- Sommario:
- 1. L’abbandono legislativo del principio di
pregiudizialità dell’azione penale sulla civile
- 2. Il principio dell’autonomia (o separazione) dei giudizi nel nuovo codice di
procedura penale: conferme dottrinali ed applicazioni giurisprudenziali
conformi
- 3. L’autonomia del
giudice del lavoro nel riscontro del reato, in fattispecie di molestie sessuali
e di pregiudizio alla salute psicofisica, ai fini del risarcimento del danno
morale ex art. 2059 c.c. e 185 c.p.
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- 1. L’abbandono
legislativo del principio di pregiudizialità dell’ azione penale sulla civile
- Si pone, spesso, nella pratica - in caso di ricorso giudiziale del lavoratore in sede civile per il
risarcimento del danno allo stato di salute (a seguito di pratiche di mobbing,
demansionamento, vessazioni e/o molestie sessuali, trasferimenti e
licenziamenti ingiuriosi, e simili) – il problema se il giudice del lavoro possa liquidare, in aggiunta al danno
biologico eventualmente riscontrato ed equitativamente determinato ex art. 1226
c.c., anche il “danno morale” (costituito dalle sofferenze psichiche e dai
patemi d’animo sofferti, di solito, transitoriamente in conseguenza degli
indebiti trattamenti ricevuti), danno che, com’è noto, presuppone (allo stato
dell’attuale legislazione) per la sua risarcibilità il riscontro e la
ricorrenza di un reato ( secondo l’art. 2059 c.c. e 185 c.p.) ed il cui importo
non è indifferente in quanto mediamente
liquidato giudizialmente in via equitativa in misura parametrica oscillante tra
il 40-50% dell’importo del danno biologico.
- Per essere più chiari si pone (e va risolto)
il quesito se sussista in capo al giudice del lavoro adito un’autonoma
competenza nell’accertamento del reato – ai soli fini del risarcimento del
danno morale – ovvero se allo stesso (ed indirettamente al lavoratore) sia
preclusa la facoltà di tale
accertamento, da riconoscere esclusivamente di pertinenza del giudice penale e, pertanto, essere conseguente
ad un’azione del lavoratore in sede penale o al rinvio d’ufficio da parte del
giudice civile al giudice penale, con
correlativa sospensione del giudizio civile.
- Va subito detto che una risposta negativa al
quesito sopra formulato era d’obbligo nell’assetto normativo strutturato dal
vecchio codice di procedura civile e penale, mentre una risposta positiva
s’impone nell’attuale nuovo assetto, cioè a dire dopo l’entrata in vigore del
nuovo codice di procedura penale (d.p.r. 22.9.1988, n. 447) e delle ed innovazioni al codice di procedura
civile.
- A tali
nuovi eventi normativi si deve, infatti, l’abbandono del principio di
unità della giurisdizione (con prevalenza del giudicato penale sul civile e
pregiudizialità dell’azione penale rispetto alla civile) per la scelta, a
favore del diritto di difesa anche a costo di pervenire a giudicati
contrastanti, del principio dell’autonomia (o separazione) dei giudizi.
- Va comunque detto, per verità storica, che già prima della riforma dei codici di procedura (civile e penale) – che ha
sancito il venir meno del principio di
pregiudizialità e di preminenza dell'azione penale sulla civile – si sosteneva
che "per applicare la
disciplina del risarcimento del danno
da reato, ex art. 2947, 3° comma, c.c., non é necessario che sia stato iniziato
un procedimento penale, ma è sufficiente che il caso sia considerato
astrattamente come reato” (1),
spettando in tal caso "al giudice
civile di accertare 'incidenter tantum' che nella specie sia configurabile un
reato"(2) In particolare Corte
cost. n.102/1981 (seguita da Corte Cost. n. 118/1986 (3) è pervenuta – pur in regime di vigenza del principio
(oramai caduto) di pregiudizialità e preminenza dell'azione penale su quella
civile - alla "dichiarazione di illegittimità del 5° comma
dell'art. 10 del d.p.r. n. 1124/1965, nella parte in cui non consente...che
l'accertamento del fatto di reato possa essere compiuto dal giudice civile…
anche nei casi in cui il procedimento penale nei confronti del datore di lavoro
o di un suo dipendente si sia concluso con proscioglimento in sede istruttoria
o vi sia provvedimento di archiviazione",
asserendo che, se nel suddetto regime (si ripete, oramai non più
vigente) "si giustifica che l'azione
civile non sia proponibile in pendenza del processo penale, non trova invece
alcuna razionale giustificazione che sia anche…limitata ad ipotesi tassative la
possibilità di chiedere al giudice civile, ai fini dell'azione di sua
competenza, l'accertamento dell'illecito…".
- Le chiare insofferenze dei giudici della
Consulta, sopra evidenziate, sono sfociate - dopo la caduta del principio di
pregiudizialità e preminenza dell'azione penale sulla civile - in un pacifico e consolidato orientamento giurisprudenziale liberale in ordine alla
piena sussistenza di una effettiva autonomia del giudice civile
nell'accertamento del reato. Si veda per tutte Cass. 6.2.1990, n. 817 (4)
secondo cui: "Il giudice civile può
liberamente accertare la eventuale sussistenza
della responsabilità penale del datore di lavoro per il danno biologico
subito dal lavoratore…a condizione però che tale accertamento avvenga nel
rigoroso rispetto delle norme che disciplinano l'acquisizione delle prove nel
giudizio penale, dovendo in ogni caso escludersi l'utilizzazione di presunzioni
legali…". In senso conforme, Pret. Monza 15.12.1992 (5) secondo cui: "ove, in relazione alla produzione di
un infortunio sul lavoro, sia accertata – anche in sede civile – la
responsabilità penale dei destinatari degli obblighi posti dall'art. 2087 c.c.
– sussiste il diritto in capo al lavoratore al risarcimento…del danno
biologico…nonché del danno morale". Ancora, in senso conforme all'autonomia del giudice civile nel
riscontro del reato, Corte cost. 18.7.1991, n. 356 (6) secondo cui: " è noto che, secondo la prevalente
giurisprudenza di legittimità, l'accertamento che l'infortunio o la malattia
professionale sono stati determinati da negligenza o da inosservanza di
disposizioni di legge e quindi dei doveri posti dallo stesso art. 2087 c.c.,
implica l'affermazione dell'esistenza nel fatto degli estremi costitutivi del
reato di lesioni colpose. Ove…il giudice (civile, n.d.r.) non assecondando detto indirizzo giurisprudenziale…abbia escluso di
poter identificare un reato, questa Corte non può che prenderne atto…sì che in
difetto di sentenza di condanna penale ed avendo comunque escluso il giudice di
merito l'esistenza di un fatto reato… la questione sollevata relativamente alla
legittimità costituzionale dell'art. 10 d.p.r. n. 1124/1965 è rilevante".
-
- 2.
Il principio
dell’autonomia (o separazione) dei
giudizi nel nuovo codice di procedura penale: conferme dottrinali ed
applicazioni giurisprudenziali conformi
- Il venir meno della pregiudizialità dell'azione penale sulla civile – e conseguentemente
della "sospensione necessaria" di quest'ultima rispetto alla prima –
è stato riaffermato più di recente da Cass. 7 maggio 1997 n. 3992 e da Cass. 27
febbraio 1996, n. 1501 (7) secondo le quali: "Poiché nel nuovo codice di procedura penale non è più riprodotta la
disposizione di cui all'art. 3, 2° comma, del codice abrogato, si deve ritenere
che il nostro ordinamento non sia più ispirato al principio della unità della
giurisdizione e della prevalenza del giudizio penale su quello civile, essendo
stato dal legislatore instaurato il sistema della pressoché completa autonomia
e separazione fra i due giudizi, nel senso che, tranne alcune particolari e
limitate ipotesi di sospensione del processo civile previste dall'art. 75, 3°
comma, del nuovo c.p.p., il processo civile deve proseguire il suo corso senza
essere influenzato dal processo penale e il giudice civile deve procedere ad un
autonomo accertamento dei fatti e della responsabilità civile dedotti nel
giudizio (nella specie, la Cassazione ha affermato che, in caso di
patteggiamento della pena previsto dall'art. 444 c.p.p., non avendo la relativa
sentenza efficacia nel giudizio civile, il giudice civile, adito dal lavoratore
per ottenere il risarcimento del c.d. danno differenziale, ha il potere di
procedere ad un autonomo accertamento dei fatti al fine di stabilire la
responsabilità o non del datore di lavoro)".
- E la successiva sentenza della Cassazione del
13 maggio 1997, n. 4179 (8) – pur
effettuando talune puntualizzazioni rispetto all'orientamento delle due
precitate sentenze anteriori, puntualizzazioni irrilevanti per la fattispecie
afferente alla richiesta di risarcimento del danno morale – ha anch'essa
sostenuto:" Con riguardo alla
sospensione del giudizio civile ex art. 295 c.p.c. (come novellato dall'art. 35
l. n. 353 del 1990) in pendenza di procedimento penale …occorre distinguere
l'ipotesi del giudizio civile avente ad oggetto l'azione riparatoria ed il
risarcimento del danno , che è disciplinata dall'art. 75 c.p.p. ed è
tendenzialmente dominata dal principio dell'autonomia delle giurisdizioni e
quindi dal divieto di sospensione del processo civile se non nelle due ipotesi
previste dal 3° comma della citata disposizione (se l'azione è stata proposta
in sede civile nei confronti dell'imputato dopo la costituzione di parte civile
nel processo penale o dopo la sentenza penale di primo grado) e l'ipotesi di
ogni altro giudizio civile, che invece è retta (ex art. 211 norme att., coord.
e trans., c.p.p.) dal principio della prevenzione della possibile
contraddittorietà di giudicato, sicché la sospensione (necessaria) del giudizio
pregiudicato è in tal caso condizionata alla ricorrenza della duplice
condizione dell'avvenuto esercizio dell'azione penale e della rilevanza e
dell'opponibilità del giudicato penale formatosi a seguito di giudizio
dibattimentale nei limiti previsti dall'art. 654 c.p.p.".
- In buona sostanza sussiste uniformità
interpretativa in ordine all'autonomia
- anche di scelta da parte del lavoratore ricorrente – fra azione civile
risarcitoria di danno per reato penale e azione penale di accertamento, quando
l'azione civile attenga ad ipotesi di "restituzione o di risarcimento
danno". L'autonomia tra i due tipi di azione trova il suo fondamento di
diritto positivo nell'art. 75, 2° e 3° comma, c.p.p. "Questa norma al 2° comma sancisce il principio della separazione del
giudizio civile per il risarcimento del danno e per le restituzioni ed il
giudizio penale, disponendo che
'l'azione civile prosegue in sede civile se non è trasferita nel processo
penale o è stata iniziata quando non è più ammessa la costituzione di parte
civile'. Il legislatore penale, dunque ha accolto il principio dell'autonomia
del giudizio civile dal giudizio penale ed ha abbandonato così quello della
prevalenza della giurisdizione penale" (9). In senso conforme anche
Giovagnoli (10) per il quale: "Secondo
la sentenza citata (n. 4179/1997, n.d.r.) il codice di procedura penale del 1988 avrebbe introdotto la regola
del 'simultaneus processus' (cioè concomitante ed autonomo, n.d.r.) solo con riferimento all'azione civile per
danni da reato. In questa materia la previsione dell'art. 75 c.p.p. non lascia
molti dubbi all'interprete: spetta al danneggiato la facoltà di scelta in
ordine alla sede in cui esercitare l'azione riparatoria, e qualora egli ritenga
di adire il giudice civile, il relativo giudizio proseguirà senza che al danneggiato possa opporsi l'eventuale
sentenza di assoluzione pronunciata dal giudice penale. La regola
dell'autonoma prosecuzione dei giudizi qui incontra due sole eccezioni,
previste dall'art. 75, 3° comma, c.p.p., in forza del quale il processo civile rimane sospeso nel caso
in cui inizi dopo la costituzione di parte civile nel processo penale o dopo che
sia stata pronunciata la sentenza penale di primo grado".
- Nonostante il 'distinguo' operato da Cass. n. 4179/1997 (nei confronti del più
condivisibile orientamento di Cass. n. 1501/'96 e Cass. n. 3992/'97) - 'distinguo'
che, si ripete non riguarda le azioni civili per restituzione o risarcimento
danno, si afferma decisamente da parte della dottrina che dopo l'entrata in
vigore del nuovo codice di procedura penale (d.p.r. 22.9.1988, n. 447) che non
riproduce più una disposizione analoga
al precedente art. 3, 2° e 4° comma, c.p.p. e
dopo che è stata rivista la
regolamentazione già contenuta nell'art. 24 c.p.p. del 1930 ed è stata adottata
una nuova disciplina in ordine agli effetti del giudicato penale negli artt.
651,652 e 654 c.p.p. e dopo che l'art. 35 della l. 26 novembre 1990, n. 353 è
intervenuto sull'art. 295 c.p.c. cancellando il rinvio all'art. 3 c.p.p. che
era sopravvissuto all'abrogazione di questa norma, "il principio dell'autonomia delle giurisdizioni, lungi
dall'essere stato affermato in via parziale e tendenziale, è stato sancito in
via generale, come risulta anche dalla disciplina dettata in materia di
questioni pregiudiziali (art. 2 e 3 c.p.p. del 1988), dove il legislatore ha
optato per la indipendente prosecuzione dei giudizi…" (11). Osserva confermativamente Corte cost. n.
182/1996 (12) che "proprio la recente riforma della norma
citata (art. 295 c.p.c.) nell'attenuare il nesso di pregiudizialità penale in
consonanza con l'autonomia voluta dal
nuovo codice di procedura penale per le azioni civili restitutorie e risarcitorie, ha espresso, più in generale, il disfavore
nei confronti del fenomeno sospensivo in quanto tale".
- Conviene recentissimamente sull’introduzione –
a seguito degli artt. 651-654 del vigente codice di procedura penale e delle
innovazioni al codice di procedura civile – del principio del c.d. “doppio
binario” o della separazione ed autonomia dei giudizi penale e civile,
Vallebona (13) che come noi
correttamente afferma: “ L’azione risarcitoria per il danno derivante da
reato (art. 185, 2° co., c.p.) può essere esercitata, a scelta del (lavoratore)
danneggiato, sia in sede civile oppure in sede penale mediante la costituzione
di parte civile ex art 74 e ss. c.p.p…con esclusione di qualsiasi efficacia nei
suoi confronti dell’eventuale giudicato penale assolutorio (art. 652, 1° co.,
c.p.p., secondo il quale la ‘sentenza penale irrevocabile di assoluzione…ha
efficacia di giudicato, quanto all’accertamento che il fatto non sussiste…, nel
giudizio civile…, salvo che il danneggiato dal reato abbia esercitato l’azione
in sede civile a norma dell’art. 75, 2° co., c.p.p.). Pertanto il lavoratore
che si ritenga danneggiato da un reato del datore di lavoro – normalmente dal
reato di lesioni personali colpose, ex
art. 590 c.p., per violazione delle norma dell’art. 2087 c.c., in tema di
prevenzione e sicurezza e a tutela della personalità morale ovvero per
violazione del divieto di demansionamento, ex art. 2103 c.c., del rispetto
della normativa in tema di riposi, trasferimenti, controlli, sanzioni disciplinari, licenziamenti ovvero
dai reati ricollegabili alle molestie sessuali (rinvenibili usualmente
negli artt.610, 621,660 c.p., n.d.r.) – ha una doppia chanche,
poiché da un lato può invocare nel giudizio civile l’autorità dell’eventuale
giudicato penale di condanna ex art. 651 c.p.p. (anche quando non abbia
partecipato al processo penale) e dall’altro lato, evitando di costituirsi
parte civile, può tentare, anche in presenza di un giudicato penale di
assoluzione, di far accertare dal giudice civile la colpevolezza del datore di
lavoro (ex art. 75, 2° co., e 652, 2° co., c.p.p.). Questa seconda possibilità
è garantita perfino in caso di avvenuta costituzione di parte civile, qualora
l’assoluzione sia stata pronunciata ‘sulla base di una prova assunta con
incidente probatorio a cui il danneggiato dal reato non è stato posto in grado
di partecipare (art. 404 c.p.p.)”. Il che rende – secondo Vallebona – “la
tutela della posizione del danneggiato, fortissima”.
- Prosegue ancora il predetto autore – quasi a ricapitolazione
dei concetti innanzi esposti – asserendo che: “ La fondamentale disposizione
dell’art. 185, 2° co., c.p., prevede che ‘ ogni reato, che abbia cagionato un
danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e
le persone che, a norma delle leggi civili, debbano rispondere per il fatto di
lui’. Questa azione risarcitoria, come si è visto, può essere esercitata
innanzi al giudice civile secondo i principi generali oppure ‘ può essere
esercitata nel processo penale’ (art. 74 c.p.p.) ‘mediante la costituzione di
parte civile’(art. 76 c.p.p.). Nel caso in cui il danneggiato scelga di agire
in sede civile e non intervenga un giudicato penale vincolante, è il giudice
civile a dover accertare la sussistenza del reato, ovviamente al solo fine di
decidere sulla domanda risarcitoria. In particolare, l’accertamento del reato è
indispensabile per il risarcimento del danno morale soggettivo (art. 2059 c.c.;
art. 185, 2° co., c.p.), altrimenti non dovuto”.
-
- 3.
L’autonomia del
giudice del lavoro nel riscontro del reato, in fattispecie di molestie sessuali
e di pregiudizio alla salute psicofisica, ai fini del risarcimento del danno
morale ex art. 2059 c.c. e 185 c.p.
- Ancora
conferme sulla pacifica sussistenza di una autonoma facoltà del giudice
civile di riscontro del reato (ai fini
della risarcibilità del danno in sede civile), provengono da tutte le sentenze
civili che hanno deciso, in presenza di "molestie sessuali sul luogo di
lavoro", la spettanza - in capo
alle lavoratrici vittime - del risarcimento del danno biologico e separatamente
(in ragione del requisito delittuoso ex art. 2059 c.c.) del risarcimento del
danno morale. In tal senso si citano, Pret. Trento 22.2.1993 (riscontro da
parte del pretore del lavoro del reato ex art. 610 c.p. e/o di quello ex art.
56 e 521 c.p. (14) ; Pret. Milano
14.8.1991 (riscontro da parte del pretore del lavoro del reato ex art.
521 c.p. o ex art. 56-519 c.p. (15), confermata da Trib. Milano 19.6.1993 (16);
Trib. Milano 21.4.1998 (riscontro da
parte del pretore del lavoro del reato ex art. 660 c.p., (17). Incisiva,
relativamente all'affermazione di tale autonomia del giudice civile nel
riscontro del reato penale, la già citata Pret. Milano 14.8.1991, la quale ha rivendicato tale
autonomia in concorrenza di un'azione penale conclusasi con l'archiviazione.
Ha, al riguardo, asserito il Pretore: "spetta
inoltre (cioè addizionalmente al risarcimento del danno biologico, n.d.r.) alla Neposteri il risarcimento del danno morale, dal momento che la
condotta messa in atto nei suoi confronti dall'Azienda, oltre che un
inadempimento contrattuale, integra anche l'ipotesi delittuosa (ed, in
particolare, il reato p. e p. dall'art. 521 c.p., se non già quello p.e p.
dagli artt. 56-519 c.p.). Può incidentalmente osservarsi che tale
configurazione giuridica dei fatti compiuti dall'Azzali in danno della
Neposteri mal si concilia con il provvedimento di archiviazione, emesso dal
giudice penale – a quanto risulta senza l'espletamento di alcuna attività
istruttoria – e prodotto dalla difesa della ricorrente alla prima udienza. Ma
tale discrepanza non può produrre alcun immediato effetto sull'esito della presente causa, sia perché
il giudice civile conserva pur sempre la sua autonomia e possibilità di
valutare anche diversamente da quello penale i fatti delittuosi sottoposti al
suo esame per la decisione sugli aspetti e conseguenze civili del fatto-reato;
sia perché nel caso di specie la valutazione dei fatti di causa è giustificata
da un'attività istruttoria, che è –invece – mancata in sede penale , sia perché
– infine – il diverso andamento dei due procedimenti trova, ad avviso di questo
pretore, una possibile spiegazione nel diverso e maggiore interesse manifestato
dalla parte lesa a trovare soddisfazione in sede civile, piuttosto che penale,
per i torti subiti ".
- A favore della libertà per il giudice civile
di procedere all'accertamento delle responsabilità penali datoriali a fini di
risarcimento del danno morale, si è recentemente espresso anche Trib. Milano 12
dicembre 1998 (18) secondo cui: "Per
il riconoscimento del danno morale non occorre un accertamento penale che il
fatto costituisce reato e non occorre neppure che le parti che lo chiedono
specifichino di volere un accertamento incidentale di tale tipo. E' sufficiente
– secondo il noto principio che il giudice deve interpretare la domanda - che sia chiaro che le parti assumono
nel fatto il carattere di reato al fine
di ottenere il danno morale . E così è nella specie".
- Conformemente si è espressa Cass. 20 aprile 1998,
n. 4012 (19) attinente alla fattispecie di un lavoratore bancario colpito da
grave malattia nervosa per essere rimasto coinvolto in tre rapine nel luogo di
lavoro, successivamente licenziato per superamento del periodo di comporto per
malattia o comunque per sopravvenuta inidoneità all’espletamento delle
mansioni.
- Tale decisione
atteneva e perveniva al riscontro di
omissione da parte datoriale delle misure a tutela della salute rinvenibili
nell’ampia norma tutoria dell’art. 2087 c.c. (nella specie costituite dalla
presenza alla porta d’ingresso dell’agenzia bancaria della “vigilanza armata”,
a fini di scoraggiamento della criminalità, in luogo della sola “doppia porta
con metal
detector”
approntata dalla Banca).
- Merita sottolineare come oltre al riconoscimento
del danno biologico e del danno patrimoniale – conseguente alla grave malattia
nervosa contratta dal ricorrente in conseguenza delle rapine subite
dall’agenzia - la predetta decisione
della Cassazione, confermando la
decisione del Tribunale, ha riconosciuto al ricorrente anche il danno morale da
reato. Al riguardo ha ritenuto infondata l’eccezione della difesa della Banca –
secondo cui tale richiesta costituiva
un nuovo petitum avanzato in sede di appello – in quanto, come
correttamente ha rilevato la Corte di
Cassazione, il ricorrente aveva fin dall’inizio richiesto nel ricorso “l’affermazione
della responsabilità della Banca Popolare Pugliese per tutti i danni
patrimoniali e morali derivanti dalla dedotta violazione dell’obbligo di
sicurezza previsto dall’art. 2087 c.c.”
- Ha quindi concluso la Suprema Corte sul
punto, che “su tale indiscutibile
presupposto si è conseguentemente determinato a condannare la stessa banca a
risarcire i danni morali subiti dal lavoratore, osservando (correttamente e coerentemente
con principi ripetutamente affermati dalla giurisprudenza, puntualmente
richiamati nella decisione ora gravata) che non può escludersi ‘il rilievo
anche penale della colpa per mancata adozione delle misure di sicurezza
obbligatorie ex art. 2087 c.c., colpa posta a fondamento della responsabilità
civile riconosciuta in sentenza (v. Cass. pen. sez IV 8 marzo 1988, Corbetta;
Cass. pen. sez. IV 13 gennaio 1989, Marocco)’. E da siffatta premessa, lo
stesso giudice di appello è pervenuto all’esatta conclusione che le lesioni
colpose costituiscono proprio quella fattispecie criminosa tipica, procedibile
d’ufficio, (art. 590 c.p.), che giustifica il risarcimento dei danni morali
(art. 2059 c.c. e 185 c.p.)”.
- E la stessa Corte
di Cassazione, nella successiva decisione n. 10405 del 20 ottobre 1998 (Pres. Sommella, Rel. Coletti, inedita a
quanto consta) ha statuito, con innegabile chiarezza, che: “Ai fini del
risarcimento del danno morale, il giudice civile ha il potere di accertare
autonomamente se il fatto dannoso, dal quale trae origine la pretesa
risarcitoria, integri gli estremi di un reato, nonostante non sia stata
promossa l’azione penale nei confronti dell’autore materiale di esso, ovvero il
procedimento penale sia stato definito con una declaratoria di estinzione del
reato ovvero sia stato emesso un provvedimento di archiviazione della notizia
di reato o di proscioglimento istruttorio”.
- Nello stesso senso
più di recente, Cass. 6 novembre 2000, n. 14443 (20), secondo cui: “ai fini del
risarcimento del danno patrimoniale (art. 2059 c.c., l’inesistenza di una
pronuncia del giudice penale, nei termini in cui ha efficacia di giudicato nel
processo civile a norma degli artt.651 e 652 c.p.p., comporta che il giudice
civile possa accertare ‘incidenter tantum’ l’esistenza del reato – nel caso di ingiuria, riscontrato
insussistente in sede di merito n.d.r.) – nei suoi elementi obiettivi e soggettivi,
individuando l’autore, procedendo al relativo accertamento nel rispetto dei
canoni della legge penale (cfr. ex multis, Cass. 14 2.2000, n. 1643)”.
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- M. Meucci
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- (pubblicato in Notiziario del lavoro e
previdenza, n. 33 del 25 novembre 2000, p. 2710, ed. de lillo)
-
- NOTE
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- (1)
Così App. Genova 27.4.1981, in Foro it., Rep.1981, voce
Prescriz. e dec., n. 165; Cass. 6.2.1978, n. 551, ibidem, Rep. 1978, voce cit. n. 155.
- (2) Così Cass. 15.2.1980,
n. 1147, in Foro it., Rep. 1980, voce Prescriz. e dec.., n. 162; Corte
Cost. 19.6.1981, n. 102, in Giur.
cost. 1981, 1, I, 864 ed ivi 878.
- (3) Corte cost. 30 aprile 1986, n. 118, in Foro
it. 1986, I, 383 e in Or. giur. lav. 1986, 1105.
- (4) In Riv. giur. lav. 1991, 3, III,
144.
- (5) In D&L, Riv. crit. dir. lav.
1993, 644.
- (6) In Riv. giur. lav. 1991, III, 143 ed
ivi 150.
- (7) In Foro
it. 1997, I, 1758.
- (8) In Foro
it. 1997, I, 1757 con nota di Trisorio Liuzzi.
- (9) Così Trisorio Liuzzi, Sulla
abrogazione della sospensione del processo per pregiudizialità penale, in Foro
it. 1997, I,1762; conf. Cordero, Codice di procedura penale, Torino
1990, 90; Amodio e Dominioni, Commentario del codice di procedura penale,
Milano 1989, I, 436.
- (10) Giovagnoli, Giudizio
civile per il licenziamento e giudicato penale, in Mass. giur. lav.
1999,554 e ss.
- (11) Così ancora Trisorio
Liuzzi, cit., 1762.
- (12) Corte cost. 31 maggio
1996, n. 182, in Foro it. 1997, I, 1023.
- (13) Vallebona, Rapporti tra processo penale e processo
civile per il risarcimento del danno alla persona, in Riv. it. dir. lav.
2000, I, 241 e ss.
- (14) In Giust. civ. 1994, I, 555.
- (15) In Riv.
it. dir. lav. 1992, II, 403
- (16) In D&L,
Riv. crit. dir. lav. 1994, 130.
- (17) In D&L, Riv. crit. dir. lav. 1998,
957.
- (18) In D&L, Riv. crit. dir. lav. 1999,
183
- (19) Singolarmente ignorata
da tutte le Riviste delle Organizzazioni ed Enti che si auto-accreditano
“obiettività d’informazione” e solo presente in Riv. it. dir. lav. 1999,
326 con nota di Mautone dal titolo “Sul contenuto dell’obbligo di
prevenzione delle rapine a carico dell’istituto di credito e sulle conseguenze
del suo inadempimento”.
- (20) In Lav. prev. Oggi
2000, 2287 ed ivi 2192 con nota di M. Meucci, Immanenza del danno da
demansionamento: riconferma di vecchie certezze.
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