DANNI ALLA SALUTE E VIZI DELLE PERIZIE DEI CTU SANITARI
Tribunale Milano 6 maggio 2002 - est.
Frattin - Olivieri (avv. Fracanzani) c. Hachette Rusconi Spa (avv. Amadesi).
Art. 2103 c.c. -
Assegnazione di mansioni deteriori ed eterogenee rispetto alle precedenti -
Mancata equivalenza - Illegittimità - Danno professionale - Risarcimento
-Determinazione equitativa - Fattispecie.
Art. 2103 c.c. -
Dequalificazione - Conseguente
psicopatologia - Danno biologico e danno morale - Risarcimento - Determinazione
- Criteri.
L'assegnazione al dipendente di mansioni
di minor spessore sia concettuale sia d'autonomia e d'iniziativa, nonché del
tutto eterogenee rispetto alle precedenti - ossia tali da non consentire in
alcun modo l'utilizzo della professionalità maturata - è illegittima, difettando l'equivalenza al riguardo prescritta
dall'ari. 2103 c.c.; la misura del conseguente danno professionale è
determinabile in via equitativa (nella fattispecie è stala determinata nel 40%
della retribuzione spettante durante il periodo di dequalificazione).
Ove la dequalifìcazione, attuata in
violazione dell'ari. 2103 c.c., abbia dato luogo a una psicopatologia comportante inabilità temporanea, compete al
dipendente il risarcimento del danno biologico e del danno morale, da
ricollegare alla violazione dell'ari. 2087 c.c., determinabili secondo
parametri equitativi (quali quelli indicati nelle tabelle utilizzate dalla
giurisprudenza milanese). Non si può condividere assolutamente, a fini di
sottrazione della società dalle responsabilità dei danni alla salute della
ricorrente, il tentativo dei Ctu di parte volto a pretendere di ricollegare causalmente la
grave frustrazione e la conseguente psicopatologia alla storia psicologica
remota della ricorrente, ai suoi problemi
infantili non risolti e così via: a questa stregua - andando cioè alla caccia dei problemi psicologici prossimi o
remoti di ciascuno di noi, chiamando narcisismo il giusto bisogno di ricavare
soddisfazione dal lavoro - di
nessuna patologia psicologica
potrebbe mai affermarsi l'eziologia professionale, cadendo sempre ogni fatto
professionale su un terreno che ha una storia fatta necessariamente, per la
condizione umana, anche di sofferenze e problemi.
(...) Con ricorso depositato il
15/5/2000, e contestuale istanza ex art. 700 c.p.c., la ricorrente esponeva: di
essere stata assunta nel novembre 1993 in qualità di segretaria del Direttore editoriale; di essere passata dal
livello B2 al livello B1 nel 1987, alla cat. A nel 1989 e poi a quella
AS; di essere divenuta dapprima (dal marzo 1993) responsabile della redazione dei contratti editoriali di
traduzione sia italiani sia esteri e, dal 1996, titolare della gestione
in autonomia dell'Ufficio Diritti/Ufficio Estero; che tale gestione comprendeva un'attività variegata -
diffusamente descritta in ricorso - che prevedeva, in sintesi, rapporti
correnti con editori e autori stranieri, oltre che con traduttori, intrattenuti
normalmente anche in lingue straniere scritte e parlate, inerenti a problematiche editoriali, contrattuali ed
economiche (diritti d'autore), il che aveva consentito alla ricorrente
di farsi un'ottima reputazione sotto tutti i profili presso validi e anche noti uomini di cultura, come da attestazioni
riportate in ricorso; che dal dicembre 1998 la situazione aziendale era
radicalmente cambiata per l'entrata nella compagine
azionaria prima del 20% poi, dal febbraio 1999, all'80%, della Società Hachette;
che a giugno 1999 Rusconi Libri era stata venduta, i suoi dirigenti agevolati
all'esodo volontario e gli altri dipendenti erano stati assunti con passaggio
diretto dalla Rusconi Editore; che, dopo
promesse di nuove posizioni da parte del nuovo management, essa
ricorrente si era invece trovata, al ritorno dalle ferie a fine luglio 1999, a svolgere mansioni corrispondenti alla categoria
B2 (anche se svolta da un B1) nel settore diffusione, con contenuti di data
entry e assistenza alla rete di vendita, da svolgersi quasi totalmente al computer,
e in un contesto connotato dalla mancanza di una scrivania, un computer
personale, un telefono e perfino di una sedia. Di aver tentato, nonostante la totale disomogeneità delle nuove
mansioni, d'impararle ma, a motivo della mancanza delle condizioni materiali e
psicologiche per poter lavorare, d'essere precipitata, per lo stress subito, in una grave e violenta patologia
psicosomatica; di aver chiesto al
responsabile del personale di aver assegnate nuove e diverse mansioni, sentendosi
più volte condizionare questa possibilità all'accettazione scritta di una
dequalificazione (nuova assunzione in B2);
che dalla patologia insorta erano derivate gravi conseguenze, ancora in
atto, attestate da documentazione (prodotta) proveniente dalla Clinica del Lavoro di Milano. Ciò premesso in
fatto, affermata l'avvenuta grave dequalificazione professionale, la
presenza di gravi danni professionali, biologici e patrimoniali derivati dal
comportamento complessivo della datrice di lavoro, chiedeva in via cautelare
l'assegnazione di mansioni corrispondenti alla qualifica AS posseduta e nel merito: accertarsi e dichiararsi la nullità
dell'ordine di servizio con cui Rusconi Editore l'aveva assegnata a
mansioni ricoperte da un impiegato di cat. B1 per illiceità del motivo e contrasto con l'art. 2103;
accertarsi l'intervenuto demansionamento e l'illegittimità degli altri atti compiuti dal datore in violazione dell'ari.
2103 c.c. nonché dell'ari. 2087
c.c.; per l'effetto condannarsi la convenuta alla rifusione di tutti i danni
nella misura da determinarsi in corso di causa e comunque in una somma non
inferiore a L. 280.000.000.
Si costituiva già
nella sede cautelare la convenuta, resistendo alla domanda.
Nelle more delle sommarie informazioni,
la convenuta, premesso essersi creata una possibilità
temporanea, adibiva la ricorrente a mansioni di segreteria di redazione presso una testata giornalistica del gruppo
Rusconi. La ricorrente, con salvezza di tutti i suoi diritti, accettava
e rinunciava alla procedura cautelare. Costituendosi nel merito, la convenuta
eccepiva in sintesi: che le mansioni della ricorrente fino al 1998 erano state
da lei descritte in termini enfatici, mentre si era trattato di mansioni di
segreteria-dattiloscrittura-traduzioni-corrispondenza; che le nuove mansioni
affidatele nel settore della diffusione erano a livello delle precedenti,
comportando elaborazione di dati e rapporto
corrente con gli ispettori; che la proposta rivolta alla ricorrente, relativa
alla segreteria del nuovo Presidente, era stata da lei rifiutata; che la
comprensibile sofferenza per la perdita di una posizione vissuta come molto
gratificante non era ascrivibile a colpa della resistente, essendo la posizione
venuta meno oggettivamente e non essendovi
stata dequalificazione; che, comunque, non vi era la prova delle devastanti conseguenze
lamentate dalla ricorrente, né dei danni così ingenti richiesti in ricorso. Concludeva per il rigetto del ricorso.
Veniva esperita istruttoria testimoniale all'esito della quale veniva disposta Ctu medico-legale. Dopo un confronto tra gli opposti Cctt di parte, la causa veniva infine discussa e decisa come in dispositivo.
Motivi della
decisione
Sul confronto tra
le mansioni. La versione sostenuta in proposito nella memoria difensiva è stata decisamente smentita dai
testi, che hanno confermato - tutti quelli a conoscenza di fatti - l'elevato
spessore, sia concettuale sia d'autonomia e iniziativa, delle mansioni della
ricorrente di gestione ad ampio spettro dei rapporti con autori ed editori, sia sul piano contrattuale - messa a punto,
partendo naturalmente da schemi predefiniti, dalle clausole
contrattuali - sia su quello della gestione corrente dei rapporti medesimi,
implicante un grado assai elevato di competenza professionale e linguistica (in lingua italiana, inglese e francese), di
fiducia reciproca e anche di savoir faire, particolarmente necessario nel trattare con personaggi
noti della cultura non sempre, notoriamente, portatori di duttilità pari
alla considerazione goduta. La particolare capacità e sensibilità della ricorrente in queste mansioni è stata ampiamente
riconosciuta da detti personaggi nelle dichiarazioni riportate in
ricorso e confermata dai superiori. Il tentativo di ridurre tutto ciò a
mansioni d'ordinaria segreteria e «dattilografa» dei contratti appare
francamente ingiurioso.
Ciò detto delle
mansioni precedenti, le nuove assegnatele presso gli uffici della distribuzione
anzitutto non reggono il paragone sul piano dello spessore concettuale e di iniziativa,
anche scontando che si trattasse di un'apprensione parziale e iniziale delle
mansioni stesse, ma in ogni caso e soprattutto presentano un'assoluta e totale
eterogeneità rispetto alle
precedenti, sono tali cioè da non consentire in alcun modo e misura l'utilizzo
della professionalità maturata. Come ha giustamente semplificato la ricorrente, passare da un mondo di lettere, valori
letterari, giuridici e di rapporti interpersonali, vissuti a livello
d'autonomia e responsabilità, a un «mondo di numeri», di grandezze quantitative e dati commerciali ha
rappresentato per la ricorrente, e rappresenterebbe per chiunque, un salto troppo forte - salve particolari capacità
individuali d'adattamento che non si possono richiedere
obbligatoriamente - per essere compiuto senza
grave senso di frustrazione e spaesamento, con possibili gravi ricadute
psicopa-tologiche. Alla luce del concetto d'equivalenza ormai recetto
nella giurisprudenza di legittimità, le
nuove mansioni non possono essere ritenute equivalenti alle precedenti. Siamo
dunque in presenza di una netta dequalificazione professionale, di per sé vietata
all'imprenditore, salvo che - secondo una giurisprudenza più possibilista - egli
non provi di aver avuto come unica alternativa il licenziamento (peraltro
questa giurisprudenza presuppone quantomeno un accordo, o collettivo o
individuale, sulla dequalificazione stessa, accordo qui inesistente). In
proposito la convenuta ha affermato di aver offerto
alla ricorrente il posto di segretaria del nuovo Presidente della società e che
la stessa lo avrebbe rifiutato. È agli atti una lettera della ricorrente
che può essere letta come un rifiuto, ma
l'istruttoria ha dimostrato che la ricorrente non aveva in realtà rifiutato, ma
chiesto un tempo di riflessione che, invece, non le fu concesso perché sopravvenne la nuova (contestata) destinazione.
Quanto invece
all'impossibilità di ricollocare la ricorrente in altre posizioni, se non uguali, più affini alla precedente, deve
affermarsi che la convenuta non ha neppure formulato idonee allegazioni al
riguardo. Si è limitata a dire di aver offerto alla ricorrente anche un posto
nel settore pubblicità, da lei rifiutato.
Nulla ha invece detto con riferimento
all'ingente quantità di riviste e testate tuttora edite dalla Rusconi,
costituenti il core business dell'azienda, richiedenti quindi un grosso
lavoro redazionale e una serie di segreterie di redazione, che hanno, tra gli
altri, il compito di tenere i rapporti con
collaboratori, italiani e stranieri, traduttori e in genere di coordinare,
logisticamente ma non solo, tutto ciò che conduce alla pubblicazione di testi
e foto. Pur con le ovvie differenze rispetto al lavoro editoriale di libri, si
tratta di un lavoro certamente affine al primo, per il quale cioè può
sussistere - ceteris paribus - l'equivalenza nel senso di cui sopra. Non
a caso il lavoro assegnato alla ricorrente in corso
di causa - sia pure in via temporanea per affermate temporanee scoperte per maternità
- è stato proprio di questo genere. Ritiene lo scrivente che la convenuta avrebbe dovuto, per giustificare la dequalificazione,
allegare e quindi provare l'impossibilità di ricollocare la ricorrente
in una di quelle segreterie di redazione, cioè l'altra parte - oltre la dimostrata eliminazione del posto
originario - del giustificato motivo di licenziamento. Non avendo essa
fatto ciò, deve ritenersi l'illegittimità del comportamento aziendale. Si può aggiungere che l'assegnazione
delle nuove e inferiori mansioni è avvenuta in un contesto di non
sufficiente rispetto per la dignità della lavoratrice (mancava una scrivania, doveva perfino cercarsi una
sedia), contesto certamente aggravatosi per le comprensibili (nelle sue
alterate condizioni) ma eccessive reazioni della ricorrente che si è lasciata
andare ad apprezzamenti sbrigativi quanto offensivi sulla sostanza del lavoro del nuovo ufficio, offendendo così
anche gli incolpevoli colleghi. Per questa
distribuzione delle colpe non si ritiene possa parlarsi, nella specie, di mobbing,
che richiede un'articolata e prolungata attività (di datore e/o
colleghi) tesa coerentemente all'isolamento e/o all'umiliazione della vittima.
Niente mobbing,
dunque, ma è certa la responsabilità della convenuta per i danni psicofisici subiti dalla ricorrente in
diretta dipendenza dall'illegittima dequalificazione subita. È stato del tutto provato che la ricorrente era persona di grande
equilibrio prima dei fatti di causa, di carattere positivo, duttile e privo di
spigoli. Il demansionamento ha avuto per lei un effetto catastrofico, dando
luogo a disturbi riferibili al totale spaesamento e crollo di certezze
indotto dalla nuova collocazione in un ambito per lei totalmente incomprensibile. Paiono francamente da rifiutare le
diverse interpretazioni dei fatti psicologici fornite dai consulenti tecnici di
parte aziendale. Un conto è dire che la ricorrente, che aveva trovato
una collocazione professionale per lei assai gratificante (con conseguente ideale immagine di sé) nelle mansioni
precedenti, ha vissuto con una particolare frustrazione e sofferenza il
crollo della posizione raggiunta e il passaggio su un terreno del tutto
sconosciuto e ostico nel quale avrebbe dovuto ricominciare da zero: fin qui si può
essere d'accordo. Tutt'altra cosa è pretendere di ricollegare causalmente la
grave frustrazione e la conseguente psicopatologia alla storia psicologica
remota della ricorrente, ai suoi problemi
infantili non risolti e così via: a questa stregua - andando cioè alla caccia dei problemi psicologici prossimi o
remoti di ciascuno di noi, chiamando narcisismo il giusto bisogno di ricavare
soddisfazione dal lavoro - di
nessuna patologia psicologica
potrebbe mai affermarsi l'eziologia professionale, cadendo sempre ogni fatto
professionale su un terreno che ha una storia fatta necessariamente, per la
condizione umana, anche di sofferenze e problemi. «Da vicino nessuno è
normale», recita un acuto slogan d'ispirazione antidiscriminatoria, a
significare che non si può richiedere a una persona, nel nostro caso a un
lavoratore, come condizione per tutelarne i diritti, un certificato d'«assoluto
equilibrio e normalità» che non si vede - d'altronde - chi potrebbe rilasciare. Di fatto, peraltro, è risultato che la
ricorrente non aveva, prima dei fatti di causa, alcun sintomo patologico ed era vissuta da colleghi e terzi come
persona equilibrata e gradevole. La
relazione del Ctu, comprensibilmente problematica sotto il profilo del nesso
causale in una situazione in cui non era stata ancora affermata giudizialmente
l'illegittimità del comportamento aziendale,
è condivisibile nelle sue conclusioni, a eccezione della parte in cui esse mettono in dubbio la
durata dell'inabilità temporanea; non pare persuasiva la contestazione ai medici curanti di non aver aumentato le
dosi degli psicofarmaci: chi aveva allora in cura la ricorrente doveva
tener conto di una serie di fattori che non
si ritengono adeguatamente valutabili a posteriori.
Si condivide
l'affermazione dell'inesistenza nella ricorrente di un'invalidità permanente:
come la situazione è già grandemente migliorata con il mutamento di mansioni operato in corso di causa, così essa può
del tutto risolversi in tempi brevi. In ogni caso non pare discutibile la netta affermazione del Ctu circa l'attuale
inesistenza nella ricorrente di qualsiasi patologia psicologica.
In conclusione,
fanno carico alla società convenuta il danno professionale - che si ritiene equo determinare nel 40% della
retribuzione - e biologico temporaneo (secondo i parametri posti dal Tribunale
di Milano), compreso il danno morale da ricollegarsi alla violazione dell'ari. 2087 c.c., nonché quello da spese vive per
cure, liquidati come in dispositivo. Le spese di lite, che tengono conto
della complessità della causa, e quelle di Ctu fanno carico alla convenuta
soccombente. (...)
(pubblicata in Riv. crit. dir. lav. 3/2002, p. 635)
NOTA (di Mario Meucci)
"Danni alla salute e ricorrenti vizi delle perizie dei CTU sanitari"
1. La decisione - una delle molte che ci hanno evidenziato una ricorrente "strategia" delle difese aziendali, in caso di demansionamento o vessazioni - ci offre l'opportunità di effettuare talune considerazioni.
Secondo una prassi "scostumata", le difese aziendali sono solite stravolgere la realtà degli accadimenti (con grande dolore e sofferenza addizionale al vissuto lavorativo da parte del vessato), riversando sulla vittima del demansionamento, del mobbing e delle vessazioni tutta la responsabilità degli eventi, in modo da prospettare al magistrato una situazione aziendale "virginale" o da "educanda", perfettamente corretta nei comportamenti che, guarda caso, hanno determinato danni alla salute (oltreché professionali) non sempre transitori ma permanentemente invalidanti.
In questa strategia viene coinvolta la competenza tecnica dei CT di parte o addirittura d'ufficio, ai quali chi scrive rimprovera pubblicamente il "vezzo" di scusare, in un certo qual modo, il comportamento illegittimo aziendale, ricostruendo (come se fosse scientificamente possibile!) la storia premorbosa della vittima e riscontrandovi "tratti" di personalità suscettibili di per se di spiegare il danno con una supposta predisposizione genetica.
Il magistrato - peritus peritorum - deve fare molta attenzione a non farsi impantanare in questi sentieri pseudoscientifici, che a null'altro conducono se non alla formulazione ex post di opinioni sanitarie di nessuna valenza probatoria in quanto carenti di scientificità, affondanti spesso nell desiderio di attenuare le responsabilità dell'azienda (dando un "colpo al cerchio ed uno alla botte"!) e talaltra nella pavidità di certi CTU sanitari (con funzioni di supporto alle tesi aziendali, nel caso di Ct di parte), come abbiamo avuto di riscontrare per diffusa lettura di numerosissime relazioni peritali ed anche a livello personale. Fortunatamente questi tentativi in diverse occasioni non sono andati in porto, per acutezza e circospezione del giudicante che è stato capace di dare la giusta valenza a prospettazioni insidiose ed artificiose, individuatrici nei periziati di tratti personologici congeniti, stereotipati nei sostantivi della "rigidità", "narcisismo", "ossessività" e similari.
Sottolineiamo come questo "vezzo" sia pressochè una costante degli psichiatri della vecchia scuola [(influenzata dalle tesi di Field (1996) e Zapf (1999) che focalizzarono l’ attenzione sulla personalità “premorbosa” delle vittime)] superata dalle impostazioni della nuova scuola – rivalutante gli studi di Leymann del 1996 – facente capo a R. Gilioli (2000) e Hirigoyen (2000), la quale sottolinea come gli aspetti “premorbosi” possedevano piuttosto il comodo ruolo di “giustificazioni retroattive” di tratti della personalità non tanto preesistenti quanto indotti dal mobbing, quali effetti, quindi conseguenti ad esso e non ad esso antecedenti (come aveva già precedentemente asserito lo stesso Leymann).
Ad
ogni buon conto anche seguendo questa risalente e superata impostazione, va
rilevato come la magistratura si
sia sempre mostrata molto attenta
nel dare il giusto peso alle
valutazioni (rectius, opinioni) soggettive dei CTU, innestandole in una
considerazione più globale del caso
concreto. Addirittura in una sentenza della Pretura di Roma risalente al 3
ottobre 1991 (est. Filabozzi, Dall’Ara c. CIT, in Riv. crit. dir. lav.
1992, 390) – occasionata da un demansionamento pluriennale - il
magistrato, correttamente ed incisivamente, così si esprimeva: «[…]
“E’ vero che il disturbo… da cui è affetto il ricorrente si è
strutturato su una personalità di tipo rigido e ossessivo come si legge
nella relazione del CTU e in quella dello specialista…; ma non è vero che
tale malattia si sarebbe sviluppata in qualsiasi altro ambiente di lavoro e con
qualunque altro datore di lavoro, giacché certamente essa non si sarebbe
manifestata ove il soggetto non fosse stato sottoposto a stress così intensi e
prolungati nel tempo, come quelli derivanti dalla dequalificazione
professionale e non si fosse quindi verificato uno ‘stimolo emozionale
cronico a elevato contenuto stressante, con azione psicodestrutturante e
influenzante il substrato biologico’…”.”[…] Quanto al rapporto di
causalità e alla prevedibilità
del danno (alla salute, n.d.r.) è sufficiente ricordare che il
nesso di conseguenzialità sussiste anche se vi sono le concause naturali e
che, in particolare, in tema di lesioni personali, il danno iscrivibile
comprende anche quelle conseguenze che il fatto lesivo ha prodotto in ragione
delle preesistenti condizioni di salute del soggetto; deve inoltre ritenersi
che, nella specie, sussiste anche la prevedibilità del danno, essendo notorio
che uno stato di totale emarginazione provoca crisi soggettive e stati
depressivi e che questi, a loro volta, possono provocare, specie se prolungati
nel tempo, rilevanti danni alla psiche del soggetto». Ed ancora,
successivamente, il Tribunale di Milano ha stabilito: «...l’aver
la condotta vessatoria insistito su una ‘preesistente struttura di personalità
della ricorrente, incapace di elaborare esperienze stressanti’, non rileva ai
fini dell’esclusione di responsabilità risarcitoria giacché ...è
proprio su soggetti psicologicamente meno attrezzati e più fragili che possono
prodursi gli effetti deleteri di comportamenti illeciti, gli altri riuscendo a
reagire non solo facendo scivolare sulla loro pelle gli effetti della condotta..»
soggiungendo inoltre che «rientra nei limiti della prevedibilità – ex art. 1225 – il fatto
che dall'omesso intervento societario a tutela della persona della ricorrente le
potesse derivare un danno alla salute cui
consegue, pertanto, una correlativa responsabilità contrattuale aziendale» (Trib
Milano 21.4.1998, in Riv. crit. dir. lav.
1998, 957).
Ed
ancora nello stesso senso, in un altro caso di mobbing attuato tramite
demansionamento, il magistrato ha così affermato: «[…] A
ciò aggiungasi che se anche si volesse ammettere per ipotesi che, come vittima
dell’altrui condotta ingiusta, la lavoratrice ha reagito in modo del tutto
singolare ed estremo, e cioè con profondo turbamento, così profondo da
generare in lei l’insorgenza di una sindrome depressiva reattiva, ciò però
è cosa che non modifica né la realtà della prevaricazione né la posizione
nella ricorrente di persona offesa da essa.
La
Carta Costituzionale, nel suo art. 32, e la legge ordinaria, nell’art. 2087
c.c., tutelano
infatti tutti indistintamente i cittadini, siano essi forti e capaci di
resistere alle prevaricazioni o siano viceversa più deboli e quindi destinati
anzitempo a soccombere»
[Trib.
Torino, sez. lav. 1° grado,
30 dicembre 1999
- est. Ciocchetti – Stomeo c. Ziliani S.p.A; conf. Trib. Torino
- 1 grado – 16 novembre 2001 – in Lav. prev. oggi
2000, 1, 154 ed ivi specificatamente a
p. 161].
Nell'odierna
decisione resa da Trib. Milano 6 giugno 2002, il giudice Frattin molto
acutamente ha dribblato la "trappola" pseudoscientifica dei Ct di
parte, affermando, con dissenso, come: «Tutt'altra cosa è pretendere di ricollegare causalmente la
grave frustrazione e la conseguente psicopatologia alla storia psicologica
remota della ricorrente, ai suoi problemi
infantili non risolti e così via: a questa stregua - andando cioè alla caccia dei problemi psicologici prossimi o
remoti di ciascuno di noi, chiamando narcisismo il giusto bisogno di ricavare
soddisfazione dal lavoro - di
nessuna patologia psicologica
potrebbe mai affermarsi l'eziologia professionale, cadendo sempre ogni fatto
professionale su un terreno che ha una storia fatta necessariamente, per la
condizione umana, anche di sofferenze e problemi».
2.Infine per
documentare la perniciosità del mobbing dal lato dei danni alla salute –
ampiamente svalutati dalle difese aziendali, interessate a sollevare da
responsabilità i gestori e responsabili societari - ritengo utile per i
mobbizzati e per i giuristi riportare, in
questa sede le considerazioni sviluppate da due psichiatri
dell’Università di Pisa (nell’appendice psichiatrica al saggio giuridico di
Fausto Nistico, Mob. Mobber, Mobbing, in corso di pubblicazione sulla
rivista “Informazione previdenziale” dell’Inps ed nel sito clik.to/dirittolavoro,
al link www.pegacity.it/justice/impegno/saggio_nistico.pdf).
Secondo i due psichiatri:
«Il mobber, come emerge dagli studi del Manuale Statistico e
Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM-IV, 1994), si distingue per uno spiccato
egocentrismo, un’immagine di sé come persona unica, potente, che ritiene che
tutto gli sia dovuto; in particolare si evidenzia un’ammirazione
incondizionata per se e una tendenza a stabilire con gli altri un rapporto
esclusivamente utilitaristico, risultando perciò totalmente privo di capacità
empatica. In un rapporto di lavoro, per questo genere di persona, qualunque cosa
succeda è sempre colpa dell’altro, talvolta con spunti paranoicali per cui
esisterebbe nella vittima una volontà di nuocere e non viceversa [...].
Il
mobbizzato è un uomo responsabile, motivato a ben fare, ordinato, scrupoloso,
sensibile tanto ai riconoscimenti quanto alle critiche, con uno spiccato senso
di giustizia morale e integra, indole mite, elevato senso del dovere e desiderio
di raggiungere gli obiettivi lavorativi prepostisi; in poche parole sono i
migliori nel loro campo: i “primi della classe”. Sono coloro che i superiori
di un’azienda notano più facilmente, ma sono anche quelli che più spesso
infastidiscono i diretti superiori ed i colleghi proprio per la loro efficienza.
Il mobbizzato può anche essere una persona che, per un motivo o per un altro,
non gode di una buona reputazione tra i colleghi, finendo per essere designata a
capro espiatorio sul quale far ricadere gli insuccessi aziendali. [...].
Gli
studi più recenti sostengono l'ipotesi che gli effetti psicopatologici del mobbing
riportati dalla vittima non siano imputabili ad eventuali particolari tratti
personologici presenti nel soggetto prima dell'instaurarsi delle problematiche
lavorative, come veniva precedentemente affermato (Field 1996; Zapf, 1999;),
negando così un ruolo rilevante del temperamento premorboso. Secondo questi ultimi studi
infatti, sono i fattori situali correlati all'azione mobbizzante ad essere
determinanti nello sviluppo dell'alterazione del benessere psico-fisico del
soggetto e non la personalità premorbosa che può eventualmente essere
modificata come esito finale dell'azione mobbizzante (Giglioli 2000,
Hirigoyen, 2000).
In
tutte le vittime di Mobbing si
riscontrano infatti ripercussioni sulla salute psicofisica che si manifestano
con lo sviluppo di numerosi sintomi. Questi ultimi sembrano però derivare
sostanzialmente da tre ordini di cambiamento che sono individuabili in tutti i
soggetti (Ege, 1998):
1) Variabilità Equilibrio
Socio-Emotivo: il tono dell’umore evidenzia un alternanza di reazioni
depressive a reazioni di rabbia, ansia, pianto, ossessività ideativa che
continua a ripercorrere gli aspetti salienti di quanto accade quotidianamente,
episodi critici d'ansia nell’affrontare il quotidiano, disinteresse per ogni
aspetto familiare e sociale. Alla reattività iniziale, il soggetto, in seguito,
sostituisce anestesia reattiva, aggressività non agita, talvolta auto-diretta.
2) Variabilità Equilibrio
Psico-fisico: spesso è presente una somatizzazione del malessere
interiore che si estrinseca con tachicardia, cefalea, nausea, vomito, ulcera e
gastrite, ipertensione, aritmie, etc.
3) Variabilità Comportamento
Manifesto: in eccesso o in difetto per ciò che riguarda il
comportamento alimentare, il potus, l’attività sessuale, l’abuso di
sostanze e la tendenza alla passività o alla attività.
I soggetti perciò, sviluppano
frequentemente una sintomatologia ansiosa fino ad arrivare ad attacchi di panico
ripetuti, con condotte di evitamento. Spesso tale quadro è
accompagnato da flessione timica, fino ad episodi depressivi maggiori che,
in una percentuale di certo non irrilevante, può portare lo stesso verso
condotte autolesive fino all’ideazione strutturata di suicidio (Ege, 1998).
I prodromi sono frequentemente inabilitanti, e
spesso anticipano ma soprattutto accentuano la malattia, tra questi ricordiamo
una importante alterazione del ritmo sonno-veglia con frequenti incubi, perdita
della libido, astenia e facile faticabilità fino alla Sindrome della Fatica
Cronica. I soggetti di solito, quale che sia il loro temperamento, sono
accomunati da facile irritabilità.
Oggi, gli
autori concordano nell'affermare che l'insieme della sintomatologia riferita dai
soggetti, in riferimento al DSM IV, identifichi un quadro psicopatologico che
risponde ai criteri dei Disturbi d'Ansia (Cassitto, 2001). I quadri rilevati non
discostano da quanto è possibile riscontrare in soggetti che, per problematiche
psicoaffettive o per traumi fisici o emozionali, avessero risentito delle
situazioni di vita e reagito con disturbi riconducibili alle patologie della
sfera ansiosa. I dati della letteratura discordano su quale particolare Disturbo
d'Ansia possa essere individuato (Cassitto, 2001), e se il Mobbing sia
inquadrabile come Disturbo dell'Adattamento (DDA), Disturbo post-traumatico da
stress (DPTS) o Disturbo Acuto da Stress (DA): i ricercatori della Clinica del
Lavoro di Milano lo inquadrano come Disturbo dell’Adattamento collocando il
D.P.T.S al secondo posto per frequenza di diagnosi (Gilioli, 2000); al contrario
i ricercatori del Centro di Osservazione di Napoli sottolineano come i casi
analizzati siano prevalentemente "inquadrabili" come D.P.T.S,
nonostante nelle prime fasi del disturbo, sia possibile parlare di Disturbo
Acuto da Stress considerandolo come il possibile esordio del D.P.T.S . La
persistenza del fattore mobbizzante
determina la progressione del quadro da Disturbo acuto da Stress a DPTS con
perdita dei potenziali caratteri di reversibilità a favore di una
cronicizzazione (Gilioli e coll, 2001).
Dalle
nostra esperienza e dal campione raccolto abbiamo potuto osservare come Il mobbing, pur soddisfacendo tutti questi criteri, si differenzi dal
D.P.T.S per le caratteristiche dell’evento traumatico, non unico, grave, con
minaccia di morte o all’integrità fisica, ma reiterato, meno grave e comunque
non a rischio vita di chi lo subisce. Elemento cardine di questo fenomeno
risulta il luogo dove la violenza psicologica viene perpetrata: il luogo di
lavoro.
Nell'
esperienza in corso presso la Clinica Psichiatrica dell'Università di Pisa, in
accordo con i dati più recenti, questa violenza morale porta ad un improvviso e
inspiegabile cambiamento nei rapporti interpersonali del soggetto con isolamento
ed esclusione (Cassitto, 2001); in tutti i soggetti si individua una
modificazione personologica che inizia con una fase dell’inintelligibilità
e del disconoscimento con autocolpevolizzazione (“la colpa è mia che mi
sento perseguitato”), seguita - in conseguenza del crescendo, verbale o
scritto, di sanzioni, di trasferimento in situazioni di lavoro disagiate, di
critiche e vessazioni - dalla seconda fase (Cassitto, 2001): la fase
dell’autocritica e auto svalutazione (“non sono all’altezza della
situazione”). L’ambiente si coalizza, i colleghi si allontanano, il soggetto
è sfuggito e additato, viene isolato e estromesso da quelli che un tempo erano
amici. La situazione di incomprensibilità, imprevedibilità e sfiducia si
moltiplica nella persona del mobbizzato ma fuoriesce da lui esteriorizzando
nella famiglia, nel sociale, negli
affetti e in generale, nell’ambiente extralavorativo: fase della sfiducia
(Cassitto, 2001).
Il
peggioramento della condizione di lavoro porta alla incapacità da parte del
soggetto, di comprendere cosa aspettarsi dagli altri e cosa
gli altri si aspettino da lui, non solo in ambito lavorativo, ma sociale,
familiare: fase della perdita dei ruoli (Cassitto, 2001). Il soggetto si
isola, non frequenta più nessuno, si estranea, è la fase della perdita
della persona sociale (Cassitto, 2001). L’individuo attivo, professionista
capace, inserito in un suo ambiente lavorativo e sociale, diviene essere passivo
e intollerante, incapace di relazionarsi anche con gli affetti fino ad una
totale anaffettività. Il pericolo, per fortuna non frequente, è la
acquisizione di una nuova identità, cioè l’identità dell’invalido con
tutte le conseguenze economiche, familiari e sociali.
L'esperienza
della nostra clinica e i dati emersi dalla letteratura ci impongono una
riflessione su quello che è il risultato finale di questa violenza psicologica:
in tutti i soggetti è sempre presente un danno psichico (Cassitto, 2001);
questi soggetti rimangono persone con una riduzione della fiducia in loro
stessi, considerano il mondo meno affidabile e prevedibile in cui chiunque,
nessuno escluso, possa prima o poi rivelarsi nemico. Dall’analisi delle
trasformazioni invisibili che si realizzano nel mobbizzato ci spieghiamo perché
questi disturbi debbano necessariamente essere considerati come disturbi
peculiari e indipendenti. La violenza psicologica lavorativa è vissuta dalle
vittime come un vero e proprio trauma, i cui sintomi sono sovrapponibili a
quelli dei sopravvissuti a disastri aerei o tragedie della portata di catastrofi.
Perciò
proprio perché il mobbing svolge
un'azione di progressivo impoverimento psico-fisico del singolo, finendo per
essere considerato un trauma in grado di determinare un disturbo d’Ansia o
dell’Umore, è importante sottolineare il ruolo della Medicina per
diagnosticare tale deterioramento al fine di trattarlo come un qualsiasi altro
disturbo psichiatrico».
Roma 1 gennaio 2003
Mario Meucci
(Ritorna
alla Sezione Mobbing)