Il danno esistenziale nel rapporto di
lavoro
Sommario: 1. Il nuovo assetto dei danni risarcibili
- 2. Lo sganciamento del danno morale risarcibile dal riscontro dell’illecito
penale - 3. Il danno esistenziale nel nuovo assetto dei danni risarcibili -
3.1. (segue) Danno esistenziale e prova per presunzioni ex artt. 2727-2729 c.c. - 4. Il percorso del danno esistenziale e la sua rilevanza nel campo
delle lesioni dei diritti della personalità del lavoratore - 4.1. (segue) Danno
esistenziale da pregiudizio alla professionalità e prova per presunzioni - 5.
Oneri probatori ed evitamento di duplicazioni risarcitorie.
*****
1. Il nuovo assetto dei danni risarcibili
Nel periodo
compreso tra i mesi di maggio e luglio 2003 sono intervenute importanti
decisioni della Corte costituzionale [(n. 233 dell’11 luglio 2003, (1)] e della
Corte di cassazione [(sez. III civ. n. 8827 e 8828, entrambe del 31 maggio
2003, (2), cui
si è successivamente conformata Cass.n. 12124 del 19 agosto 2003] - condivise e richiamate,
nella recentissima giurisprudenza di merito sul mobbing, da Trib. Tempio
Pausania n. 157 del 10.7.2003, (3) -, tutte quante emesse sul tema della
responsabilità risarcitoria da atto illecito, che hanno indicato e delineato un nuovo orientamento
rispetto al precedente assetto del risarcimento del “danno ingiusto” (assetto
notoriamente riposante sulla tripartizione nelle tradizionali tre componenti
del danno patrimoniale, del danno non patrimoniale – cioè a dire del danno
morale soggettivo – e del danno biologico, attinente eminentemente alla lesione
dell’integrità dello stato di salute psico-fisica, ma dalla giurisprudenza
pregressa della Corte costituzionale e della cassazione dilatato a copertura di
altri danni di natura relazionale e sociale).
Seppure fosse
già stata da tempo elaborata in sede dottrinale (con recepimento da parte di
isolata giurisprudenza di merito e di sporadiche sentenze della Cassazione) la
figura di un nuovo tipo di danno, denominato “esistenziale”, le intervenute,
precitate, decisioni (della Corte costituzionale e della Cassazione) hanno
accolto pienamente la nuova fattispecie ed hanno stabilito che una lettura
costituzionalmente orientata delle
nostre norme codicistiche (art. 2059
c.c., in particolare) fanno sì che si debba riconoscere nell’ordinamento una
più moderna o nuova ripartizione dei danni risarcibili da atto illecito,
facente perno sulla dicotomia: a) del danno patrimoniale (consistente nella
perdita di un bene o utilità monetariamente quantificabile) e, b) del danno non
patrimoniale, slegato da oggettive quantificazioni monetarie. A sua volta il
danno patrimoniale sub a) è suddivisibile nelle due specie del:
a1) danno
emergente;
a2) danno
da lucro cessante;
mentre il
danno non patrimoniale sub b) è a sua volta strutturato dalla tre sottospecie
del :
b1) danno
morale soggettivo (c.d. pretium doloris o patema
d’animo) inteso come sofferenza interiore di carattere temporaneo o transeunte
turbamento dello stato d’animo della vittima, di cui si afferma ora espressamente
la risarcibilità indipendentemente dal vincolo o collegamento all’ipotesi del
reato, sganciando il danno de quo dal collegamento a fatti o atti
con riconosciuta rilevanza penale ex art. 185 c.p.;
b2) il danno
biologico, precisando che deve essere inteso in senso stretto, come sola
lesione dell’interesse, costituzionalmente garantito, all’integrità psichica e
fisica della persona conseguente ad una valutazione o accertamento medico (art.
32 Cost.), in armonia alla nuova definizione di esso rinvenibile anche
nell’art. 13 del d.lgs. n. 38/2000 di riassetto dell’Inail e nell’art. 5 della
l. n. 57/2000 (introducente la griglia degli importi risarcitori del danno biologico di lieve entità da incidenti
stradali ove il danno biologico è - anche qui - qualificato come lesione
all’integrità psico-fisica “suscettibile di accertamento medico legale”).
b3) il danno
(spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale) derivante
dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla
persona.
Esemplificativamente
- ma non esaustivamente - per la migliore comprensione del lettore, la lesione
di interessi di rango o rilevanza costituzionale, rifluenti nella fattispecie
(ad ampia portata) del “danno esistenziale, é stata riconosciuta in dottrina ed
in giurisprudenza nei casi di: danno alla reputazione per effetto di
diffamazione; di danno alla professionalità da dequalificazione (o
demansionamento) lesiva del diritto costituzionale del lavoratore
all’autorealizzazione nel lavoro e nella comunità d’impresa e, più in generale,
nella società (art. 2 Cost.); nel danno da infortunio per mancata adozione dei
presidi di sicurezza; nel danno alla riservatezza per violazione della privacy e modalità
scorrette nella raccolta di dati personali; nel danno da mancata promozione per
violazione delle norme concorsuali o procedure di procedimentalizzazione
contrattualmente concordate nei ccnl o accordi aziendali; nel danno da
estromissione da concorsi; nel danno da mancata collocazione in graduatorie per
l’impiego; nel danno da molestie e/o
violenze sessuali; nel danno da irragionevole durata del processo; nel danno da
privazione della libertà personale cagionata dall’esercizio di funzioni
giudiziarie; nel danno da atti
discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi; nel danno alla sfera
sessuale preclusiva dei normali rapporti; nel danno da elisione dei rapporti
parentali a seguito di perdita di congiunto; nel danno al diritto alla
procreazione per interruzione di gravidanza; nel danno da asfissia neonatale
determinante la condizione di cerebroleso; nel danno alla fruizione della
quiete e del riposo notturno (per immissioni e rumori eccessivi); nel danno
alla fruizione delle ferie (c.d. vacanza rovinata) o del riposo settimanale;
nel danno da mancata protezione e difesa della persona, e così via. Danni,
tutti quanti compendiabili nella lesione dell’interesse alla bontà o normalità
della “qualità della vita” - nei suoi vari aspetti di svolgimento - sia a
livello individuale sia in ambito familiare e sociale.
In ordine
alla rilevata nuova configurazione o assetto sistematico, si esprimono nello
stesso senso, Cendon-Ziviz (4) secondo i quali «…la mappa generale del
danno aquiliano sarebbe…da articolare, per il futuro, secondo una scansione intonata al 2+3 o al 2+2 » (nel caso
in cui il danno biologico venisse ricondotto nell’ambito del danno
esistenziale, cosa che noi, allo stato, non ci sentiamo di condividere).
2. Lo
sganciamento del danno morale risarcibile dal riscontro dell’illecito penale
L’occasione
per la delineazione del nuovo assetto dei danni risarcibili da fatto illecito
si è presentata in sede di esame del “danno morale”, in due vertenze
giudiziarie decise dalla Cassazione civile nello stesso giorno 31 maggio 2003
(nn. 8827 e 8828), in cui si eccepiva, ad es. nella fattispecie più
monetariamente corposa costituita da
Cass. n. 8827, la (presunta) duplicazione risarcitoria reperibile nella
liquidazione equitativa operata con somma indennitaria onnicomprensiva, a
fronte di “danno morale” da acuta sofferenza dei genitori e di “danno
esistenziale” perenne per gli stessi (che la Corte d’appello di Bologna aveva,
erroneamente - ma correttamente secondo il pregresso orientamento - ricondotto nell’alveo “dilatato” del danno
biologico) i quali, per effetto di convivenza ed accudimento del figlio
cerebroleso a seguito di asfissia neonatale
indotta dai medici, si erano ritrovati “frustrati nell’aspettativa di
una normale vita familiare dedita all’allevamento della prole, ad una normale
condizione conduzione di vita, ad una serena vecchiaia, …privati del rapporto genitore-figli, unitamente
all’esigenza di provvedere perennemente alle necessità del figlio ridotto in
condizioni pressochè vegetative”. L’eccezione della Compagnia di assicurazione
- in ordine alla liquidazione di un “danno morale” in assenza di un riscontro
di reato da parte dei sanitari, reato richiesto dalla lettera dell’art. 2059
c.c. - è stata disattesa, così come è stata disattesa (nella decisione n.
8828/2003) analoga eccezione, in fattispecie di “danno morale” da perdita di
congiunto in un incidente automobilistico in cui, mancando l’accertamento della
responsabilità di uno dei conducenti, la stessa è presunta dall’art. 2054 c.c.
e ripartita in pari misura tra i due conducenti.
L’art. 2059
c.c., invocabile in presenza di danno
non patrimoniale, è stato da queste sentenze della Cassazione (finalmente)
« depenalizzato » - o come altri hanno detto - “normalizzato,
costituzionalizzato, ‘duemilaquarantatreizzato’ (5) - , sganciando il risarcimento
del danno morale (la sofferenza interiore più o meno acuta e di varia durata,
comunque transeunte) dal riscontro del reato, correlandolo invece al
riscontro dell’essere la sofferenza
stata causalmente conseguente alla lesione di interessi costituzionalmente
protetti (nel caso: il rapporto familiare e parentale, riposanti sul
riconoscimento costituzionale, ex art.
29, 1 c., Cost., dei “diritti di
famiglia” latamente intesi).
Ed è stato “depenalizzato” con queste
incisive, convincenti, argomentazioni: « Si deve quindi ritenere ormai acquisito
all'ordinamento positivo il riconoscimento della lata estensione della nozione
di "danno non patrimoniale", inteso come danno da lesione di valori
inerenti alla persona, e non più solo come "danno morale soggettivo".
Non sembra tuttavia proficuo ritagliare all'interno di tale
generale categoria specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo:
ciò che rileva, ai fini dell'ammissione a risarcimento, in riferimento
all'articolo 2059, è l'ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona,
dal quale conseguano pregiudizi non suscettivi di valutazione economica.
Venendo ora alla
questione cruciale del limite al quale l'articolo 2059 del codice del 1942
assoggetta il risarcimento del danno non patrimoniale, mediante la riserva di
legge, originariamente esplicata dal solo articolo 185 c.p. (ma v. anche
l'articolo 89 c.p.c.), ritiene il Collegio che, venendo in considerazione
valori personali di rilievo costituzionale, deve escludersi che il risarcimento
del danno non patrimoniale che ne consegua sia soggetto al limite derivante
dalla riserva di legge correlata all'articolo 185 c.p.
Una lettura della norma costituzionalmente orientata impone di
ritenere inoperante il detto limite se la lesione ha riguardato valori della
persona costituzionalmente garantiti. Occorre considerare, infatti, che nel
caso in cui la lesione abbia inciso su un interesse costituzionalmente protetto
la riparazione mediante indennizzo (ove non sia praticabile quella in forma
specifica) costituisce la forma minima di tutela, ed una tutela minima non è
assoggettabile a specifici limiti, poiché ciò si risolve in rifiuto di tutela
nei casi esclusi … .
D'altra parte, il rinvio ai casi in cui
la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere
riferito, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni
della legge fondamentale, atteso che il riconoscimento nella Costituzione dei
diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente,
ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso
determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non
patrimoniale.»(Cass. n.
8828/03, cit.).
Nel caso esaminato, da cui è stata colta l’occasione per l’affermazione
di principi di generalizzata portata, è stato riconosciuto che: « Il danno non
patrimoniale da uccisione di congiunto, consistente nella perdita del rapporto
parentale, si colloca quindi nell'area dell'articolo 2059 in raccordo con le
suindicate norme della Costituzione.
Il suo risarcimento postula tuttavia la
verifica della sussistenza degli elementi nel quali si articola l'illecito
civile extracontrattuale definito dall'articolo 2043. L'articolo 2059 non
delinea una distinta figura di illecito produttiva di danno non patrimoniale,
ma, nel presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della
struttura dell'illecito civile, consente, nei casi determinati dalla legge,
anche la riparazione di danni non patrimoniali (eventualmente in aggiunta a
quelli patrimoniali nel caso di congiunta lesione di interessi di natura
economica e non economica)».
3. Il danno
esistenziale nel nuovo assetto dei danni risarcibili
Alla nuova
elaborazione - o nuovo assetto dogmatico dei danni ingiusti, delineato al par.
1 del presente articolo - si è pervenuti dal lato e sul versante della
enucleazione e valorizzazione del “danno esistenziale”, dopo che è stata notata
l’insufficienza della vecchia tripartizione (danno patrimoniale, biologico,
morale derivante da illecito penale) a coprire ipotesi di danno da lesione di
diritti della personalità costituzionalmente garantiti, diversi dalla
compromissione medico-legale della salute e dal danno psichico clinicamente
accertato, nel caso in cui tali pregiudizi - riconducibili sempre e comunque al
“danno ingiusto” ex art. 2043 c.c.- non sfociavano o non si accompagnavano a
comportamenti penalmente rilevanti (ex art. 2059 c.c. e 185 c.p), tali da
occasionare la soluzione risarcitoria attraverso la fattispecie del “danno
morale”.
Poiché
la Corte costituzionale e la Cassazione avevano da tempo affermato a chiare
note che «la vigente Costituzione, garantendo principalmente i valori
personali, svela che l’art. 2043 c.c. va posto soprattutto in correlazione agli
articoli della Carta fondamentale (che tutela i valori predetti) e che,
pertanto, va letto in modo idealmente idoneo a compensare il sacrificio che gli
stessi subiscono a causa dell’illecito (6), «l’art. 2043 c.c.
…deve essere necessariamente esteso a
ricomprendere il risarcimento non solo dei danni patrimoniali in senso stretto,
ma con eccezione del danno morale, tutti i danni che, almeno potenzialmente,
ostacolano le attività realizzatrici della persona umana» (7). In tal
modo, correttamente, l’art. 2043 venne interpretato non più come norma
secondaria di sanzione rispetto a norme primarie di divieto, bensì come norma
primaria di tutela, a carattere generale, in relazione al complesso dei valori
che ineriscono all’individuo e che si determinano attraverso la lettura unitaria
e sistematica delle fonti primarie nazionali, comunitarie ed internazionali
(8), che salvaguardano valori fondamentali della persona, quali vanno emergendo
con l’evolversi sia della società nel
suo complesso sia delle singole aggregazioni sociali in cui si svolge la
personalità del singolo.
Conseguenza
di tali pregresse notazioni fu la
nascita (ed ora l’accreditamento
pacifico) del cd. “danno esistenziale” – come categoria o sottospecie del danno non
patrimoniale (distinto dal danno biologico, soggetto al riscontro dei CTU e dei
medici legali) - ove tramite di esso il
magistrato deve e dovrà prendere in considerazione, a fini risarcitori, tutte
quelle lesioni, riconducibili a fatto ingiusto, inferte ai diritti della personalità costituzionalmente protetti,
che nel campo lavoristico rilevano in forma di garanzia della personalità
morale e della dignità del lavoratore (ex art. 41, comma 2°, Cost.), dignità e
libertà asserite incomprimibili dalle esigenze della libertà di inziativa
privata d’impresa, e che si attualizzano in forma di autorealizzazione nel
lavoro e nella comunità di lavoro o in altre aggregazioni ove si sviluppa la
personalità del cittadino-lavoratore (artt. 1, 2, 3, 4, 35 Cost.), in forma di
rispetto della personalità, il che implica l’ assoluto divieto di inflizione di
mortificazioni e vessazioni tanto sistematiche e volontarie (sorrette spesso,
anche se non necessariamente, dall’animus nocendi) quanto
ingiustificate, unitamente (al) ed in conseguenza del diritto al rispetto in
quanto persona.
Questi
pregiudizi non potevano rientrare (se non forzatamente e irragionevolmente)
sotto l’ombrello dal “danno biologico” – nonostante ci si sia sforzati in
dottrina ed in giurisprudenza a coprire con esso oltre alla lesione della
salute, l’aspetto estetico, quello dell’efficienza sessuale, quello edonistico
o della normale vita di relazione – giacché il “danno biologico” è stato, dalla
più condivisibile dottrina, collegato di necessità e correttamente alla
salvaguardia della salute, ex art. 32 Cost., e quindi copre (unitamente al
danno psichico invalidante che ne è una sfaccettatura) le sole lesioni
all’integrità psico-fisica, suscettibili di essere acclarate dalla scienza
medica, con i suoi strumenti diagnostici.
E’
stato giustamente osservato che il
“danno esistenziale” copre, invece, quelle situazioni esemplificativamente
riconducibili al diritto a che la
propria quotidianità non peggiori per effetto di calunnie, al diritto a non
essere insidiati nei propri segreti, al diritto del bimbo a non
essere dimenticato da chi dovrebbe mantenerlo, del recluso a non essere colpito
nei suoi diritti di recluso, a non essere molestati sessualmente, e -
nel campo del lavoro - a non essere licenziati ingiustamente, a non essere
demansionati e professionalmente degradati,
a non essere costretti a lavorare in condizioni e senza presidi di sicurezza, a non essere
mortificati e vessati ingiustificatamente come avviene nelle varie ipotesi di mobbing.
Secondo quella che fino ad oggi può ritenersi la più compiuta
formulazione, il danno esistenziale è una figura destinata ad un duplice
compito: sostitutivo e riempitivo.
Il danno esistenziale dovrebbe, infatti, prendere il posto di tutte
le categorie di danno non patrimoniale risarcibile ex art 2043 c.c. e, prima
fra tutte, quella di danno biologico [(ma, a quest’ultimo proposito, i tempi,
almeno per la Corte costituzionale, non appaiono ancora maturi per l’operazione
di assorbimento, cui anche noi ci siamo dichiarati non inclini, perché comunque
porterebbe a sole mutazioni terminologiche sostitutive: il “danno esistenziale
biologico” ed il “danno esistenziale non biologico” o puro, così ipotizzati da
Cendon-Ziviz (9 )].
Comunque seguendo questa posizione dottrinale, il danno
esistenziale, quale categoria unica ed unificante dei danni non patrimoniali
diversi da quelli morali, fagociterebbe così (semplificando i giudizi e
conferendo maggiore chiarezza all'ordinamento) il danno biologico, quello alla
vita di relazione, quello alla serenità familiare, alla vita sessuale, ecc., ma
deve subito avvertirsi che, secondo altra e diversa prospettazione, il danno
esistenziale andrebbe ad affiancarsi a quello biologico di matrice medico
legale (ed è questa la posizione allo stato da noi condivisa).
La nozione di danno esistenziale andrebbe, poi, ad assolvere la
funzione di riempire uno spazio vuoto, ovvero un'intera area di danni privi, di
fatto, di tutela risarcitoria.
Si osserva, in particolare, che il nostro sistema risarcitorio -
prima dell’attuale riassetto bipolare - era fondato sulla tricotomia danno
biologico/danno morale/danno patrimoniale.
Il danno biologico (recte, la lesione della salute
conseguente ad un danno biologico) costituisce un peggioramento della qualità
della vita del danneggiato, peggioramento causalmente dovuto ad una lesione in
corpore (intendendo per tale, beninteso, anche la compromissione
dell'integrità psichica ).
Il danno morale costituisce una mera sofferenza morale, una
prostrazione dell'animo, un abbattimento dello spirito.
Il danno patrimoniale, infine, costituisce una deminutio
patrimonii.
Questi tre tipi di danno, tuttavia, non coprono l'intera gamma dei
pregiudizi che il danneggiato può risentire in conseguenza dell'altrui
illecito; se infatti questo non integrava - secondo la superata lettura
dell’art. 2059 c.c. ora depenalizzato” -
gli estremi di alcun reato,
ovvero non ha causato una riduzione delle entrate o del patrimonio, o
ancora non ha causato una compromissione dell'integrità psicofisica, parrebbe
non sussistere alcuna ipotesi di danno.
In realtà così non era e
non è - come ha rilevato da tempo anche la Cassazione - in quanto sono assai
frequenti le ipotesi in cui l'atto illecito del terzo, pur non incidendo né
sulla salute, né sul patrimonio della vittima, gli preclude lo svolgimento di
attività non remunerative, sino ad allora abituali, le quali costituivano fonte
di gratificazione soggettiva per il danneggiato.
In questa perdita risiede il danno
esistenziale, che può essere perciò definito come la forzosa rinuncia allo
svolgimento di attività non remunerative, fonte di compiacimento o benessere
per il danneggiato, perdita non causata da una compromissione dell'integrità
psicofisica.
Il “danno esistenziale” si differenzierebbe, quindi, dai tre
consueti tipi di danno: da quello biologico, in quanto esiste a prescindere da
una lesione della psiche o del corpo; da quello morale, in quanto esso non
consiste in una sofferenza (la quale ovviamente può essere indotta dal danno,
ma non si identifica con esso), ma nella rinuncia ad un'attività concreta; dal
danno patrimoniale, in quanto non consiste in una diminuzione reddituale.
Così, ad esempio, la veglia
forzata indotta dagli strepiti di un vicino rumoroso, sarebbe irrisarcibile se
non si facesse ricorso alla nozione di “danno esistenziale”, a meno che tali
rumori non integrassero - nel vecchio schema dell’art. 2059 stampellato dal
supporto penalistico ex art. 185 c.p. - gli estremi della contravvenzione di
disturbo alle occupazioni od al riposo delle persone.
Questi
diritti costituzionalmente protetti ed ingiustamente lesi debbono essere
riconosciuti ed indennizzati, a prescindere dalle difficoltà in cui potrà
imbattersi il magistrato nel loro riscontro, e per i quali il danneggiato dovrà fornire indizi semplici ma concludenti in ordine alla
durata, entità ed intensità del
pregiudizio subito, al fine di far azionare al magistrato il ricorso (non
disinvolto ma ponderato) alle presunzioni - che gli artt. 2727-2729 c.c.
legittimano quale mezzo prudente di prova atto a far dedurre da un fatto noto,
tramite indizi precisi, gravi e concordanti, un fatto ignoto altrimenti
destinato a restar tale in presenza di situazione implicante la c.d. “probatio
diabolica”, presunzioni cui spesso si é ricorsi usualmente nel campo lavoristico
ed addirittura in quello più delicato del riconoscimento di paternità -
integrabili o surrogabili, a fini della formazione del convincimento del magistrato, con l’uso del comune buon senso o del fatto notorio per nozione
di comune esperienza ex art. 115 c.p.c., il quale potrà avvalersi altresì
dell’ausilio di periti e psicologi, ecc., com’è gia avvenuto da parte del
giudice del lavoro di Forlì, in una causa per mobbing decisa con dovizia di
argomentazioni ma con risarcimento, invero, pecuniariamente modesto del
riscontrato danno esistenziale (10).
3.1. (segue) Danno esistenziale e prova per presunzioni ex artt.
2727-2729 c.c.
Non è superfluo ribadire più
incisivamente che le presunzioni costituiscono uno dei mezzi di prova affidati
alla “prudenza” del giudice, legittimate dal codice nel processo del lavoro e
nel processo civile – tant’è che sono state utilizzate addirittura nel
delicatissimo campo della paternità naturale (cfr. Cass. 1° sez. civ. n.
5333/1998 e Cass. 2008/2001 che ha dato rilevanza ai suddetti
fini ad elementi concludentemente indiziari) -
in specie su eventi o danni a connotazione intrinsecamente
probabilistica (quali la perdita di “chance” promotiva e di
ricollocazione esterna per obsolescenza da demansionamento o forzata
inattività). Come asserisce Cass. 16 maggio 2000, n. 6366 – in tema di licenziamento discriminatorio
desunto per concordanti presunzioni (sfocianti nel brocardo “ id quod
plerumque accidit”) – nel processo del lavoro vi sono prove ardue o
diaboliche da superare dal lavoratore e
«proprio per temperare tali effetti, da tempo la giurisprudenza
ammette che in simili fattispecie l'indagine istruttoria del giudice utilizzi
pienamente i poteri conferitigli dall'art. 421 codice di procedura civile,
facendo ampio ricorso alla prova per presunzioni di cui agli articoli 2727-2729
codice civile. In base all’art. 421 cod. proc. civ., nel processo del lavoro il
giudice può disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo
di prova, anche fuori dai limiti stabiliti dal codice civile. Le presunzioni
sono la conseguenza che il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un
fatto ignoto». Secondo il corretto insegnamento della Cassazione
esplicitato in maniera illuminante in Cass. n. 5333/1998: «nella prova per
presunzioni, ai sensi dell’art. 2727 e 2729 c.c., non occorre che tra il fatto
noto e quello ignoto (quale ad es.
la perdita di “chance” promotiva e di riallocazione esterna per
obsolescenza, n.d.r.) sussista un legame di assoluta ed esclusiva
necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare possa essere
desunto dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile,
secondo un criterio di normalità, ossia che il rapporto di dipendenza logica
tra il fatto noto e quello ignoto venga accertata alla stregua dei canoni di
probabilità» - come potrebbe essere la chanche della mancata
promozione per il demansionato, giacchè il datore di lavoro che lo mobbizza
deliberatamente gli infligge anche la vessazione della mancata promozione (e la
prova al magistrato della discriminazione indebita potrà esser data
evidenziando concludentemente che i colleghi di pari anzianità e con similari o
identiche mansioni l’hanno invece ricevuta) - con la precisazione (operata dalla stessa decisione) che «l’apprezzamento
del giudice di merito circa l’inesistenza degli elementi assunti a fonte della
presunzione e la loro rispondenza ai
requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge, non è
sindacabile in sede di legittimità, salvo che risulti viziato da illogicità o
da errori nei criteri giuridici».
Per
la tutela di situazioni di danno “in zona grigia” è stata elaborata già da
tempo – ed ora recepita dalla stessa Consulta nella decisione n. 233/03 - la categoria del “danno esistenziale”. Come
si era fatto notare nel passato prossimo,
in dottrina «più volte gli stessi giudici si sono trovati di fronte a
situazioni sicuramente ingiuste, per lo meno rispetto alla sensibilità sociale
che il magistrato impersona e concretizza nel momento interpretativo/applicativo
della norma, tuttavia senza la possibilità di condannare il responsabile al
risarcimento del danno, a causa della mancanza di una condotta di tipo penale
in grado di ammettere l’esistenza del danno morale» (11).
Si era anche
condivisibilmente osservato che per
essere coerenti con le indicazioni della Corte costituzionale che ha legittimato nel 1986 il “danno biologico” in
relazione a lesioni della salute, se altri diritti sono assistiti da pari
garanzie costituzionali, ed è questo il caso dei diritti inviolabili della
personalità, non può non essere fatto valere nei confronti delle lesioni di
essi lo stesso ragionamento fatto per le lesioni del diritto alla salute: vale
a dire, anche in questi casi (in precedenza esemplificati e ricondotti nella
categoria del “danno esistenziale”) il danno non patrimoniale deve essere
risarcito ex art. 2043 c.c. come species
di danno ingiusto (12). Se quest’ultima era la soluzione che in passato
sembrava più praticabile e più coerente con l’evoluzione del sistema nel suo
complesso, alla luce del processo di tendenziale traslazione della materia
risarcitoria verso l’art. 2043 c.c., con la conseguente erosione dell’art. 2059
c.c., si poneva il problema di verificare se il sistema già offrisse al suo
interno uno strumento idoneo a garantire una piena protezione alla personalità
del soggetto, ovvero se non fosse opportuno individuare una nuova ed autonoma
figura risarcitoria ad hoc - il “danno esistenziale” appunto
- valutata anche la sua compatibilità con le altre categorie di danno.
La risposta a tale
interrogativo risultava condizionata e connessa alla definizione della concreta
portata applicativa della figura del danno biologico.
In passato il dibattito sul
punto era da considerarsi aperto. Da una parte si collocavano coloro i quali
ritenevano che le esigenze sottese all’introduzione di un’autonoma voce di
“danno esistenziale” possono già essere soddisfatte nel contesto attuale,
attraverso una crescita o dilatazione, invero artificiosa, dell’area coperta
dal danno alla salute (13). Secondo tale formulazione «allargata», il danno
biologico, inteso come danno alla persona «riferito all’integrità dei suoi
riflessi pregiudizievoli rispetto a tutte le attività, le situazioni e i
rapporti in cui la persona esplica se stessa nella propria vita, [...] anche
con riferimento alla sfera spirituale, culturale, affettiva, sociale, sportiva
e ad ogni altro ambito e modo in cui il soggetto svolge la sua personalità»
(14), sarebbe stato in grado da solo «di raccogliere alla fine del ventesimo
secolo la sfida delle nuove frontiere del danno risarcibile» (15).
Dall’altra parte, tra i
sostenitori della nuova figura del danno esistenziale, si collocavanono coloro
i quali ancoravano invece il danno biologico ad una rigida matrice
medico-legale, restringendone la portata ai soli pregiudizi di carattere
fisio-psichico accertabili attraverso una consulenza medico-legale.
Quest’ultimi, opponendosi al processo di estensione della categoria del danno
alla salute, avvertivano l’esigenza di individuare uno specifico strumento di tutela
con riferimento a tutti gli aspetti ed i momenti della personalità del soggetto
che, pur non risolvendosi in lesioni all’integrità psico-fisica, accertabili
secondo i canoni della scienza medico-legale, tuttavia si ripercuotevano
sull’individuo comprimendo un diritto costituzionalmente garantito afferente la
sua sfera esistenziale.
Nel duello
dogmatico-dialettico hanno vinto quest’ultimi, con la variante che la norma
giuridica di ancoraggio del “danno non patrimoniale” risarcibile - quindi del
danno morale, dello stesso danno esistenziale e del danno biologico, in via di
ripensamento - viene ora rinvenuta
nell’art. 2059 c.c. (che è questione di poca rilevanza dal lato pratico),
opportunamente svincolato, in via di interpretazione costituzionalmente orientata,
dal collegamento a fatti di rilevanza penale ex art. 185 c.p , con l’intenzione
deliberata di enfatizzare la sistemazione del “danno non patrimoniale” in un
alveo ora depenalizzato. Con la precisazione peraltro che: « il danno non
patrimoniale… si colloca quindi nell'area dell'articolo 2059 in raccordo con le
suindicate norme della Costituzione. Il suo risarcimento postula tuttavia la
verifica della sussistenza degli elementi nel quali si articola l'illecito
civile extracontrattuale definito dall'articolo 2043. L'articolo 2059 non
delinea una distinta figura di illecito produttiva di danno non patrimoniale,
ma, nel presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della
struttura dell'illecito civile, consente, nei casi determinati dalla legge,
anche la riparazione di danni non patrimoniali (eventualmente in aggiunta a
quelli patrimoniali nel caso di congiunta lesione di interessi di natura
economica e non economica)» (16), il che porta a far rivestire all’art. 2059
c.c. la posizione di una “pertinenza”, cioè un ruolo accessoriale, dell’art. 2043, costretti entrambi quindi
sempre a viaggiare uniti e non disgiuntamente e ad essere congiuntamente
evocati nei ricorsi giudiziali.
Il danno esistenziale é
stato ora riconosciuto, apertis verbis, dalla Corte costituzionale e
dalla Cassazione e verrebbe così a costituire un’autonoma categoria di danno,
conseguente alla lesione di un diritto della personalità di rango
costituzionale, in grado di contenere anche tutte quelle figure risarcitorie che,
seppure sorte nell’ambito del danno biologico, tuttavia non concernono
direttamente il diritto alla salute, quanto piuttosto il profilo
relazionale-sociale. Il danno esistenziale, così come è stato prospettato e
recepito autorevolmente, verrebbe – pertanto -
a tutelare interessi diversi ed ulteriori rispetto a quelli del “danno
biologico” (perché non circoscritti al solo diritto alla salute), dal momento
che assicurerebbe una salvaguardia risarcitoria a fronte di ogni modificazione
peggiorativa patita dal danneggiato nell’esplicazione della propria
personalità, intesa come valore fondamentale dell’individuo, cui l’ordinamento
deve tendere e perciò solo tutelare adeguatamente.
L’esigenza di riconoscimento
del “danno esistenziale” d’altra parte si imponeva in ragione della
considerazione che un eventuale disconoscimento avrebbe finito per realizzare
una disparità di trattamento «del tutto ingiustificata ove si consideri la
perfetta assimilabilità – dal punto di vista ontologico – tra danno biologico e
danno esistenziale, derivante dalla lesione di altre situazioni
costituzionalmente garantite» (17).
E’ stato ancora
condivisibilmente ricordato da attento ed acuto autore di cui di seguito
riportiamo passi del suo pensiero (18) che alla contrapposta critica, secondo
cui il riconoscimento della nuova figura di danno avrebbe alimentato quel
processo di incontrollata estensione del raggio applicativo dell’art. 2043
c.c., si replicò ed è possibile, ancor
di più oggi, fondatamente replicare
sottolineando come il criterio selettivo da adottare per valutare la portata
dell’interesse leso dal fatto illecito altrui non può che essere quello dei
valori affermati nella Carta fondamentale, «al fine di evitare [...] che
germoglino richieste di tutela risarcitoria in relazione a posizioni soggettive
che l’ordinamento giuridico non eleva a diritti inviolabili dell’uomo
costituzionalmente tutelati» (19). Dunque, la tutela risarcitoria non è
invocabile nel caso di generici pregiudizi esistenziali, conseguenti alla
lesione di un qualsivoglia interesse, bensì soltanto nel caso di lesione di
beni-interessi che godano di una copertura, diretta o indiretta, di rango
costituzionale. In tali casi soltanto, riconosciuto il valore assoluto dei
diritti inviolabili come beni e valori personali, in quanto tali garantiti
dalla Costituzione come diritti fondamentali dell’individuo, al pari della
salute, il pregiudizio alla sfera esistenziale cagionerà un danno riparabile in
quanto suscettibile di valutazione patrimoniale, attraverso il ricorso al
potere equitativo del giudice.
Questa nuova figura di
danno, attraverso la quale si riconosce un autonomo spazio di salvaguardia
anche sul terreno risarcitorio ai valori della persona (diversi dal diritto
alla salute ex art. 32 Cost.) si viene così ad inserire – nel nuovo
assetto delineato dall’orientamento della Corte costituzionale e della
Cassazione - nell’ambito del danno non
patrimoniale, quale sottospecie ad ampio raggio contenutistico.
Riteniamo poi - come anche
in passato fu condivisibilmente osservato e segnalato (20) - che dalla avvenuta
legittimazione di tale nuova figura di danno (esistenziale) non discenda
consequenzialmente un’indebita
duplicazione delle poste attive nella sfera giuridica del soggetto leso, perché
anche laddove per effetto della lesione ingiusta concorrano le diverse voci di
danno, il giudice dovrà pur sempre procedere ad una valutazione complessiva del
pregiudizio subito, con un procedimento logico-giuridico motivato e sindacabile
(come ha affermato la giurisprudenza della S. corte). In questi casi,
trattandosi comunque di risarcimento equitativo, il giudice sarà obbligato ad
operare «un’allocazione globale delle somme che sia equa» (21),
contemperando a tal fine le diverse somme dovute per le singole voci di danno,
che se invece venissero considerate autonomamente porterebbero portare alla
quantificazione di una somma complessiva non equa rispetto al caso in
questione, se costituite dalla mera sommatoria aritmetica di titoli non sempre
autonomi di per se ma correlati concausalmente nella determinazione
dell’effetto pregiudizievole per la persona. Inoltre se ed in quanto ne
ricorrano i presupposti di legge, può essere riconosciuto addizionalmente
al danno esistenziale il risarcimento del danno biologico per lesione – sanitariamente accertata con ricorso o
meno a CTU ed individuazione del grado di invalidità permanente (desumibile
dalla tabella allegata al D. M. Sanità
del 5 febbraio 1992 emessa per la valutazione dell’invalidità civile, ovvero,
in caso di malattia professionale o infortunio, dalla “tabella per le
menomazioni” emessa dal Ministero del lavoro con D.M. 12 luglio 2000 in
applicazione del D. Lgs. n. 38 del 2000
di riforma dell’Inail) – nonché il morale ex art. 2059 c.c. (22).
In passato per coprire la molteplicità
dei danni, in specie quelli correlati alla sfera psichica, di carattere
transitorio e suscettibili di remisione (ansia, disturbi post-traumatici da
stress, depressione, e simili) è stata “superutilizzata” la figura o
fattispecie del “danno biologico”, anche quando le alterazioni non erano tali
da determinare una patologia cronica ed invalidante (secondo le varie misure
percentuali tabellate). Questo “necessitato” abuso d’utilizzo - in mancanza di
una pacifica accettazione del “danno esistenziale” - mette ora in chiara
evidenza una carente valorizzazione dell’ultima parte dell’art. 2087 c.c.(23),
con evidente pregiudizio per le ragioni del prestatore di lavoro, in
particolare, nelle ipotesi in cui il danno collegato alla lesione dei diritti
della personalità finiva per costituire l’unica voce di danno possibile. In
casi di questo genere la giurisprudenza si è a lungo sforzata di rintracciare
comunque nella lesione della professionalità, della dignità e della personalità
del lavoratore una sindrome psichica, vale a dire una vera e propria lesione
della salute, piuttosto che ammettere la risarcibilità del danno collegato alla
compromissione della sfera esistenziale-personale del prestatore di lavoro
(24).
Non v’è dubbio alcuno che l’introduzione della figura del danno
biologico nel sistema abbia
rappresentato «un cambiamento di approccio nei confronti della protezione
della persona complessivamente intesa» (25), favorendo la «rifondazione
di un sistema di ‘diritto civile costituzionale’, imperniato sulla ‘funzionalizzazione’
delle situazioni soggettive patrimoniali alle situazioni esistenziali, cui si
riconosce, per l’appunto in ossequio ai canoni costituzionali, una
indiscutibile preminenza» (26). Tuttavia, fatto il primo passo verso un
riconoscimento della tutela risarcitoria dei diritti della persona, il cammino
non poteva arrestarsi al solo diritto alla salute, ma doveva necessariamente
estendersi anche alle altre prerogative della persona costituzionalmente
riconosciute e garantite.Se con fatica si è giunti ad elaborare la figura del
danno biologico, al fine di tutelare con uno strumento tecnico ad hoc il
diritto alla salute, si auspicò – prima dell’attuale recepimento – che una
simile opera ricostruttiva ed integrativa venisse operata anche al fine di individuare
una figura di sintesi relativa ai danni conseguenti alla lesione dei diritti
fondamentali della persona. In particolare, si ebbe l’accortezza di notare,
come nell’ambito dei rapporti di lavoro, non si poteva procedere solo con lo
strumento del danno biologico; il suo ambito applicativo non poteva essere esteso (irragioneviolmente) a
dismisura, tramite un progressivo allargamento delle ipotesi di danno psichico.
Doveva necessariamente potersi riconoscere una tutela risarcitoria anche quando
la lesione di una prerogativa costituzionale, pur cagionando un danno
effettivo, non aveva comportato una patologia clinicamente accertabile. Il che
ora costituisce acquisizione scontata e pacifica.
Si disse condivisibilmente - a tal fine ed in tale ottica - che:
«La figura di sintesi in grado di garantire quanto sin qui auspicato è
rappresentata dal danno esistenziale. E’ questa la categoria che meglio
sintetizza l’esigenza di tutelare in via diretta la persona, nel suo essere e
nei suoi valori, piuttosto che, in via indiretta, attraverso la protezione
della sua sfera patrimoniale (27). In ambito lavoristico una simile
figura di sintesi sarebbe in grado di assicurare un adeguato ristoro in tutti
quei casi di ingiustificata e dannosa compromissione della personalità morale
del lavoratore, anche se non tali da originare traumi o sindromi psichiche di
natura patologica. Si intende fare riferimento, in particolare, alle ipotesi di
danno da illegittimo licenziamento del lavoratore, o da licenziamento
ingiurioso, ovvero ancora alle ipotesi di dimissioni determinate da molestie
sessuali, o alle diverse ipotesi di dequalificazione professionale, con
conseguente lesione della professionalità (28) e menomazione della
capacità di concorrenza lavorativa ed avanzamento di carriera (29), o
infine a nuove particolari ipotesi di danno da "mobbing" (30).
Dunque, secondo questa ricostruzione, due sarebbero le voci di danno attraverso
le quali si realizza la tutela piena ed effettiva della persona: il danno
biologico, di portata più ristretta e connesso alla specifica tutela del
diritto alla salute, e il danno esistenziale, di portata più ampia e connesso
alla tutela dei diritti fondamentali dell’individuo costituzionalmente
garantiti» (31).
4. Il percorso del danno esistenziale e la sua rilevanza nel campo
delle lesioni dei diritti della personalità del lavoratore
Per cronistoria giuridica va detto che il più incisivo
riconoscimento del “danno esistenziale”- prima di Cass civ. nn. 8827 e 8828 del
2003 - è avvenuto ad opera della Cassazione nella nota sentenza n. 7713 del 7
giugno 2000 .
Il fatto che dette causa alla pronuncia in questione, come è noto,
prende le mosse dal ricorso di un uomo che, condannato a corrispondere al
figlio naturale un assegno di mantenimento e resosi inadempiente a tale
obbligo, era stato prosciolto in sede penale dall'imputazione di violazione
degli obblighi di assistenza familiare. L'uomo escludeva la situazione di
bisogno del figlio poiché al suo mantenimento aveva, intanto, provveduto la
madre naturale. La Corte di Appello di Venezia, accogliendo la domanda del
ragazzo, aveva condannato il padre al risarcimento dei danni subiti dal figlio
«sia sotto il profilo affettivo che economico», a causa del comportamento
«intenzionalmente e pervicacemente defatigatorio del padre naturale».
La conclusione della Corte di Cassazione è stata, anch’essa, nel
senso che il comportamento omissivo e negligente del padre naturale,
concretizzasse una «lesione in sé» dei diritti del minorenne, cioè «inerenti
alla qualità di figlio e di minore». La Corte individuò un pregiudizio
indipendente dal profilo economico, sussistendo esso ancorché al sostentamento
del minore avesse, intanto, provveduto l’altro genitore e non fosse, perciò,
riscontrabile alcuna carenza patrimoniale.
Ad essere lesi erano stati, secondo questa pronuncia, i diritti
impliciti nella condizione giuridica «di figlio e di minore», il cui rispetto
da parte dei genitori è presupposto fondamentale per la sana ed equilibrata
crescita dello stesso, oltre che condizione per un suo inserimento non
problematico nel contesto sociale. La «lesione in sé» provocata dalla
negligenza e dal disinteresse del genitore, integrerebbe, perciò, gli estremi
di un vero e proprio danno esistenziale.
Il riconoscimento del danno esistenziale si inserisce evidentemente
nell’ambito di quella più generale tendenza, manifestatasi con maggior vigore
negli ultimi anni, intrapresa dalla giustizia di merito e di legittimità, nel
senso di una maggiore attenzione verso i temi della famiglia (legami parentali,
potestà dei genitori, vincoli di solidarietà familiare) e delle relazioni
sociali della persona.
E’, infatti, venuto più volte in considerazione il tema della
solidarietà familiare, attraverso autorevoli richiami all’esercizio-adempimento
di quel fondamentale potere-dovere che è la potestà dei genitori; così come si
è dato risalto alla solidarietà sociale nella forma della responsabilità
civile: e ciò alla luce dei sempre più numerosi pericoli scaturenti dalle nuove
attività, nonché delle latenti insidie presenti nei nuovi modelli di
comportamento umano, capaci, spesso, di costituire altrettante minacce al
libero e placido esplicarsi della vita.
La nozione di danno esistenziale ricomprende qualsiasi
evento che, per la sua negativa incidenza sul complesso dei rapporti facenti
capo alla persona, è suscettibile di ripercuotersi in maniera consistente e
talvolta permanente sull'esistenza di questa. Diventa allora decisiva una
considerazione non restrittiva degli eventi potenzialmente lesivi, non ancorata,
cioè, a valutazioni tecniche basate su parametri e tabellazioni, bensì capace
di segnalare quelle interferenze comunque negative e pregiudizievoli in senso
ampio.
In tal modo, se la bipartizione danno patrimoniale-danno morale
poteva apparire, come detto, angusta, talvolta anche l’inclusione del danno
biologico poteva non risultare – come già espresso in precedenza - esaustiva: un fatto-evento causato da terzi
può rivelarsi dannoso quand’anche, non traducendosi nella concreta e materiale
lesione dell’integrità fisio-psichica, sia tuttavia idoneo ad incidere sulle
possibilità realizzative della persona umana. Ad essere, dunque, leso dalla
condotta in questione è il diritto allo svolgimento della personalità umana,
considerato globalmente ex art. 2 Cost, o, se vogliamo, qualsiasi diritto
comunque assistito da garanzia costituzionale.
La mera frustrazione
prodotta dal fatto, con il suo carico di speranze ed aspettative vanificate, di
affetti e relazioni umane messi in discussione, può riverberarsi – anche nel
lungo periodo – sulla quotidiana esistenza dell’individuo, a prescindere da un
danno fisico medicalmente accertabile, integrando quella «lesione in sé» a cui
allude la S. corte. Tale pregiudizio, in quanto efficace e «ingiusto» oltre che
causalmente riconducibile al fatto, legittima la richiesta di risarcimento.
Siffatta configurazione ben si inserisce anche sull’orientamento
già consolidato della Corte Costituzionale, in ordine alla necessità del «risarcimento
non solo dei danni in senso stretto patrimoniali, ma di tutti i danni che
almeno potenzialmente ostacolano le attività realizzatrici della persona umana».
4.1. (segue) Danno esistenziale da pregiudizio alla
professionalità e prova per presunzioni
Seguendo tale impostazione è, altresì, possibile tentare
l’inquadramento dogmatico della figura del danno esistenziale. Mentre in
passato veniva pacificamente
ricollegato all’art. 2043 c.c., il quale concerne il danno «ingiusto»
(cioè lesivo di situazioni soggettive giuridicamente protette, atteso che la
tutela costituzionale non distingue tra categorie di diritti tutelabili), ora
la Corte costituzionale lo ricollega – quale sottospecie del danno non
patrimoniale – all’art. 2059 evolutivamente interpretato come sganciato
dall’ipotesi penalistica del reato.
Si tratta, ad ogni buon conto di un danno autonomo ontologicamente
dal danno biologico (danno alla salute
medicalmente accertabile), dal danno morale soggettivo (sofferenze transeunti)
e, naturalmente, dal danno patrimoniale, con essi cumulabile, ai fini della
determinazione del quantum complessivamente risarcibile, auspicabilmente
scisso nelle sue componenti (cfr. Cass. n. 8827/2003) o onnicomprensivamente
liquidato (tuttavia in maniera tale da rendere possibile il riscontro e
l’individuazione, dietro motivazione, delle componenti medesime).
Il danno esistenziale sussiste a prescindere da lesioni concrete (a
differenza del danno biologico), sussiste, altresì, al di là di una incidenza
del fatto-evento su una prospettiva reddituale (a differenza del danno
patrimoniale) ed, infine, sussiste anche in assenza di comportamenti penalmente
rilevanti e secondo dottrina potrebbe essere ricondotto in una configurazione
da genus a species, rispetto alle altre figure menzionate (danno
biologico, danno morale) e si specificherebbe in quei danni alla personalità
ricollegabili a lesioni dei diritti inviolabili della persona,
costituzionalmente garantiti, che nel campo del lavoro, sono il danno
professionale, il danno psicologico transeunte, il danno alla serenità della
vita familiare e nella comunità lavorativa, alla salutare fruizione dei
piaceri e delle gratificazioni della
vita di relazione e dei rapporti sociali.
A differenza del danno biologico – il quale identificandosi nella
concreta lesione suscettibile di accertamento medico-legale, deve essere
provato unicamente con riferimento all’entità, ai fini risarcitori – il danno
esistenziale (nelle sfaccettature o componenti sopraspecificate), pur
qualificato «lesione in sé», deve essere solo specificamente provato nei suoi
stessi presupposti e può sussistere,
come si è cercato di chiarire, anche in mancanza di una lesione, e presentarsi,
anzi, come esclusiva ed unica conseguenza del fatto che si assume lesivo.
Talché, una volta provati, tramite
semplici indizi in ordine alla entità, intensità e durata del pregiudizio (per
fare un esempio nel caso di demansionamento, una volta provata la consistente
erosione di mansioni o la totale inattività, rifluenti rispettivamente nei
caratteri della entità ed intensità del pregiudizio anche in relazione alla
tipologia delle mansioni esplicate, nonché la durata del demansionamento) il pregiudizio sarà risarcibile in via equitativa ex art. 1226 e 2056 c.c.,
dal giudice in quanto dall’illecito e dall’ingiusto comportamento demansionante
conseguono – per valutazione di indizi concludenti e per dato di comune
esperienza o per fatto notorio ex art. 115 c.p. - i danni lamentati alla
professionalità e all’immagine interno/esterna all’impresa. Così dovendosi
operare anche nell’ipotesi (invero di netta minoranza in tema di danno da
demansionamento), in cui si volesse disconoscere che il danno non è “in re
ipsa” in quanto non danno-evento ma danno-conseguenza, quantunque sul danno
esistenziale da demansionamento la prevalentissima giurisprudenza più recente
della Cassazione sostenga
correttamente che il pregiudizio è risarcibile anche in mancanza di prova di
pregiudizio (invero pressochè o del tutto impossibile a darsi), essendo
intuitivo che le mansioni sottratte e non esercitate determinano oltre
alla lesione del diritto costituzionale
all’autorealizzazione nel lavoro e nella formazione sociale dell’impresa (artt.
1 e 2 Cost.), altresì un automatico degrado professionale specie per le
qualifiche più specializzate e professionali, essendo parimenti intuitivo e
dato di comune esperienza che il mancato espletamento di tali compiti occasiona
inevitabilmente obsolescenza delle capacità specialistiche e, se preposti al
coordinamento di risorse umane o di uffici,
perdita esponenziale con il passare del tempo per durata protratta del demansionamento, sia delle capacità
decisionali o propositive, sia delle
competenze e attitudini di coordinamento e addestrativo-formative dei
collaboratori che sono stati sottratti,
tramite ad esempio lo spostamento del demansionato da una posizione di “line”
ad una di “staff”.
Al riguardo, a conforto di quanto detto, si cita la massima di
Cass. sez. lav. 22 febbraio 2003, n. 2763, secondo cui: «Va
cassata la sentenza resa in sede d’appello in quanto – nel negare il
risarcimento del danno alla professionalità per asserita carenza di prova di
pregiudizio patrimoniale da parte del dirigente dequalificato, confinato in inattività - ha ignorato come
questa Corte ha ripetutamente avuto modo di sottolineare che dall'articolo 2103
del codice civile si desume che sussiste il diritto del lavoratore
all'effettivo svolgimento della propria prestazione professionale e che la
lesione di tale diritto da parte del datore di lavoro costituisce inadempimento
contrattuale e determina, oltre all'obbligo di corrispondere le retribuzioni
dovute, l'obbligo del risarcimento del danno da dequalificazione professionale,
che può assumere aspetti diversi in quanto può consistere non solo nel danno
patrimoniale derivante dall’impoverimento della capacità professionale
acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità
o nel pregiudizio subito per perdita di chance ossia di ulteriori possibilità
di guadagno, ma anche - e tali aspetti, nella specie, sono stati completamente
trascurati - in una lesione del diritto del lavoratore alla integrità fisica o,
più in generale, alla salute ovvero alla immagine o alla vita di relazione (per
tutte, Cass., 14 novembre 2001, n. 14199). Più in particolare ancora, occorre
ribadire che la negazione o l'impedimento allo svolgimento delle mansioni, al pari del
demansionamento professionale, ridondano in lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore anche nel luogo di
lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di
relazione dell'interessato, con una
indubbia dimensione patrimoniale che
rende il pregiudizio medesimo suscettibile di risarcimento e di valutazione
anche in via equitativa (Cass. 2 gennaio 2002, n. 10).»
Ed ancora, circa la non necessarietà della prova del danno alla
professionalità: «Ove la parte abbia chiesto, con domanda di condanna specifica,
la liquidazione del danno da dequalificazione, il giudice del merito che
abbia accertato, anche tramite la prova presuntiva, l'esistenza di un danno
patrimoniale da dequalificazione (nella specie per significativa riduzione
quantitativa delle mansioni), non può sottrarsi all'obbligo di una sua
determinazione, anche in via equitativa, per la quale può costituire utile
elemento di riferimento l'entità della retribuzione...» (Cass. n. 7967/2002); ed ancora:«la liquidazione equitativa ...deve essere compiuta anche quando sia
addirittura mancata la dimostrazione, in via diretta, dell'esistenza di un
effettivo pregiudizio patrimoniale (Cass. 16 novembre 2000 n. 14443), dato che
la prova presuntiva va ricavata dagli elementi di fatto relativi alla durata
del demansionamento e dalle altre circostanze del caso concreto (Cass. 2
novembre 2001 n. 13580)» (così Cass.
n. 15868/2002).
In buona sostanza, così suona il
prevalente orientamento della S. corte sul danno alla professionalità pura
conseguente a violazione dell’art. 2103 c.c. e dei precetti costituzionali
(artt. 1 e 2 Cost.), a differenza di quello arrecato alle connesse perdite di chances promotive interne o di miglioramento
professionale nel mercato esterno, ove prevale la tesi giurisprudenziale che
tali perdite vanno provate ex art. 2697 c.c. nella loro causalità dal
demansionamento, quando sarebbe anche qui sufficiente il ricorso alle
presunzioni ex artt 2727-2729 c.c., giacché è intuitivo che chi mobbizza
demansionando certamente nega la promozione all’inviso quando solitamente la conferisce invece ai
suoi colleghi di pari anzianità o svolgenti le stesse o similari mansioni,
costituendo questo comportamento,
statisticamente evidenziato come non occasionale o episodico, prova
incontestabile, tramite un indizio preciso, certo e concordante, di
discriminatorietà con finalità vessatorie cioè a dire di uso illegittimo del
potere discrezionale datoriale che in un rapporto obbligatorio soggiace
all’osservanza dei principi di “correttezza e buona fede” ex artt. 1175-1375
c.c.: « Il demansionamento professionale dà luogo ad una pluralità di pregiudizi,
solo in parte incidenti sulla
potenzialità economica del lavoratore.
Non solo viola lo specifico divieto di cui all'articolo 2103 c.c., ma
costituisce offesa alla dignità professionale del prestatore intesa come
esigenza umana di manifestare la
propria utilità nel contesto lavorativo (in cui si sostanzia il danno alla dignità del lavoratore, bene
immateriale per eccellenza) e quindi lesione del diritto fondamentale alla
libera esplicazione della personalità del
lavoratore nel luogo di lavoro, con la conseguenza che il pregiudizio conseguente incide sulla vita professionale
e di relazione dell'interessato, con
indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa (Cass.,
18 ottobre 1999, n. 11727). L'affermazione di
un valore superiore della professionalità, direttamente collegato ad un diritto
fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a carattere
immateriale, in qualche modo supera ed integra la precedente affermazione che la mortificazione
della professionalità del lavoratore potesse dar luogo a risarcimento solo ove
venisse fornita la prova dell'effettiva
sussistenza di un danno patrimoniale (cfr. le
sentenze 11 agosto 1998, n. 7905; 4
febbraio 1997, n. 1026 e 13 agosto 1991, n. 8835)».
Così si è espressa Cass. 6.11.2000 n. 14443 (relegando ad opinioni superate le precedenti precitate, isolate, sentenze) preceduta e seguita da una nutrita serie di decisioni conformi quali: Cass. 13299/92; Cass. 11727/99, Cass. 7.7.2001, n. 9228; Cass. 23.10.2001, n. 13033; Cass. 2.11.2001, n. 13580; Cass. 14.11.2001, n. 14199; Cass. 2.1.2002, n. 10; Cass. 1.6.2002, n. 7967; Cass. 12.11.2002,n. 15868; Cass. 22.2.2003, n. 2763. E anche se, irrealisticamente, la prova è stata richiesta, in una recente decisione (n. 8904 del 4.6.2003), si è avuto la sensibilità di precisare che l’onere probatorio per il ricorrente risultava assolto dal ricorso alle presunzioni qualora “fornisca, sia pure a livello di semplici indizi (indizi che possono trarsi anche semplicemente dal complesso delle circostanze del caso concreto, quali la natura, l’entità e la durata del demansionamento: cfr. Cass. 14443/2000; 13580/2002; 15868/2002, cit.), la prova dei danni subiti».
Ma
la più recente Cass. 27 agosto 2003 n. 12553 (inedita allo stato) - reiterando
Cass. n. 15868/2002, Cass. n. 13580/2001, Cass. n. 14443/2000 ed altre - ha
escluso nuovamente la "probatio diabolica" (anteponendole il dato di
comune esperienza, secondo cui dal demansionamento discende automatico degrado
od obsolescenza della specifica professionalità), asserendo: «Dalla
illegittima attribuzione ad un lavoratone di mansioni inferiori rispetto a
quelle assegnategli al momento dell'assunzione può derivare non solo la
violazione dell'art. 2103 cod. civ., ma anche la violazione del diritto
fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel
luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, da cui deriva il
diritto dell'interessato al risarcimento danno patrimoniale conseguente al
pregiudizio risentito nella vita professionale e di relazione, e la cui
quantificazione può avvenire in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 cod.
civ., anche in mancanza di uno specifico elemento di prova da parte del
danneggiato, in quanto la liquidazione può essere operata in base
all'apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi
alla natura, all'entità e alla durata del demansionamento, nonché alle altre
circostanze del caso concreto».
Riprendendo il tema di fondo dell’articolo, riteniamo che, in
conclusione, vada ribadita l’autonomia della categoria di danno e che, quale
categoria unitaria, vada considerata quella del danno da atto illecito tout
court, al cui interno ricomprendere tutte le tipologie di danno rispondenti
ai requisiti posti dalla norma (ingiustizia del danno, dolo o colpa, nesso
causale) qualunque sia poi, in concreto, il diritto costituzionalmente protetto
che abbia subito un pregiudizio.
Sempre in tema e sulla stessa lunghezza d’onda, altri sostenitori
del danno esistenziale – ora accreditato -
hanno sottolineato come: «La situazione creatasi, in particolare per la
giurisprudenza di merito di alcuni giudici che cercavano di tutelare situazioni
comunque riconosciute meritevoli di tutela dall’ordinamento, seppure non da
normative specifiche ma dalle regole generali dettate dalla Costituzione,
determinava una incertezza definitoria proprio perché con il termine di danno
biologico non si indicava più una realtà ben definita ed univoca. Parte della
dottrina aveva proposto di introdurre l’altro concetto di danno esistenziale
per coprire quel settore che innaturalmente era stato tutelato dal danno
biologico ed al quale non apparteneva. Veniva definito danno esistenziale
quello che andava a colpire la qualità della vita del soggetto danneggiato in maniera
da renderla differente in termini considerevoli ed evidenti. Probabilmente
l’ostacolo maggiore all’affermarsi del concetto di danno esistenziale prima
della definizione normativa del danno biologico è stato proprio l’elemento di
duttilità di questo secondo concetto, che rendeva sostanzialmente non
indispensabile la creazione di una nuova categoria, per altro dai contorni
quantomeno evanescenti.
Oggi si può affermare con sicurezza che l’intervenuta definizione
normativa del danno biologico (che secondo l’art. 13 D.lgs. n. 38/2000 di
riforma dell’Inail è «la lesione dell’integrità psicofisica, suscettibile di
valutazione medico legale, della persona») rende i termini della questione
sicuramente più chiari, senza possibilità di sovrapposizioni di concetti e con
l’esigenza di riconoscere il danno esistenziale se non si vuole lasciare priva
di copertura tutta quell’area di situazioni prima coperte con l’estensione del
concetto di danno biologico, oggi non più possibile per la riconducibilità del
medesimo all’esclusivo ambito delle lesioni all’integrità della salute sanitariamente acclarabili e, valutabili e
quantificabili in termini di grado di invalidità.
Riassumendo: nella materia di danni alla persona non patrimoniali…
ci troviamo oggi con il concetto di danno biologico che richiama esplicitamente
ed esclusivamente la lesione suscettibile di valutazione medico legale. Tutta
quella parte di situazioni soggettive comunque riconosciute dalla Costituzione
come meritevoli di tutela, a cominciare nel settore del lavoro dalla dignità
del lavoratore stesso, devono essere comunque tutelate e tale tutela non può
oggi essere offerta che dalla nuova categoria del danno esistenziale se non si
vuole correre il rischio che tali situazioni non vengano più riconosciute come
meritevoli di tutela. Pensiamo al principio sancito dall’art. 41, secondo
comma, della Costituzione per il quale l’iniziativa economica privata non può
svolgersi in contrasto con la sicurezza, la libertà e la dignità della persona
umana e colleghiamolo all’art. 2043 c.c. ed avremo un sistema adeguatamente
rispondente a quanto richiesto dall’art. 2059, almeno quanto il combinato
disposto dello stesso art. 2043 c.c. con l’art. 32 Costituzione per il danno
biologico.
Secondo questa ricostruzione due sono le voci di danno attraverso
le quali si realizza la tutela piena ed effettiva della persona: il danno
biologico, di portata più ristretta e connesso alla specifica tutela del
diritto alla salute, ed il danno esistenziale, di portata più ampia e connesso
alla tutela dei diritti fondamentali dell’individuo costituzionalmente
garantiti» (28).
Queste argomentazioni scandiscono i passi e strutturano i gradini
dell’irto percorso in salita che ha portato all’attuale, pacifico,
riconoscimento del danno esistenziale, rilevante nel campo delle lesioni della
personalità nell’ambito e nel settore del rapporto di lavoro ( a risarcimento
del danno conseguente ad una serie di atti illegittimi datoriali quali
licenziamento ingiustificato, il licenziamento ingiurioso, la dequalificazione,
il demansionamento ed il confinamento
in inattività, il mobbing nella sua varietà di vessazioni e persecuzioni
psicologiche, le molestie sessuali, le discriminazioni a vario titolo, ecc.).
5. Oneri probatori ed evitamento di duplicazioni risarcitorie
A proposito del “danno esistenziale” da perdita di rapporto
parentale per uccisione di cngiunto, la Cassazione ha negato che ci si trovi in presenza di un danno “in re ipsa”
(costituendo danno-conseguenza e non danno-evento) ed ha affermato - tuttavia
temperandolo subito con la legittimazione al ricorso a valutazioni prognostiche
ed alle presunzioni sulla base di obbiettivi elementi che sarà onere del
danneggiato fornire - che il pregiudizio deve essere provato ed allegato.
E’ poi entrata nel merito del “rischio” (fino ad oggi frenante la
legittimazione pacifica del “danno esistenziale”, cui si é mosso da più parti
l’addebito dell’essere un mero “espediente” dilatatorio o accrescitivo del quantum risarcibile) connesso o
conseguente al cumulo, a fini risarcitori, delle varie componenti del danno - rectius
delle varie specie di danno ontologicamente distinte ed autonome - ,
legittimandone il cumulo dietro una
equilibrata valutazione complessiva dell’intero ristoro per l’unitario
evento dannoso. Esprimendo, tuttavia - accando alla legittimazione (che
s’imponeva imprescindibilmente -, l’avviso, con finalità di contenimento, che:
«E’ conclusivamente il caso di chiarire che la lettura costituzionalmente
orientata dell’articolo 2059 Cc va tendenzialmente riguardata non gia’ come
occasione di incremento generalizzato della poste di danno (e -mai come
strumento di duplicazione di risarcimento degli stessi pregiudizi), ma
soprattutto come mezzo per colmare la lacuna, secondo l’interpretazione ora
superata della norma citata, nella tutela risarcitoria della persona, che va
ricondotta al sistema bipolare del danno patrimoniale e di quello non
patrimoniale: quest’ultimo comprensivo del danno biologico in senso stretto,
del danno morale soggettivo come tradizionalmente inteso e dei pregiudizi
diversi ad ulteriori, purche’ costituenti conseguenza della lesione di un
interesse costituzionalmente protetto. Deve anche dirsi che, tutte le volte che
si verifichi la lezione di un tale tipo di interesse, il pregiudizio consequenziale
integrante il danno morale soggettivo (patema d’animo) e’ risarcibile anche se
il fatto non sia configurabile come reato. E va ribadito che nella liquidazione
equitativa dei pregiudizi ulteriori, il giudice non potra’ non tenere conto di
quanto gia’ eventualmente riconosciuto per il risarcimento del danno morale
soggettivo, in relazione alla menzionata funzione unitaria del risarcimento del
danno alla persona. » (così Cass. n. 8827/2003).
Ed in Cass. n. 8828/2003
- sempre a proposito del “danno
esistenziale” da rottura del vincolo parentale per morte di congiunto - ha
asserito che la liquidazione non potrà che essere equitativa «vertendosi in tema di lesione di valori
inerenti alla persona, in quanto tali privi di contenuto economico, non potrà
che avvenire in base a valutazione equitativa (articoli 1226 e 2056 c.c.),
tenuto conto dell'intensità del vincolo familiare, della situazione di
convivenza, e di ogni ulteriore utile circostanza, quali la consistenza più o
meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l'età della vittima e
dei singoli superstiti. Ed è appena il caso di notare che il danno non
patrimoniale da perdita del rapporto parentale, in quanto ontologicamente
diverso dal danno morale soggettivo contingente, può essere riconosciuto a
favore dei congiunti unitamente a quest'ultimo, senza che possa ravvisarsi una
duplicazione di risarcimento. Ma va altresì precisato che, costituendo nel
contempo funzione e limite del risarcimento del danno alla persona,
unitariamente considerata, la riparazione del pregiudizio effettivamente
subito, il giudice di merito, nel caso di attribuzione congiunta del danno
morale soggettivo e del danno da perdita del rapporto parentale, dovrà
considerare, nel liquidare il primo, la più limitata funzione di ristoro della
sofferenza contingente che gli va riconosciuta, poiché, diversamente, sarebbe
concreto il rischio di duplicazione del risarcimento. In altri termini, dovrà
il giudice assicurare che sia raggiunto un giusto equilibrio tra le varie voci che
concorrono a determinare il complessivo risarcimento.»
La Cassazione ha così
affermato che per un unitario evento
pregiudizievole, è del tutto legittima la quantificazione del danno attraverso
un cumulo “bilanciato” delle varie tipologie “ontologicamente” autonome di
danno, in cui a soffrirne nel complesso appare essere destinato il “danno
morale” da sofferenza interiore, rispetto a quello esistenziale, a quello
biologico ed al patrimoniale.
Questo richiamo al giudice del merito ad un prudente equilibrio in
ordine al quantum (non conseguente ad una pura e semplice operazione di
sommatoria delle poste indennizzanti)
ha occasionato - anche da parte di
dottrina che l’ha condiviso - la considerazione o addebito, per motivi di par
condicio o simmetrici, di aver sofferto la “sindrome del pompiere”, cioè di
aver voluto svolgere un ruolo calmieratore, a detrimento della vittima, che
è stato così esplicitato: « Peccato però non dichiarare
apertamente – per converso – che, qualora il danno non patrimoniale arrecato
a una persona risulti in concreto serio, grave, profondo, esiziale,
duraturo, stravolgente, il risarcimento dovrà anch’esso essere adeguato, non
simbolico, non spilorcio, non derisorio, non ridicolo, non oltraggioso,
non platonico: qui la Cass. mostra forse di nutrire un po’ di timore per
la supposta capricciosità e prodigalità dei giudici italiani (?), soffre
un po’ della sindrome del pompiere, pare eccessivamente ansiosa di mettere
“paletti”; i quali giudici nostrani - bisogna dire -
nel corso del passato risarcivano semmai troppo poco in almeno il 30% dei casi
e forse più (detto altrimenti: perché solo il colpo da parte della
S.C./2003 alla botte, della temibile prodigalità/faciloneria
delle nostre corti; e non anche il colpo al cerchio, degli
eccessi passati di austerità, di tirchieria?)» (33) . Altre
valutazioni critiche o in forma di apprezzamento dello stesso autore, nella
stessa nota a commento, che meritano di
essere riferite così suonano: « Peccato, anzi, non cogliere l’occasione per invitare
più scopertamente i giudici italiani
a redigere sentenze – non già
prolisse, inclini agli obiter,
alle esibizioni culturali, ai compitini dimostrativi, quanto piuttosto - analitiche soprattutto sul terreno del
quantum, rigorose, documentate su ogni
riflesso, trasparenti, pragmatiche nella fotografia della vita di ogni giorno,
controllabili, particolareggiate,
fenomenologiche, punteggiate proprio
sul terreno dell’art. 1226 c.c. di considerazioni minuziose per il tempo, lo
spazio, i decibel, le fatture, gli scontrini, i cespiti, gli indizi, le
caselle, i numeri; orientate appunto a distribuire i vari
filamenti negativi, volta a
volta accusati dalle vittime,
lungo alcuni crinali leader, unificanti (ecco a cosa servono le voci!)»;
« Non bene insomma, da parte
della 8828, il non rimarcare
abbastanza il fatto che nel momento
stesso in cui si viene a confermare, sia pur lungo alvei diversi, il trend
di maggior attenzione per la persona
sotto i profili del quantum, con
riguardo al danno non patrimoniale,
occorrerebbe saper dire ai giudici e a tutti quanti noi: “Sia il tempo e lo spazio che ti
concederai - facendo il tuo lavoro -
sempre diviso in due parti, fra loro eguali, quella dell’an e quella del
quantum; scrivendo potrai se vuoi concedere più spazio al quantum, mai il contrario”».
Sul punto centrale del “quantum” risarcibile,
ci fa piacere notare come Cendon concordi con noi nel considerarlo il “punto
focale” del danno esistenziale. Ci sia permesso, al riguardo riproporre le
considerazioni espresse in una postilla a commento dell’ottima sentenza di Tempio Pausania del 10.72003 (cit. in nt.3) in tema di danni esistenziali da
mobbing, a proposito della quale così
ci esprimemmo:«L'attuale sentenza di Tempio Pausania del giudice Ponsatti è
ottima, condivisibilissima in diritto ed aggiornata sui nuovi orientamenti in
tema di responsabilità per fatto illecito (menzionando anche Corte cost.
n. 233/2003, Cass. sez. civ. n. 8828/2003 e Cass. sez. lav. n. 5539/2003). Tuttavia
va notato che - pur trattandosi di un bossing della durata non esigua di 18
mesi con conseguenze (non cronicizzate) sull'integrità dello stato di salute -
l'entità del risarcimento è alquanto esigua e non ci consola il fatto che sia
doppia rispetto ai 10 milioni di vecchie lire stabiliti nelle sentenze di fine
1999 del Tribunale di Torino ad opera del dr. Ciocchetti (ove peraltro i
periodi di mobbizzazione erano molto più contenuti e che successivamente ha
“rimediato - o rimeditato - con un indennizzo di 100 milioni in un caso di
mobbing di dirigente demansionato per 18 mesi da un istituto di credito torinese,
ponendogli a carico spese legali dell'ordine di 18 milioni) (34). Anche all'epoca
delle prime sentenze torinesi manifestammo la nostra insoddisfazione
per un danno che comunque sfociò nella perdita - senz'altro indotta da
esigenze di sottrazione alle persecuzioni e non da scelta volontaria - del
posto di lavoro, strumento imprescindibile di realizzazione individuale e fonte
di sostentamento personale e familiare. Lamentammo il fatto dell'essere
passati nel corso del tempo da indennizzi, con effetto realisticamente
deterrente, dei 500 milioni di vecchie lire per il caso del vicedirettore
generale Calzolari, mobbizzato dalla Banca Nazionale del lavoro (cfr. Pret.
Roma 17.4.1992, nel nostro volume "Danni da mobbing e loro
risarcibilità", Ediesse, Roma 2002, p. 349, in
http://www.pegacity.it/justice/impegno/meucci_gratuito.html ) e tramite il
ricorso al parametro della mensilità intera, alla decina di milioni degli altri
casi successivi e regredendo al parametro risarcitorio di una porzione percentuale
della mensilità ordinaria sempre più ridotta. Non si rendono conto i magistrati
che - aldilà delle affermazioni di principio in positivo - tramite simili
indennizzi non combattono il fenomeno del mobbing ma lo legittimano nella
sostanza, in quanto - svuotati i risarcimenti del carattere della deterrenza
alla reiterazione - indirizzano ai "concreti" datori di lavoro il
messaggio (tutt'altro che subliminale) che possono cavarsela con poche decine
di milioni per perseverare in comportamenti illeciti (che, se vanno
silenziosamente in porto, conducono alle dimissioni del soggetto inviso e, se
non vanno in porto, si pagano con somme pari a modeste sanzioni amministrative,
quando per mancato versamento di ritenute previdenziali rischiano la galera!);
comportamenti che ledono i primari diritti della personalità dei prestatori di
lavoro e che pregiudicano e segnano indelebilmente il mobbizzato (o
demansionato), nella carriera, nella salute, nella vita familiare e
relazionale. C'è nel nostro Paese una sottostima - a differenza che nel mondo
anglosassone - verso le lesioni dei diritti della personalità che va ripensata
seriamente da parte della magistratura che in essi si imbatte, anche se sembra
invece che sia sensibile all'opposto rischio del "troppo concedere"
tramite una duplicazione risarcitoria di un danno, seppure con componenti
ontologicamente diverse (quali il danno biologico, esistenziale e morale
soggettivo), in capo alla stessa persona, come si legge nella recentissima
Cass. n. 8828/2003».
Prosegue poi il Prof.
Cendon, notando, in relazione a Cass. n. 8828/2003: «Un po’ pilatesco
insomma - in una decisione per tanti versi meritoria, così ispirata, coraggiosa, risoluta, ambiziosa e riuscita - il non provvedere a offrire (sia pur senza voli di natura sociologica) “dritte” di maggior respiro
quanto alla nomenclatura delle varie
voci mediane d’insieme, entro il nuovo oceano del non
patrimoniale»;«Bene, anche rispetto al danno non patrimoniale, la generale puntualizzazione
“consequenzialistica”, temperata
subito dopo dal richiamo alle
presunzioni giudiziali quale efficace,
provvidenziale mezzo di prova (ma
le tentazioni del danno-evento non finiranno qui, verosimilmente, per taluni
fra i nostri tortmen: forse
perché si tratta di una locuzione così
intrigante, new-age; o
forse perché a qualcuno, per altri 3 o
4 anni, continuerà a sembrare quello un pedaggio necessario in vista di
una semplificazione dello statuto processuale per la vittima)».
Mario Meucci
Roma, 29 settembre
2003
NOTE
(1) Vedila in http://www.altalex.com/index.php?idnot=6313
e in http://www.altalex.it/index.php?idnot=6334, con nota di Cassano (La
responsabilità civile con due (belle?) gambe, e non più zoppa).
(2)
Vedile in
www.studiocelentano.it/dannoesistenziale/ .
(3)
Leggibile nel nostro
sito al link: http://www.pegacity.it/justice/impegno/mobbing_tempio_pausania.html
.
(4)
In Vincitori e vinti (…dopo la sentenza n. 233/2003 della Corte
costituzionale), nota a
commento, in http://www.altalex.com/index.php?idnot=6352 .
(5)
Cendon,
Anche se gli amanti si perdono l’amore non si perderà. Impressioni di
lettura su Cass. n. 8828/2003, in http://www.altalex.com/index.php?idnot=6335 .
(6)
Così Corte cost. n. 184/1986 .
(7)
Così Pret. Ferrara, 25 novembre 1993,in Nuova
giur. civ. comm. 1995, I, 74.
(8)
Il riferimento attiene alla Costituzione
italiana (artt. 2, 3, 4, 35, 41, comma 2°, eminentemente) nonchè a tutte le
altre disposizioni in tema di diritti e di libertà fondamentali: alla
Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo del 10 dicembre 1948; alla Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali,
ratificata dalla l. 4 agosto 1955, n. 848; alla Convenzione sulla salvaguardia
dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, del 25 marzo 1992 in
Strasburgo, ratificata con l. 2 gennaio 1995, n. 17; alla Carta dei diritti
fondamentali, approvata dal Consiglio europeo di Nizza del 7 dicembre 2000.
(9)
In Vincitori e Vinti…, cit. punto
18.
(10)
Trib. Forlì, 15 marzo 2001, in Riv. crit.
dir. lav. 2001, 411, con annotazione di Greco.
(11)
Così Monateri-Bona-Oliva, Mobbing, vessazioni
sul lavoro, Milano 2000, 91.
(12)
Monateri, Alle soglie di una nuova categoria
risarcitoria: il danno esistenziale, in Danno e Responsabilità 1999,
n. 1, 6.
(13)
Così Ponzanelli, Limiti del danno
esistenziale: postfazione al convegno triestino, in Danno e Responsabilità 1999, 3, 361.
(14)
Così Corte cost. 18 luglio 1991, n. 356, nonché Cass. 13 maggio 1995, n. 5271.
(15)
Così ancora Ponzanelli, cit., 361.
(16)
Così cass. n. 8828/03, cit.
(17)
Così Ziviz, Il danno non patrimoniale,
in La responsabilità civile,
VII, a cura di Cendon, Torino 1998, 380.
(18)
Gambacciani, Le nuove frontiere del danno
alla persona nel rapporto di lavoro. Un modello di sintesi: il danno
esistenziale, in Italian Labour Law e-Journal (rivista telematica
diretta da Carinci) 2000.
(19)
Così Pret. Torino 12 luglio 1995, riportata da
Ziviz, op. cit. 378-379.
(20)
Ancora Gambacciani, op. cit.
(21)
Così Monateri, op. cit., 8.
(22)
In tal senso Cass. 16 dicembre 1992, n. 13299,
cit. secondo cui: “Il danno va risarcito: questo è l’essenziale perché resti
tutelata l’esigenza del libero svolgimento dell’attività lavorativa e della
salvaguardia della personalità del lavoratore”. Ora in senso conforme Cass. n.
8828/2003, punto 3.1.7 e laddove al punto 3.1.10 laddove afferma, per la
fattispecie in esame ed in relazione al cumulo danno morale e danno
esistenziale, che: “Ed è appena il caso di notare che il danno non patrimoniale
da perdita del rapporto parentale (esistenziale, n.d.r.), in quanto
ontologicamente diverso dal danno morale soggettivo contingente, può essere
riconosciuto a favore dei congiunti unitamente a quest'ultimo, senza che possa
ravvisarsi una duplicazione di risarcimento.”
(23)
Rileva Montuschi, Problemi del danno alla
persona nel rapporto di lavoro, cit. 322, come la giurisprudenza fosse
“poco incline all’esaltazione dei valori primari fondamentali”, cosicchè l’art.
2087 c.c. “è stato pressochè disapplicato dalla giurisprudenza, che non ha
saputo coglierne, né valorizzarne, l’intrinseca vocazione alla ‘tutela’ dei
valori della persona”.
(24)
Non mancano tuttavia pronunce
giurisprudenziali, per lo più di merito, che hanno riconosciuto ed hanno
liquidato come tale “il danno alla personalità morale” ex art. 2087 c.c.; v.
Pret. Vicenza, 20 aprile 1999, in Guida al lavoro 8, 2000, 42; Pret. Milano 9 dicembre 1997,
in Riv. crit. dir. lav. 1998, 421; Pret. Nocera Inferiore 5 dicembre
1996, ibidem 1997, 348; Pret. Bologna 8 aprile 1997, in Lav. giur.
1998, 140, con ampio commento di Boscati.
(25)
In tal senso,
Montuschi, cit. 325.
(26)
Così Montuschi, cit. 325.
(27)
Così Pizzoferrato, Il danno alla persona:
linee evolutive e tecniche di tutela, in Contratto e impresa 1999,
III, 1089.
(28)
In tal senso Pret. L’Aquila 10 maggio 1991, cit.
(29)
In proposito, v. Pret. Ferrara 25 novembre
1993, in Lav. prev. oggi 1993, con nota di Meucci.
(30)
In proposito v. Cass. 17 luglio 1995 n. 7768,
in Risarc. danno e prev. 1996, 329.
(31)
Gambacciani, Le nuove frontiere del danno
alla persona nel rapporto di lavoro. Un modello di sintesi: il danno
esistenziale, cit.
(32)
Sorgi, La valutazione del danno da mobbing
nella giurisprudenza, Intervento al Convegno di Pescara del settembre 2001
(i cui atti sono reperibili nel sito Internet della USL di Pescara).
(33) Così Cendon, Anche se gli amanti si perdono
l’amore non si perderà…, cit.
(34)
Vedi Trib Torino 10 agosto 2001, in http://www.pegacity.it/justice/impegno/trib_torino.html.
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