LA
RESISTENZA DI COFFERATI
Perchè
Berlusconi ha attaccato duramente Sergio Cofferati e con lui il più grande e
forte sindacato italiano? Ma perché la
Cgil e il suo leader rappresentano la sola opposizione di massa al progetto
berlusconiano di una repubblica presidenziale, alla monarchia
repubblicana. Un progetto che nasce
dalla grande rivincita mondiale del mercato, dello sviluppo continuo e fuori
controllo, della distruzione del lavoro come fondamento della società. La sinistra che chiacchiera e litiga vi
assiste impotente, il sindacato risponde ad attacco su attacco e scende nelle
piazze. Le polemiche aspre sul professor Biagi o su Claudio Scajola sono
marginali al vero motivo dello scontro: la difesa del lavoro, fondamento della
società, contro un mercato che lo vuole piegare alle sue tecniche e alla sua
organizzazione, che nella pratica vuole un lavoro sottoretribuito e incerto,
limitato nella sua autonomia.
Un
lavoro minacciato nella sua integrità fisica,
culturale, professionale, fuori dal flusso delle informazioni, affidato
alla «compassionevole» comprensione del neoliberismo al potere.
Osserva
Alfredo Reichlin: «Quando la religione cercò di dominare le attività umane la
chiamammo teocrazia, quando la politica estese il suo potere lo chiamammo assolutismo,
adesso il dominio in atto della finanza e della tecnologia viene chiamato
libertà».
Il nemico del regime che nasce è il sindacato, ricondotto secondo la mitomania berlusconiana sotto il nome onnicomprensivo di comunismo. Nel suo intervento alla Carnera Berlusconi ha parlato di «barbarie comunista» senza precisare tempi e luoghi. Una barbarie che arriva dalle steppe russe alle marcite emiliane, una insidia permanente all'uomo buono che lavora per la salvezza della patria. Quale barbarie? Quella delle lotte contadine o operaie o della resistenza, o della promozione sociale dei ceti più umili o quella del fattore K al soldo di Mosca? Berlusconi non ha precisato, non precisa mai perché ai ragionamenti politici ha da sempre sostituito le favole in cui lui, il buono, il salvatore riesce a prevalere sul demonio. Gli bastano la diffamazione, le allusioni: «Certe critiche oblique, figlie di una vecchia cultura di conflitto, suonano e possono essere percepite come minacce, per usare la dolorosa e intimidita espressione del professor Biagi…ci sono parole a partire dall’aggettivo scellerato o limaccioso che in un paese civile e democratico dovrebbero esserci risparmiate».
Ma
con che faccia da uno che ha definito i giudici di Milano sovversivi e
criminali, che lavora da anni alla demolizione della giustizia e alla
restaurazione dei privilegi? Continua è
l'allusione al comunismo, il nostro, quello del Pci e dei Ds come
fiancheggiatore e mandante del terrorismo.
Senza ricordare che il sindacato di Luciano Lama fu il primo a prendere
le distanze dalla contestazione rivoluzionaria e che dal sequestro Amerio alla
Fiat chiuse ogni rapporto con il terrorismo che serpeggiava nelle fabbriche
arrivando addirittura con il compagno
Pecchioli a formare una sorta di governo ombra nella lotta al terrorismo. Lotta a cui la borghesia d'ordine che oggi
lamenta la barbarie comunista non diede il minimo contributo. Giuliano Ferrara
allora dirigente comunista nelle fabbriche torinesi ricorderà bene che il
questionario contro il terrorismo cadde nel vuoto proprio nei quartieri alto
borghesi come la Crocetta.
«Biagi è stato barbaramente trucidato dopo una lunga e aspra campagna di delegittimazione della sua persona, di squalifica morale delle sue posizioni, di denuncia di quello che è stato malevolmente definito il suo collateralismo». Improvvisamente il simpatico «cinese», il garbato, civile sindacalista Cofferati diventa un organizzatore di trame «oblique». «Ma che bravi questi ghost writer che inventano il linguaggio del nuovo autoritarismo» e la sua retorica «in piena sincerità di cuore», «noi che ci riconosciamo in Biagi come un eroe e come un martire». E poi tutti insieme alla Buvette di Montecitorio, il simpatico Fini e il brillante Tremonti a fare dello spirito con Tremonti che brinda a un suo prossimo licenziamento così «finisco di rompere i coglioni» perché la volgarità è la copertura della mediocrità. Particolari penosi della seduta alla Camera: il professor Giorgio La Malfa, figlio dell'azionista Ugo e il compagno Cicchitto, lombardiano, fra i plauditores del presidente del governo che da quando è al potere non ha mancato un giorno per screditare, minare, indebolire le istituzioni democratiche, di curare la politica spettacolo abbandonando a se stessi i problemi seri del paese. Forse a molti è sfuggita l'importanza vera della resistenza del sindacato alla riforma dell'articolo 18: è l'ultima resistenza, l'ultimo ostacolo al dilagare della rassegnazione e dell’unanimismo.
GIORGIO
BOCCA
(pubblicato su “la Repubblica” del 5 luglio 2002, p.1–17)