Il danno da
demansionamento correttamente ritenuto immanente (o“in re ipsa”) per lesione
del bene immateriale della dignità umana e della personalità morale del
lavoratore, tutelate a livello costituzionale ed ordinario
Sommario:
1. L’ultimo orientamento giudiziario (Trib. Treviso 13
ottobre 2000 e Cass. sez. lav. 6 novembre 2000, n. 14443)
2. Le certezze raggiunte in dottrina ed in giurisprudenza sul danno
da demansionamento
3.
Considerazioni
sull’affermazione (operata da Cass. n. 14443 del 2000) di un presunto onere
probatorio della lesione alla c.d. professionalità oggettiva
4. Le condizioni di
risarcibilità del danno biologico e del danno morale
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1.
L’ultimo orientamento giudiziario (Trib. Treviso 13 ottobre
2000 e Cass. sez. lav. 6 novembre 2000, n. 14443)
In un
nostro precedente articolo sul tema della reintegrazione (sia nel posto di
lavoro che nelle pregresse mansioni o in altre equivalenti) osservavamo come
l’impresa tenda, di norma, a sottrarsi
all’ordine giudiziale rivoltole – anche a costo di incorrere nel reato ex art.
388 c.p., di inottemperanza ad un ordine della magistratura – e ponga in atto
tutti quei meccanismi ostruzionistici, palesi o mimetici, finalizzati a
vanificare l’obbligo impostole (e a non consentire al lavoratore la
realizzazione del diritto sancito a livello giudiziale).
Le
nostre considerazioni trovano ora una riconferma tanto occasionale
quanto significativa nelle due decisioni in tema di “dequalificazione”
pubblicate in questa Rivista. Cioè a dire, rispettivamente, nella sentenza del
Tribunale di Treviso ( sez. lav. 1 grado) del 13 ottobre 2000 (in questa
Rivista 12/2000, p. 2324) e nella sentenza della Corte di Cassazione, sezione
lavoro, del 6 novembre 2000 n. 14443 (ibidem 12/2000, p.2287) .
Nella
prima risulta sanzionata - con il
riconoscimento del diritto al risarcimento del danno alla professionalità e
alla personalità morale del lavoratore (e con l’imposizione al soccombente di
una somma per spese legali pari a £. 15 milioni!) – la mancata esecuzione di
sentenze cautelari impositive di riassegnazione ad un dirigente tecnico del Comune di Ponzano Veneto di
mansioni equivalenti a quelle dalle quali era stato
illegittimamente rimosso, cioè in buona sostanza di un ruolo e posizione professionale di pari
dignità interno/esterna.
La massima
della decisione, che si riproduce per comodità di comprensione da parte del
lettore, è la seguente: “La revoca
dall’incarico dirigenziale con assegnazione, dietro ordine giudiziale, a
mansioni di posizione professionale non equivalente, occasiona per il
lavoratore rimosso sia il diritto al risarcimento del danno – per violazione
degli artt. 2 e 41 Cost e 2087 c.c. – alla libera esplicazione della
personalità nel luogo di lavoro, la cui lesione si verifica per il riflesso che
la dequalificazione professionale ha, sia nell’ambiente di lavoro sia
all’esterno, sulla dignità dell’uomo e del lavoratore, sulla aspettativa di
carriera, sull’immagine e sulla vita di relazione con riferimento anche allo
status sociale (c.d. danno alla personalità morale), sia il diritto al risarcimento del danno alla professionalità
(tutelata dall’art. 2103 c.c.) che consiste nel mancato incremento delle
conoscenze professionali e nel mancato utilizzo delle conoscenze e capacità
acquisite, nonché – quando sussistente – del danno biologico (per lesione
anatomo-funzionale del soggetto cioè a dire dell’integrità dello stato di
salute) e del danno morale (ove la condotta lesiva costituisca anche reato).
Entrambe
le prime due voci di danno (alla personalità morale e alla professionalità)
sono intrinseche e conseguenziali al demansionamento secondo “l’id quod
plerumque accidit” ed hanno una dimensione patrimoniale che le rende
suscettibili di risarcimento e di valutazione anche equitativa (cfr. Cass. n.
11727/99).”.
Nella sentenza n. 14443 del 6 novembre 2000 della sezione lavoro
della Cassazione, risulta sanzionato invece il confinamento in “forzata
inattività” di un lavoratore con qualifica di quadro, deliberatamente non
utilizzato dall’azienda dopo l’ordine di reintegra giudiziale dichiarativo
dell’illegittimità del precedente licenziamento. In buona sostanza, l’azienda,
dopo aver riammesso formalmente in organico il lavoratore, lo aveva lasciato
nella più completa inattività, dimostrando una indisponibilità sostanziale
verso la decisione del magistrato e
l’intendimento di sanzionare ritorsivamente questa reintroduzione coatta del lavoratore in
azienda. Il lavoratore aveva adito il
Pretore di Firenze (che aveva disposto una liquidazione equitativa del
danno arrecato alla dignità e
personalità morale del lavoratore, tramite la mancata utilizzazione
professionale in concreto, utilizzando come parametro di base l'importo del
t.f.r. percepito evidentemente a seguito di risoluzione del rapporto
di lavoro cui il dipendete sgradito si era determinato non certo volontariamente!),
poi la questione era passata al vaglio del Tribunale (che ne aveva riconfermato
le statuizioni) ed infine giunta in Cassazione. Qui i giudici della S. corte riconfermano la correttezza delle
conclusioni raggiunte nei precedenti gradi del giudizio ed affermano principi –
sui quali ci intratterremo in prosieguo – di indubbia rilevanza, in linea con
quanto già da noi sostenuto in due note (“Il carattere immanente del danno da dequalificazione”, nota a
Cass., sez. lav., 18 ottobre 1999, n. 11727, in Lavoro e
previdenza Oggi 12/1999, p. 2347 e in “Demansionamento per esproprio di
competenze, aziendalmente legittimato”, nota a Pret. Roma 1 aprile 1999, ibidem
, 6/2000, p. 1246). Ancora per comprensione del lettore riferiamo la massima (non ufficiale ma da noi elaborata) di Cass.
n. 14443/2000 che così si esprime: “Il demansionamento professionale dà
luogo ad una pluralità di pregiudizi,
solo in parte incidenti sulla potenzialità economica del lavoratore. Non solo
viola lo specifico divieto di cui all’art. 2103 c.c., ma costituisce offesa
alla dignità professionale del
prestatore intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità nel
contesto lavorativo (in cui si sostanzia il danno alla dignità del lavoratore,
bene immateriale per eccellenza) e quindi
lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della
personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, con la conseguenza che il
pregiudizio conseguente incide sulla vita professionale e di relazione
dell’interessato, con indubbia dimensione patrimoniale che lo rende
suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa (Cass. 18.10.99, n. 11727). L’affermazione di un
valore superiore della professionalità, direttamente collegato ad un diritto
fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a carattere
immateriale, in qualche modo supera ed integra la precedente affermazione che
la mortificazione della professionalità del lavoratore potesse dar luogo a
risarcimento solo ove venisse fornita la prova dell’effettiva sussistenza di un
danno patrimoniale (cfr. le sentenze 11.8.98,n 7905; 4.2.97, n. 1026 e 13.8.91,
n. 8835).
Va
invece dimostrato il concreto pregiudizio qualora si adduca addizionalmente una
lesione della professionalità in senso obiettivo, sciolta da ogni riferimento
alla dignità del lavoratore ed intesa nel senso di perdita di occasioni
concrete di progressione lavorativa (migliori occasioni di collocazione
lavorativa all’esterno e di avanzamento in carriera all’interno).
Ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale (art. 2059
c.c.), l’inesistenza di una pronuncia del giudice penale, nei termini in cui ha
efficacia di giudicato nel processo civile a norma degli artt. 651 e 652
c.p.p., comporta che il giudice civile possa accertare ‘incidenter tantum’ l’esistenza del reato – nel caso di ingiuria, riscontrato
insussistente in sede di merito (n.d.r.)-
nei suoi elementi obiettivi e soggettivi, individuando l’autore,
procedendo al relativo accertamento nel rispetto dei canoni della legge penale
(cfr. ex multis Cass. 14.2.2000, n. 1643)”.
2. Le certezze raggiunte in
dottrina ed in giurisprudenza sul danno da demansionamento
Nella
tematica della dequalificazione, soggetta ad oscillazioni (sia pure su aspetti
secondari quali quelli dei parametri per la liquidazione equitativa del danno)
conviene fissare le certezze raggiunte.
Partendo
da Cass. n. 13299 del 16 dicembre 1992 (1), ricollegandoci a Cass. n. 11727 del
18 ottobre 1999 (2) fino all’odierna decisione n. 14443 del 6 novembre 2000 (3)
– e tenendo a mente i numerosi giudicati di merito (da ultimo Trib Treviso 13
ottobre 2000 (4) - si può dire che si sono raggiunte le
seguenti certezze:
a) la
dequalificazione (sia essa per lottizzazione, id
est per far posto ad altri appartenenti ad aree
politiche diverse o si realizzi per i più diversi motivi) che occasioni da parte datoriale il mancato rispetto delle obbligazioni assunte (da
eseguire secondo correttezza e buona fede
ex artt. 1175 e 1375 c.c.) e
quindi la violazione del principio giuridico codificato nell’art. 2103 c.c. di
assegnazione del lavoratore alle mansioni pattuite o ad altre professionalmente
equivalenti, determina un vulnus
alla dignità del lavoratore ed alla sua personalità morale, al suo diritto alla
realizzazione delle proprie aspettative nell’ambito dell’attività lavorativa in funzione delle quali ha
instaurato un rapporto di lavoro. Tale vulnus
- immanente al danno da
demansionamento, cioè a dire “ in re ipsa” e, come tale, non necessitante di prova
di pregiudizio economico - occasiona responsabilità da inadempimento del
debitore ex art. 1218 c.c., liquidabile dal giudice adito anche in via
equitativa ex art. 1226 c.c. Il comportamento contra
legem è lesivo dell’art. 2 Cost (che fissa il
diritto al rispetto della personalità dell’uomo nella complessità ed unitarietà
delle sue componenti e nelle varie sedi o formazioni sociali di svolgimento, concretante di per sé una posizione di diritto soggettivo, così
Cass. 1° sez. civ., n. 3769/1985) nonché dell’art. 41, comma 2°, Cost (che vieta alla libertà di impresa di “recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità
umana”). Quando la
dequalificazione è posta in essere per motivi “pravi” (lottizzazione, motivi antisindacali,
discriminazioni di vario tipo) essa è anche lesiva dell’art. 1 Cost. – oltrechè
dell’art. 15 Stat. lav. - che pone a
base della convivenza civile nello Stato i
“principi democratici e lavoristici”, in tal modo precludendo in linea di
principio che la valutazione e l’apprezzamento professionale del lavoratore si
dispieghi secondo criteri diversi da quelli
costituiti dalle “qualità professionali
e personali e dai meriti di lavoro” (così, Cass. n. 13299/1992, cit).
In tal
senso, inequivocabilmente, Cass. n.
13299/1992 secondo cui: “ …il vulnus alla
personalità ed alla libertà del
lavoratore… contiene necessariamente, oltre che la potenzialità del danno, una
inseparabile carica di effettività (senza che ciò significhi ricorso a
presunzioni) per la diminuzione del patrimonio professionale, anche ai fini
dell’ulteriore sviluppo di carriera, del lavoratore ingiustamente rimosso dalle
mansioni corrispondenti alla sua qualifica”. Parimenti Cass. n. 11727/1999 che – nell’accogliere
la tesi della difesa del lavoratore secondo cui il giudice di merito aveva
generalizzato il principio dell’onere della prova a carico del lavoratore anche
alle violazioni della professionalità
mentre l’onere probatorio era da ritenersi ristretto alla fattispecie
del danno biologico – ha asserito: “E’
illegittimo il disconoscimento del risarcimento del danno patrimoniale da
accertata dequalificazione professionale, per non aver il lavoratore fornito la
prova di un contenuto economicamente apprezzabile del danno medesimo o di elementi implicanti un vulnus alla sua personalità, alla sua vita di relazione,
alla sua immagine professionale e sociale, alle sue aspettative di promozione e
di carriera. Infatti il danno da demansionamento professionale si risolve (e si
sostanzia di per sé) in un effettivo,
concreto e inevitabile ridimensionamento dei vari aspetti della vita
professionale del lavoratore, ridimensionamento che costituisce, a sua volta,
un bagaglio peggiorativo diretto ad interferire negativamente nelle infinite
espressioni future dell’attività lavorativa. La dequalificazione contiene
necessariamente, oltre che la potenzialità del danno, una inseparabile carica
di effettività (senza che ciò significhi ricorso a presunzioni) per la
diminuzione del patrimonio professionale, anche ai fini dell’ulteriore sviluppo
di carriera, del lavoratore ingiustamente rimosso dalle mansioni corrispondenti
alla sua qualifica, danno che deve
essere risarcito dietro valutazione del giudice che - ricorrendone le
condizioni – potrà procedere anche con il criterio equitativo ex art. 1226
c.c.” Nello stesso
senso Trib. Roma (sez. lav., 1° grado) del 4 aprile 2000 (est. Buonassisi,
Bellumori c. Telecom SpA (5), secondo cui: “Il
demansionamento, inteso quale privazione delle mansioni o svuotamento del loro
contenuto, costituisce un danno in sé,… Gli stessi principi non possono essere
estesi al danno biologico, o alla salute, rispetto ai quali è il lavoratore a
dover provare in modo specifico il danno subito e il nesso causale con la
condotta datoriale” (6).
Nel senso dell’immanenza del danno da dequalificazione ancora Trib Treviso 13
ottobre 2000, cit., secondo cui: “Entrambe le
prime due voci di danno (alla personalità morale e alla professionalità da
demansionamento) sono intrinseche e conseguenziali al demansionamento secondo
“l’id quod plerumque accidit” ed hanno una dimensione patrimoniale che le rende
suscettibili di risarcimento e di valutazione anche equitativa (cfr. Cass. n.
11727/99)”.
E da ultimo Cass. n. 14443/2000 anch’essa espressasi per l’immanenza del danno da
demansionamento, sulla base dell’argomentazione per cui: “L’affermazione di
un valore superiore della professionalità, direttamente collegato ad un diritto
fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a carattere
immateriale, in qualche modo supera ed integra la precedente affermazione che
la mortificazione della professionalità del lavoratore potesse dar luogo a
risarcimento solo ove venisse fornita la prova dell’effettiva sussistenza di un
danno patrimoniale (cfr. le sentenze 11.8.98, n 7905; 4.2.97, n. 1026 e
13.8.91, n. 8835)”;
b) tuttavia il danno da demansionamento non si indirizza
solo su di un bene immateriale quale “la dignità e le personalità morale del
lavoratore”, ma lede il bene concreto della professionalità, nella forma
del mancato utilizzo delle conoscenze pregresse acquisite e del loro ulteriore
perfezionamento conseguente alla loro estrinsecazione nella prestazione
lavorativa. E’ comune acquisizione che alla “sottoutilizzazione” o ancor peggio
alla “forzata inattività” si accompagna – automaticamente e senza necessità di
prova - degrado di professionalità e
non certo utilizzazione ed accrescimento della stessa, quale postulato
dall’art. 2103 c.c., nella consolidata interpretazione giurisprudenziale
elaborativa della nozione di “equivalenza”.
Questo intuitivo concetto viene significativamente espresso
da Pret. Milano 21 gennaio 1992 (7), secondo il quale: “l'impossibilità di svolgere il lavoro per il quale si è idonei,
comporta un decremento o, quanto meno, un mancato incremento della
professionalità, intesa come l'insieme delle conoscenze teoriche e delle
capacità pratiche che si acquisiscono da parte del lavoratore con il concreto
esercizio della sua attività lavorativa. La tesi (della convenuta società, n.d.r.) circa l'inesistenza di un danno, nel caso specifico, poiché il
ricorrente avrebbe potuto aggiornarsi nelle materie legali anche in mancanza di
attività lavorativa, leggendo e studiando le pubblicazioni del settore...non può
essere condivisa. E infatti la professionalità di un lavoratore intellettuale
dipende ed è costituita non solo dalle
nozioni teoriche ma dalle capacità applicative delle stesse nella prassi
lavorativa; essa si forma nel rapporto con le esigenze tecniche poste dalla
pratica quotidiana e non certo ipotizzabili in termini astratti e teorici e
viene stimolata ed incrementata dall'attività di soluzione delle evenienze che
di volta in volta si pongono. Consegue a ciò che l'assenza del lavoro priva il
lavoratore della possibilità di utilizzare e valorizzare la sua
professionalità, determinandone l'impoverimento; ed, al tempo stesso, ne
impedisce la crescita. In tale prospettazione è evidente che la forzata
inattività dal lavoro determina per il lavoratore un pregiudizio al suo
bagaglio professionale, che si traduce in un danno patrimonialmente
valutabile"(8). E che la
professionalità in concreto sia danneggiata dal demansionamento e,
pertanto, necessiti anch’essa di risarcimento lo si desume da Trib. Treviso 13 ottobre
2000, laddove il magistrato liquida
tale danno secondo il parametro della retribuzione mensile (assunta nel 50%
dell’importo) in congiunzione con il risarcimento del vulnus alla
personalità morale (equitativamente fissato in £.500 mila al mese per ogni mese
di demansionamento);
c) è anche pacifico orientamento giurisprudenziale quello
secondo il quale “per la determinazione equitativa del danno alla
professionalità si deve tener conto
della retribuzione mensile e del protrarsi nel tempo della dequalificazione,
poiché il danno cresce secondo una linea di sviluppo progressiva, correlata
sostanzialmente al decorso del tempo…”(ex plurimis, Pret. Milano 9 aprile 1998 e Pret. Milano 26
gennaio 1999 (9). Con ciò si vuol dire che più a lungo si è
protratta la dequalificazione, maggiore è il danno, così come maggiore è il danno da “non
utilizzazione o forzata inattività” rispetto a quello da
“sottoutilizzazione”, derivante dalla sottrazione solo di taluni compiti qualificanti
ma senza confinamento nella totale, più avvilente e più
professionalmente pregiudizievole inedia lavorativa.
3. Considerazioni
sull’affermazione (operata da Cass. n. 14443 del 2000) di un presunto onere
probatorio della lesione alla c.d. professionalità oggettiva
Attenzione
– anche se non condivisione, per cui si attende una addizionale riflessione della S. corte sul punto – merita il “distinguo”
operato dal Cass. n. 14443 del 2000, laddove sostiene che il danno alla
professionalità intesa in senso obiettivo
(slegata cioè dal vulnus alla dignità umana e strutturata dagli
addotti pregiudizi alle occasioni o chanches di migliore collocazione
esterna o di progressione di carriera all’interno) deve essere, invece, provato
nel suo pregiudizio patrimoniale dal lavoratore. Questo danno, secondo tale
decisione, non sarebbe immanente ma soggetto all’onere probatorio ex art. 2697
c.c. Ora è intuitivo – e le precedenti decisioni n. 13299/1992 e n. 11727/1999
l’avevano detto espressamente – che il danno alla professionalità, sotto forma
di decremento od obsolescenza del patrimonio professionale di nozioni ed
esperienza acquista si riflette “automaticamente” in negativo sulle opportunità di reperimento di nuova
occupazione all’esterno e di avanzamento di carriera all’interno. Ed anche
questi pregiudizi sono immanenti secondo l’id quod plerumque accidit
(per usare la dizione di Trib. Treviso 13 ottobre 2000, cit.). Ma evidentemente
la S. corte, dopo aver compiuto il primo tragitto sul sentiero della
“immanenza” al demansionamento del
danno equitativamente risarcibile, non se l’è sentita di compierlo fino in
fondo, estendendo il riconoscimento del danno “in re ipsa” anche agli
addotti pregiudizi di carriera o di occasioni di lavoro all’esterno e ne ha,
con un atteggiamento frenante e restrittivo, preteso la dimostrazione.
Può
essere anche in un certo qual modo comprensibile che, di fronte
all’affermazione del lavoratore che il danno alla professionalità per colpa
datoriale abbia anche comportato una mancata progressione di carriera, la S.
corte abbia ritenuto che sia onere (quando non concludentemente risaltante da
fatti di indubbia significatività quali l’obiettiva ed incontestata
evidenziazione o riscontro che i
colleghi del pretermesso erano avanzati in carriera con ben altra accelerazione
rispetto alla staticità o ibernazione o ai superiori tempi di avanzamento del demansionato) dimostrare da parte dello stesso, superando la realistica
presunzione, che se non fosse stato oggetto del comportamento emarginante
sarebbe progredito in carriera come gli altri (o più degli altri)
colleghi. Così, nello stesso modo, si
può anche comprendere che non si possa
automaticamente accedere alla richiesta risarcitoria di mancate opportunità di
nuove occasioni di lavoro esterno se non si è data in qualche modo la
prova di averle sperimentate
tentativamente: certo è che non bisogna giungere alla trasformazione di
quest’onere in “probatio diabolica”
per il lavoratore, quale potrebbe risultare quella di pretendere che un demansionato, per dimostrare la sua non
ricollocabilità all’esterno, si debba far rilasciare da un’azienda (o una
società di selezione) cui si è presentato per una nuova occupazione
l’attestazione dell’essere stato scartato o ricusato per “obsolescenza” da
demansionamento posto in essere dal
pregresso datore di lavoro. Chi mai, quando mai, e perché mai un terzo estraneo
dovrebbe rilasciare una attestazione o testimonianza similare?
Tutto
quindi si giocherà sul buon senso, attraverso le misure che il magistrato dovrà
utilizzare per “quantificare” il risarcimento del danno alla professionalità,
alla dignità, alla personalità morale, all’immagine, alla reputazione del
lavoratore demansionato, all’esterno e all’interno dell’azienda. Sarà pertanto
il giudice – da una parte tenendo conto
delle c.d. componenti immanenti del danno alla professionalità,
dall’altro delle considerazioni e circostanze concludentemente probanti
(anche se non in senso strettamente tecnico) per verosimiglianza, fondatezza e
realismo – che dovrà calibrare la misura risarcitoria del danno, la cui quantificazione
dovrà essere altresì intrinsecamente dotata di un sostanzioso e tangibile
carattere di “deterrenza” o “dissuasività”,
cioè di idoneità a scoraggiare la reiterazione del comportamento
emarginante, lesivo e contra legem (allo scopo graduandolo caso per caso, tenendo anche opportunamente presente il principio
codificato nell'art. 26, comma 2°, c.p. - già utilizzato nell'art. 38 Stat.
lav. - in ordine alla presumibile inefficacia della (indiretta) sanzione
pecuniaria in ragione della capacità di
resistenza economica dell’azienda, desumibile dal capitale sociale o da indici similari di consistenza economica e
significativa presenza sul mercato). I nostri giudici si devono allineare ai
loro colleghi anglosassoni nel conferire
la giusta valenza alle lesioni dei
diritti fondamentali ed inviolabili della personalità , in modo tale da
non consentire ulteriormente di imbattersi in cifre risarcitorie dell’ordine
dei 10 milioni come si è letto nelle recenti ed isolate sentenze del Tribunale
di Torino del 16 novembre 1999 (10) e del 30.12.1999 (Stomeo c. Ziliani Spa,
inedita) in tema “anti mobbing”, perché non è certo questa la strada per
realizzare l’obiettivo della dissuasione dei comportamenti vessatori,
discriminatori ed emarginanti dei prestatori di lavoro ad essi (quasi impunemente) sottoposti
nonchè per ristorare equitativamente il danno da perdita o abbandono (non certo
volontario) del bene del posto di lavoro.
4. Le condizioni di risarcibilità
del danno biologico e del danno morale
Anche
sul fronte del risarcimento del danno biologico e del danno morale si sono
raggiunte oramai certezze, per effetto di orientamenti consolidati. Il danno
alle lesioni dell’integrità dello stato di salute – conseguente a pratiche di
demansionamento, di mobbing, di bossing, e simili – è risarcibile dietro dimostrazione
non solo della sussistenza del danno, anche nella sua entità specifica, ma
principalmente del nesso di causalità o di concausa dalle pratiche afflittive e
contra legem datoriali.
Relativamente
al danno morale, si è poi raggiunta la conclusione che - nell’attuale contesto
normativo in cui lo stesso viene risarcito solo in quanto conseguenza di una
condotta costituente reato, ai sensi dell’art. 2059 c.c. – anch’esso necessità
di prova concreta e dell’accertamento della sussistenza del reato (di norma quello di lesioni personali ex art. 582 c.p.
o di lesioni personali colpose ex art. 590 c.p., non escludendosi la possibile
ricorrenza dell’abuso d’ufficio ex art. 323 c.p. e la violenza privata ex art. 610 c.p.), allo scopo
considerandosi pienamente legittimato –
in assenza di giudicato penale – il giudice civile, come riconferma l’odierna
Cass. n. 14443/2000, laddove asserisce che: “Ai fini del risarcimento del
danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.), l’inesistenza di una pronuncia del
giudice penale, nei termini in cui ha efficacia di giudicato nel processo
civile a norma degli artt. 651 e 652 c.p.p., comporta che il giudice civile
possa accertare ‘incidenter tantum’
l’esistenza del reato nei suoi elementi obiettivi e soggettivi, individuando
l’autore, procedendo al relativo accertamento nel rispetto dei canoni della
legge penale (cfr. ex multis Cass. 14.2.2000, n. 1643)”.
In tal senso sia la dottrina sia la giurisprudenza sono pacifiche, dopo l’abbandono del principio di preminenza dell’azione penale sulla civile, e per la legittimazione del giudice civile (del lavoro) all’autonomo riscontro del reato, si citano – in sede di legittimità ed in aggiunta a Cass. 14.2.2000, n. 1643 - in ordine cronologico, Cass. 6.2.1990, n. 817 (11), Cass. 7.5.1997 n. 3992 e 27.2. 1996 n. 1501 (12), Cass. 13.5.1997, n. 4179 (13), Cass. 20.4.1998, n. 4012 (14), Cass. 20.10.1998, n. 10405 (15) che con innegabile chiarezza ha anch’essa statuito: “Ai fini del risarcimento del danno morale, il giudice civile ha il potere di accertare autonomamente se il fatto dannoso, dal quale trae origine la pretesa risarcitoria, integri gli estremi di un reato, nonostante non sia stata promossa l’azione penale nei confronti dell’autore materiale di esso, ovvero il procedimento penale sia stato definito con una declaratoria di estinzione del reato ovvero sia stato emesso un provvedimento di archiviazione della notizia di reato o di proscioglimento istruttorio”.
(pubblicato in Lavoro e previdenza Oggi, n. 12/2000, p.2192)
Mario Meucci
Roma, 4 dicembre 2000
NOTE
(1) In Riv. crit. dir.
lav. 1993, 315.