referente quale è per il lavoro
subordinato il contratto collettivo).
- Il
legislatore disciplina anche i casi di sospensione del rapporto. Alle
indennità ed alle tutele già esistenti, si affianca il divieto di estinzione
del rapporto contrattuale, che rimane sospeso, senza erogazione del
corrispettivo, in caso di malattia, infortunio e gravidanza. La sospensione,
tuttavia, non comporta una proroga automatica della durata del contratto, in
caso di malattia e infortunio, a meno che le parti non lo abbiano
espressamente previsto. Viene stabilito un periodo di comporto: il rapporto
potrà essere risolto quando la sospensione si protrae per un periodo superiore
ad un sesto della durata stabilita del contratto, ovvero dopo trenta giorni
per i contratti di durata determinabile. Solo
in caso di gravidanza la durata del rapporto è prorogata per un periodo minimo
ed inderogabile di 180 giorni, fatta salva una previsione più favorevole del
contratto individuale. Altra
norma significativa è quella contenuta nell'art. 67 in materia di "estinzione
del contratto e preavviso". La norma conferma la natura a termine del
contratto in questione, nella parte in cui prevede che "prima della scadenza
del termine" le parti possano recedere solo per "giusta causa". Nulla
dice la legge sul modo in cui deve intendersi nel caso la giusta causa. Si
ritiene tuttavia possa valere
la generale definizione di giusta causa come fatto sopravvenuto che, in
relazione alla natura del
rapporto (continuatività, fiduciarietà), non ne consenta la prosecuzione
neppure provvisoria (cfr.
art. 2119 c.c.).
- Può
rilevarsi la mancata previsione di una facoltà di recesso ante
tempus per
ragioni "inerenti all'attività produttiva", vale a dire in presenza di quelle
ipotesi in cui venga obiettivamente meno, nel corso dello svolgimento del
rapporto, l'interesse del committente alla prosecuzione e realizzazione
del progetto o programma o fase di esso.
- La
disciplina è però da considerarsi meramente dispositiva, se si tiene presente
la possibilità accordata alle parti di concordare "diverse causali e modalità,
incluso il preavviso". In sede di contratto individuale le parti potranno
prevedere la facoltà di recedere ante
tempus anche
in mancanza di giusta causa, e, dunque, pure nelle ipotesi in cui il
sopravvenuto mutamento delle condizioni
di fatto importi il venir meno dell'interesse alla realizzazione del progetto.
E
non sembra neppure
da escludere la previsione di un regime di libera recedibilità acausale (in
tal senso potrebbe
essere inteso il riferimento alle "modalità"). In materia di estinzione molto
viene lasciato all'autonomia delle parti, che rimangono sostanzialmente
libere, in base alle esigenze concrete legate
al singolo contratto, di rafforzare il nucleo minimo legale di tutela o, al
contrario, di
renderlo ancora più blando.
- L' art. 66, ultimo comma, estende ai lavoratori a progetto le
norme fin qui applicate al lavoro parasubordinato, vale a dire le norme
processuali e, in una con queste, la disciplina delle rinunce e transazioni di
cui all'art. 2113 c.c., le norme sulla sicurezza e igiene del lavoro, quelle
relative all'indennità di malattia in caso di degenza ospedaliera, alla tutela
della maternità e agli assegni al nucleo familiare.
- Per le invenzioni del lavoratore a progetto è prevista
l'applicazione della medesima disciplina del lavoro dipendente .
- Si
comprende perché si è affermato che il nucleo di tutela è “leggero” pur se
significativo, in particolare per quanto riguarda la sospensione del rapporto.
Soprattutto, compaiono spazi di dispositività, secondo un’idea già contenuta
nel Libro bianco, volta a valorizzare la autonomia individuale
e non solo secondo lo schema consueto della derogabilità in
melius. Al
di là di quanto previsto per il recesso, assume in proposito particolare
importanza l’interpretazione dell’art. 68 sulle rinunzie e transazioni. Il
decreto, sul punto, potrebbe far sorgere l’interrogativo se il legislatore
abbia voluto disciplinare la disponibilità dei diritti o la derogabilità delle
norme. Attribuendo il loro preciso significato ai termini rinunce e
transazioni si dovrebbe intendere che, in sede di certificazione, il
collaboratore possa rinunciare o transigere in relazione a diritti
già maturati. La norma, cioè, prenderebbe in considerazione l'ipotesi della
certificazione di
un rapporto di lavoro già in atto. Ma, in tal caso, la previsione dell’art. 68
nulla aggiungerebbe alla disposizione generale in materia di certificazione di
cui all’art. 82. Ed in effetti è stato ipotizzato che il legislatore abbia qui
inteso riferirsi ad un’ipotesi di certificazione iniziale ed abbia utilizzato
del tutto impropriamente i termini "rinunzie" e, soprattutto, "transazioni"
per riferirsi ad un’ipotesi di derogabilità assistita. La possibilità di
derogare alle disposizioni imperative in sede di certificazione è peraltro già
prevista dall’art. 78, 4° co., sia pure limitatamente al nucleo di
disposizioni da individuarsi sulla base di un decreto del Ministro del lavoro.
Si tratterebbe dunque dell’aggiunta, a questa generale possibilità, di una
nuova specifica ipotesi. L’interpretazione è però quanto meno dubbia, sia
perché il termine rinunce e transazioni fa riferimento a negozi genuinamente
dispositivi, sia perché il nucleo precettivo contenuto nel capo sul lavoro a
progetto non è di particolare ampiezza.
-
- Le misure di accompagnamento o di
transizione.
- Il
vero è che l’intervento decisivo è stato operato dal lato della fattispecie.
E’ su questo piano che, almeno apparentemente, si è intervenuti con
radicalità, più o meno congrua, a seconda delle interpretazioni. Tanto è vero
che lo stesso legislatore, dopo aver previsto che i contratti di
collaborazione coordinata e continuativa attualmente in essere “mantengono
efficacia fino alla loro scadenza
e comunque non oltre un anno dalla data di entrata in vigore del presente
provvedimento”, ha ammesso la possibilità di stipulare, in sede aziendale, e
con le “istanze aziendali” dei sindacati comparativamente più rappresentativi
sul piano nazionale, “accordi di transizione” che prevedano termini diversi,
anche superiori all’anno.
- Per
i nuovi contratti, gli stessi dubbi che circondano la fattispecie renderebbero
opportuno – per il perseguimento del valore della certezza dei rapporti – la
immediata fruibilità dell’istituto della certificazione (v. sub
§
6.) che avrebbe almeno un valore “persuasivo” nei confronti dei giudici e
delle parti, nonostante i dubbi e le incertezze che ne circondano la “tenuta”.
La
certificazione, infatti, prevista al fine di ridurre il contenzioso in materia
di qualificazione dei contratti di lavoro intermittente, ripartito, a tempo
parziale e a progetto, nonché dei contratti di associazione in partecipazione
di cui agli artt. 2549 – 2554 c.c., è demandata a commissioni, istituite
presso gli enti bilaterali, le direzioni provinciali del lavoro, le università
pubbliche e
private, che allo stato non risultano ancora istituite. Il tanto vituperato,
dai giuslavoristi, istituto della certificazione finirà per dover essere
rivalutato e diventare uno dei baricentri del decreto legislativo a fronte
delle incertezze - in alcuni casi volute e, dunque, da qualificarsi più
propriamente come incompiutezze - che ne circondano la trama normativa.
Qualcuno ha già affermato che la certificazione costituirà l'habitat
pressoché
obbligato del contratto a progetto. Ma lo stesso potrebbe dirsi
pure in relazione agli incerti criteri distintivi tra somministrazione di
lavoro e appalto di servizi, cui viene attribuito l'arduo compito di
discernere tra due regimi di tutela del lavoratore assolutamente
incommensurabili quanto ad intensità.
-
- Il lavoro a progetto: un approdo coerente con il dibattito in
corso?
- La normativa sul lavoro a progetto ha avuto certamente un
effetto spiazzante sul ricco dibattito scientifico e politico svoltosi negli
anni immediatamente precedenti l'odierna riforma. Tale dibattito aveva
individuato nella perdita di centralità della figura social-tipica del
lavoratore dipendente della media e grande industria, con rapporto di lavoro
esclusivo, a tempo pieno ed indeterminato, chiamato a svolgere la sua
prestazione nell'ambito di una rigida integrazione spazio-temporale con
l'organizzazione dell'impresa, e nella progressiva e correlata emersione di
nuove istanze di tutela, i due principali fattori che rendevano
indilazionabile una rimodulazione delle tutele dispensate dal diritto del
lavoro.
- A
livello di prospettazione delle soluzioni, la comune presa di coscienza si è
"ramificata" in tre diversi tipi di approcci: il primo prevedeva di estendere
alcune delle tutele più significative ai rapporti di collaborazione coordinata
e continuativa, lasciando inalterato il nucleo forte di tutela del lavoro
subordinato; il secondo attribuiva portata risolutiva alla tipizzazione di un
tertium
genus che,
offrendo una casa comune a figure che possono essere ricondotte
alternativamente all'autonomia o alla subordinazione, permettesse di rimediare
al forte gap
di
tutele tra lavoro autonomo e lavoro subordinato; il terzo si ispirava all'idea
dello Statuto dei lavori (il termine fu utilizzato per la prima volta nel
progetto di riforma del 1998 predisposto da Marco Biagi su indicazione
dell'allora Ministro Treu) e poneva l'enfasi sulla redistribuzione delle
tutele tra autonomia e subordinazione, piuttosto che sulla costruzione di
nuove fattispecie.
- L'idea
di fondo da cui partiva la bozza di Statuto del 1998 era quella di modulare e
graduare le tutele applicabili ad ogni fattispecie contrattuale a seconda
degli istituti da applicare, lasciandosi in questo modo alle spalle il
problema qualificatorio e definitorio. In parole povere, si trattava di
decidere
di volta in volta, istituto per istituto, a chi applicare una determinata
disciplina. L'obiettivo
finale era quello di estendere le tutele ad aree "nuove" ed al contempo
ritoccare verso il basso il livello di tutela del lavoro subordinato.
- Certo,
vi era e vi è un'ambiguità di fondo nel porre l'alternativa tra l'affrontare
la questione dalla parte della fattispecie ovvero dalla parte delle tutele.
Questa linea, come è stato ben detto , è posta solo per un orientamento di
fondo, perché ognuno sa che, quando ci si pone nell'ottica dell'applicazione
del diritto, la fattispecie va di pari passo con la tutela ad essa imputata e
una qualche correlazione fra i due termini deve essere configurata.
L'espressione può essere spiegata se le si attribuisce un significato
"minore": vale a dire di alternativa tra il partire da ridefinizioni
tipizzanti della realtà sociale, per assegnare alle fattispecie così enucleate
ex
novo misure
diversificate di tutela, o invece il partire ponendo innanzitutto l'accento
sulla rimodulazione delle tutele, "dando per ferme in sostanza le fattispecie
così come sono fissate nell'ordinamento e/o operando
semmai riaggregazioni di quanto esso già offre in proposito". La
riforma varata con la legge delega n. 30/2003 e con il successivo decreto
legislativo rappresenta dunque il primo punto di approdo di un graduale
processo di innovazione del diritto del lavoro in gestazione già da qualche
anno. L'impressione, come già anticipato, è che i risultati prodotti ne escano
in realtà spiazzati.
- Il
primo, e più evidente, termine di paragone è costituito dall'estensione delle
tutele, avvenuta in quantità e qualità minori rispetto a quanto indicato nei
vari progetti che si sono succeduti in questi anni. Nell'ottica del decreto
delegato, la relativa "leggerezza" della tutela accordata ai lavoratori a
progetto si può spiegare con il fatto che si tratterebbe sostanzialmente di
lavoro autonomo, essendo stata depurata la categoria delle collaborazioni
coordinate e continuative delle ipotesi di lavoro subordinato mascherato.
Peraltro, a sua volta, questa interpretazione non può nascondere l'imbarazzo
di dover spiegare l'estensione sia pure "moderata" e "leggera" di alcune
tutele tipiche del rapporto di lavoro subordinato (si vedano le nuove norme
sul corrispettivo, sulla sospensione e sulla
cessazione del rapporto) a soggetti che, nella mens
legis, sono
in tutto e per tutto dei lavoratori autonomi.
- Il
vero è che, se sul piano della disciplina il legislatore si muove con mano
malferma e indecisa, l'intervento decisivo è effettuato sul piano della
fattispecie: con il suo ancoraggio all'esistenza di uno o più progetti
specifici o programmi di lavoro o fasi di esso e attraverso la previsione
della morte per estinzione di tutte le collaborazioni coordinate e
continuative non legate ad un progetto, esso
sembra ancora muoversi nella direzione della dicotomizzazione
autonomia/subordinazione. La
disciplina, ormai definita, posta dalla cd. riforma Biagi in materia di lavoro
parasubordinato lascia trasparire un intento chiaramente restrittivo nei
confronti di tutto ciò che non è lavoro subordinato in senso stretto. L'avere
ancorato la fattispecie del contratto in commento alla presenza di un
progetto, programma o fase di esso oblitera una delle principali esigenze di
riforma da cui è stato animato tutto il dibattito in questi anni: la
necessità, per alcuni di definire, per altri solo di disciplinare, forme di
lavoro prestato continuativamente a favore di un altro soggetto che, pur
sottratte all'applicazione in blocco del regime vincolistico proprio del
lavoro subordinato, assicurassero sufficienti garanzie alla parte debole del
rapporto. Quest'unico dato basta già a far comprendere come il legislatore,
limitando in maniera patente la possibilità del ricorso al lavoro
parasubordinato proprio nel momento in cui ha inteso estendere a quest'ultimo
una serie di tutele, più che essere ispirato da un organico disegno
riformatore, abbia tamponato l'emergenza dell'esplosione delle co.co.co, rendendone più restrittive le
condizioni di utilizzo, e realizzando dell'idea
originaria di statuto dei lavori forse solo la pars
destruens e
non quella construens. L'applicazione e la prassi ci diranno se è vero
che, ad ogni modo, una nuova, e più governata, flessibilità
è assicurata dalla possibilità di ricorrere alle tipologie contrattuali di
nuovo conio.
Ma vi è tutto il rischio, a meno di correttivi ed adattamenti, anche
interpretativi, che l'effetto complessivo sia di una nuova rigidità,
determinata da quella che potrebbe diventare una nuova costrizione alla
subordinazione.
-
- 6. La certificazione.
(art. 5, legge delega; artt. 75-84, decreto legislativo)
-
- Nozione.
- Una
novità introdotta dal decreto legislativo è costituita dalle procedure di
certificazione dei contratti di lavoro. Nelle intenzioni del legislatore,
esse dovrebbero rappresentare una tecnica attraverso cui le parti di un
contratto individuale di lavoro pervengono a una precisa qualificazione
del
contratto di lavoro che tra esse intercorre. Le procedure di certificazione
(attivate volontariamente
dalle
parti) dovrebbero pertanto “rendere certa” tra le stesse la “natura” del
contratto di lavoro (subordinato o autonomo) ed eventualmente la “tipologia”
dello stesso (intermittente,
ripartito, a tempo parziale, a progetto).
-
- La ratio della normativa.
- Quale
è la ratio
di
questa novità?
- Vi sono perlomeno due ordini di ragioni.
- i)
In primo luogo, v’è una esigenza di certezza.
Poiché
a contratti diversi si applicano discipline diverse, la certificazione ha
innanzitutto la finalità di rendere certo il novero dei diritti e degli
obblighi che gravano su ciascuna delle parti. Ciò anche al fine di evitare
loro inattese conseguenze patrimoniali che spesso derivano da una sentenza di
condanna, per il periodo in cui il rapporto ha già avuto esecuzione sulla base
di un contratto poi diversamente qualificato dal giudice (questo accade, ad
es., quando il datore di lavoro abbia omesso di corrispondere il trattamento
previsto per il lavoratore subordinato, nella convinzione che si trattasse di
lavoro autonomo: la sentenza del giudice che qualifica quel rapporto come
lavoro subordinato condannerà lo stesso datore alla corresponsione
del trattamento retributivo e contributivo per il periodo pregresso).
Al
di là della questione classica della distinzione tra lavoro autonomo e
subordinato, il problema di qualificazione sembra poi accentuato dal
proliferare di diverse tipologie contrattuali a seguito dell’emanazione
dello stesso decreto legislativo n. 276 del 2003.
- ii)
La certificazione vorrebbe poi rispondere a un altro problema: l’abnorme
contenzioso, pendente dinanzi
ai giudici del lavoro, proprio in tema di qualificazione del contratto di
lavoro (in particolare, con
riferimento alla natura subordinata o autonoma di esso). Gran parte delle
controversie in materia di lavoro verte, infatti, sul problema qualificatorio.
In tal senso, certificare ex
ante natura
e tipologia
contrattuale dovrebbe avere l’effetto di prevenire il contenzioso successivo
(a
contratto già in esecuzione o, come spesso accade, a rapporto contrattuale già
estinto) di fronte al giudice. La certificazione
avrebbe in tal senso una finalità deflattiva
del
contenzioso nelle cause di lavoro.
-
- Disciplina della certificazione.
- Il
decreto individua i soggetti che possono fungere da organi di certificazione:
i soggetti, cioè, ai quali le parti, che intendono certificare un contratto di
lavoro, devono rivolgersi. Si dispone che “commissioni
di certificazione” possano essere istituite in seno a:
- i) enti bilaterali, costituiti dalle parti sociali a livello
nazionale o territoriale;
- ii) direzioni provinciali del lavoro;
- iii) università pubbliche e private.
- Il decreto legislativo detta poi le regole in tema di
svolgimento delle procedure di certificazione.
-
- Gli effetti della certificazione.
- La
realizzazione delle finalità sopra segnalate dipende dal grado di “tenuta”
della certificazione nei confronti
delle parti. Si tratta cioè di valutare quale sia l’efficacia della
certificazione tra le stesse.
In altre parole: la certificazione è in grado di soddisfare quell’esigenza di
certezza che ha indotto le parti ad esperire la procedura? Si può
sostenere che la qualificazione sia operata, in sede di certificazione, una
volta per tutte, talché vincoli le parti e il giudice ad applicare la
disciplina corrispondente al tipo certificato?
- E’
la legge stessa a fornire la risposta a questi interrogativi, disponendo che
le parti e i terzi, nella cui
sfera giuridica l’atto di certificazione è destinato a produrre effetti,
possano
impugnarlo, sia per erronea
qualificazione del contratto, sia per difformità nella sua attuazione, sia per
vizi del
consenso tra le parti. Non poteva essere diversamente, d’altronde, poiché
sarebbe stata incostituzionale una previsione
di legge volta a impedire alle parti il ricorso giurisdizionale. Inoltre,
la legge prevede che l’accertamento da parte del giudice dell’erroneità della
certificazione abbia effetto fin dal momento della stipulazione del contratto:
questo comporta che le risultanze della precedente certificazione vengano
travolte con effetto retroattivo per effetto del provvedimento
giurisdizionale, sicché la certificazione non è in grado di garantire certezza
alcuna alle parti (poiché gli effetti derivanti dal contratto certificato
possono essere cancellati retroattivamente
dalla diversa qualificazione operata dal giudice).
- Potrebbe
dunque dirsi che, da un punto di vista strettamente giuridico, la
certificazione non è in grado
di soddisfare pienamente le esigenze per le quali è stata introdotta.
Ciò
non toglie che, di fatto, la
certificazione può sortire effetti non irrilevanti: potrebbe scoraggiare le
parti, una volta qualificato un rapporto di lavoro in seguito alla procedura,
dal ricorrere al
giudice del lavoro. Si tenga presente, a tal proposito, che la certificazione
dovrà essere effettuata sulla base degli orientamenti giurisprudenziali
prevalenti, contenuti in appositi “moduli o formulari” predisposti dal
Ministero del Welfare, nonché sulla base di “codici di buone pratiche”
(predisposti dallo stesso Ministero) per l’individuazione delle clausole
indisponibili dalle parti in relazione a ogni
tipologia contrattuale, e contenenti altre indicazioni fornite dagli accordi
interconfederali. Se
a ciò si aggiunge che l’organo certificatore può assumere una certa
autorevolezza (si pensi a commissioni
presiedute da soggetti di chiara fama, competenza ed esperienza nell’ambito
del
diritto del lavoro e delle relazioni industriali), si evince che una
certificazione autorevole, aderente ai prevalenti orientamenti
giurisprudenziali, rispondente alle indicazioni dei principali sindacati, è in
grado
di conseguire, nei fatti, una garanzia di stabilità.
-
- Mariella Magnani
- Ordinario di diritto del lavoro nell’Un. di Pavia
- NOTE
-
- 1. La
legge prevede poi modifiche alla legge n. 142/2001 sui rapporti di lavoro dei
soci di cooperative.
- 2.
Si
tratta dei contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più
rappresentativi: qualcuno ha contato ben 43 rinvii.