Concertazione e dialogo sociale:
differenze non trascurabili
1.
E’ noto che il nuovo
governo di centro/destra – raccogliendo le indicazioni del “libro bianco” - si è ripromesso di sostituire al
precedente sistema di relazioni sindacali sulle tematiche di ordine nazionale
(non già di settore o categoria) strutturato dalla collaudata tecnica della
“concertazione”, sfociante in accordi triangolari (governo- parti sociali
sindacali – rappresentanze imprenditoriali) quello del “dialogo sociale”,
mutuato dal prototipo delineato a
livello comunitario, senza da un lato porsi il problema della compatibilità
pratica di una simile sostituzione con una prassi consolidata di concertazione
interna né di attendere di vedere se le risultanze del modello comunitario
fossero soddisfacenti o meno. E c’è da dire che l’ipotizzato intendimento di
sostituzione ha incontrato favori da parte di taluno (che, a nostro modesto
avviso, non sta con i piedi per terra) che ha ritenuto e crede che questa nuova tecnica comporti «un’enorme
sviluppo della capacità normativa dei sindacati, che laddove siano in grado di
costruire soluzioni condivise con le rispettive controparti, possono
beneficiare dell’impegno politico del governo (in qualche modo neutrale nella
trattativa) alla traduzione legislativa dell’intesa raggiunta».
E’ bene che si faccia chiarezza sul punto perché si rischia
di ingenerare aspettative non rispondenti alla realtà.
Il modello del “dialogo sociale” viene inserito dal Trattato istitutivo CE (stipulato in Roma il 25.3.1957 quale
modificato dal Trattato di Amsterdam del 2.10.1997) al tit. XI (artt. da 136 a
140), nell’art. 136 come obiettivo
da traguardare accanto a quelli «della promozione dell’occupazione,
il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro…, una protezione sociale
adeguata, … lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello di
occupazione elevato e duraturo e la lotta contro l’emarginazione». «A
tal fine, la Comunità e gli Stati membri mettono in atto misure che tengono
conto della diversità delle prassi nazionali, in particolare nelle relazioni
contrattuali, e della necessità di mantenere la competitività dell’economia
della Comunità». Sempre allo stesso fine, l’art. 136 precisa che «il
Consiglio CE può adottare mediante direttive le prescrizioni minime applicabili
progressivamente, tenendo conto delle condizioni e delle normative esistenti in
ciascuno stato membro». «Le disposizioni adottate a norma del presente
articolo non ostano a che uno Stato membro mantenga e stabilisca misure compatibili
con il presente trattato, che prevedano una maggiore protezione».
All’art. 138 e 139
viene delineato il metodo del “dialogo sociale” nel “settore della politica
sociale”, spiegando come la Commissione
CE - prima di presentare proposte
- «ha il compito di promuovere la
consultazione delle parti sociali a livello comunitario e prende ogni misura
utile per facilitarne il dialogo provvedendo ad un sostegno equilibrato delle
parti». «Se dopo tale consultazione, ritiene opportuna un’azione comunitaria,
la Commissione consulta le parti sociali sul contenuto della proposta
prevista…le quali trasmettono alla Commissione un parere, o se opportuno, una
raccomandazione»; «..le parti sociali possono anche informare la Commissione
della loro volontà di avviare un processo di dialogo che può condurre, se
queste lo desiderano, a relazioni contrattuali, ivi compresi accordi». «La
durata della procedura non supera i nove mesi, salvo proroga decisa in comune dalle parti sociali interessate
e dalla Commissione»; «… gli accordi conclusi a livello comunitario sono
attuati… in base ad una decisione del Consiglio su proposta della Commissione»,
con deliberazione a maggioranza qualificata.
Certamente
il Consiglio non ha una funzione
notarile di trasposizione in normativa degli accordi intercorsi tra le parti
sociali – né se lo ripropone il nostro governo di centro/destra nelle relazioni sindacali (come qualche pseudo-ingenuo ipotizza) - ma, sebbene
non lo si dica espressamente nel Trattato, qualora gli accordi tra le
parti sociali non siano approvati, il
Consiglio procede mandando avanti la propria proposta. Quindi l’Esecutivo CE non si auto-marginalizza in
un nessun ruolo neutro (o quasi).
2. Nella prassi
della concertazione quale attuatasi nel ns. Paese, il governo svolgeva un’
attività di mediazione e svolgeva un ruolo di attore sapiente – unitamente alle
parti sociali – nella realizzazione di intese tripartite. Le parti sociali
avevano un ruolo negoziale e non si limitavano a indirizzare nei confronti della
proposta governativa “pareri” o “raccomandazioni”, che potevano essere tenuti o
meno in considerazione nè, decorsi determinati tempi, prendeva corpo la
decisione iniziale del governo. Giacchè quest’ultimo è il modello del “dialogo
sociale” che sembra mutuato dalle normative contrattuali del settore
creditizio, laddove si dice che prima
di adottare determinate decisioni a livello aziendale, la direzione della banca
provvederà ad informare gli organismi sindacali, ne riceverà le osservazioni, e
decorsi 15, 25 o più giorni porrà in
esecuzione le proprie determinazioni.
Il dialogo sociale porta con se il mero obbligo della
notifica delle determinazioni governative (o aziendali) ma lascia al governo (e
contrattualmente all’azienda) – dopo un certo tempo necessario al vaglio da
parte sindacale degli effetti o ricadute delle proposte – la discrezionalità di
trasformare in atti legislativi (o decisioni aziendali) le determinazioni
iniziali.
Sconcerta che qualcuno preferisca alla
“concertazione-negoziazione” questo ruolo marginalizzato per le OO.SS. dalla
tecnica sostitutiva del c.d. “dialogo sociale”. Ed il libro bianco
scopertamente rifiuta la “concertazione” sulla base delle valutazioni che di
seguito riferiamo: «..nei fatti la concertazione ha svolto compiti di
governo ben al di là degli obiettivi di sviluppare un corretto rapporto tra le
parti. Il processo avviato nel 1992 dal 1° Governo Amato è stato
progressivamente snaturato e portato a ribaltare la logica culturale che
l’aveva innestato. Quando da parte dei diversi governi che si sono succeduti,
vi è stato un uso eccessivo della concertazione, intesa come sede consultiva e
di legittimazione politica in merito ad iniziative che, in linea di principio,
erano spesso di esclusiva competenza del Governo si è determinato un uso
distorto e viziato della concertazione stessa. Rispetto ad alcune esperienze
generalmente ritenute positive, in particolare il caso olandese, è peraltro da
rilevare come il potere di iniziativa – di fissazione dell’agenda e delle
principali linee di azione – da parte dei governi sia stato in Italia,
piuttosto limitato, in buona parte a causa dell’eccessiva debolezza politica di
quei governi». «E’ del tutto evidente l’impossibilità del modello
concertativo degli anni 90, di affrontare la nuova dimensione dei problemi
economici e sociali»; «…raggiunti gli obiettivi dell’abbassamento
dell’inflazione e dell’ingresso nell’Euro (e sembra poco, sic!), i suoi
limiti sono subito apparsi evidenti»; «…un completamento organico delle
riforme in tema di mercato del lavoro e del welfare non può prescindere dall’iniziativa
e dalla capacità decisionale del Governo». «Il passaggio dalla politica
dei redditi ad una politica per la competitività impone l’adozione di una nuova
metodologia di confronto, basata su accordi specifici, rigorosamente monitorati
nella loro fase implementativi, restando meglio precisata la distinzione delle
reciproche responsabilità tra Governo e parti sociali», da raggiungere
secondo il modello della sottoposizione delle determinazioni governative
alle parti sociali in quel sistema
riduttivo che è “il dialogo sociale”. Per illustrane le limitazioni, il libro
bianco si premura di precisare che: “Naturalmente
l’adozione di tale metodologia, assai rispettosa delle reciproche competenze ed
attribuzioni, senza alcuna confusione di ruoli (è bene, infatti, che si
tenga a mente chi dirige il gioco!, n.d.r.), non può compromettere la
rapidità del procedimento decisionale. In caso di disaccordo tra gli stessi
attori sociali sarà necessario..ricorrere alla regola della maggioranza, senza
pretendere unanimismi che pregiudicherebbero il buon funzionamento dello stesso
dialogo sociale».
Riassumendo: i governi deboli negoziano o concertano, il
governo forte assume iniziative e
predetermina quanto si ripropone, lo
rassegna o comunica alle parti sociali (c.d. “dialogo sociale”), dà loro un termine
breve per discuterne all’interno, poi – che non raggiungano intese o che le
raggiungano – il governo ne valuterà la compatibilità con quanto già
predefinito ab initio e solo nel caso in cui rispondano ai propri desiderata
e collimino con i propri propositi (il che avverrà grazie al fatto che
quantomeno la rappresentanza imprenditoriale è appiattita sulle posizioni
governative o viceversa e taluni sindacati sono “morbidosi”) ne terrà conto,
altrimenti darà corso alle proprie pre–determinazioni. Abbiamo letto in un
quotidiano sindacale (FD, Milano Finanza del 5 luglio 2002, p. 3, in un
articolo titolato “Siamo già al nuovo dialogo sociale”) che: «la struttura
dei rapporti si sta evolvendo (evolvendo, avete letto bene!) verso
il modello pensato da Marco Biagi». Evviva, era l’ora! Ma, se ben
ricordiamo, a fine giugno ed i primi di luglio il sole ha picchiato forte.
3. Ancora un’esigenza di puntualizzazione: si
dice a me che sono critico sulla nuova normativa dei contratti a termine
(dilatati a dismisura dal d. lgs. n.368/2001 che li consente alla sola
condizione che rispondano a “ragioni di carattere tecnico, produttivo,
organizzativo o sostitutivo”, non più alle limitate tassative causali della
l. n. 230/62) che una volta inseriti nella CE
se ne debbono accettare tutte le conseguenze, e quindi anche le normative peggiorative che dall’appartenenza
discendono.
Un
momento: quest’obbligo di “regressione” non sta scritto da nessuna parte. Anzi
come abbiamo messo in evidenza all’inizio del presente articolo la normativa
istitutiva della UE non dispone affatto
in tal senso e chiarisce, all’opposto, che essa determina “condizioni minimali” di tutela, non precludendo
allo Stato membro condizioni preesistenti (o successive) di maggior tutela contrattuale o sociale (cfr.
art. 136 innanzi riferito). Nel caso poi della nuova (e peggiorativa, per i
lavoratori) normativa del contratto a termine – non a caso non firmata da una
delle OO.SS. - esisteva nella direttiva
comunitaria 1999/70/CE un’apposita norma (clausola 8, punto 3) di
“salvaguardia” o di “non regresso” che stabiliva: «l'applicazione del presente accordo non costituisce un motivo
valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori
nell'ambito coperto dall'accordo stesso». Ma il governo ha tirato dritto,
con la sua maggioranza e con i suoi dottrinari servizievoli inneggianti alla
“liberazione da lacci e laccioli”, nell’ottica dell’infoltimento delle nuove
forme di flessibilità in entrata, suscettibili di sconfinare nel precariato e
di renderlo prevalente sulle forme di impiego stabile.
Ritornando all’ asserita inesistenza dell’obbligo
incondizionato di sottoposizione
“automatica” a normative comunitarie “regressive”, va detto – a conforto di
quanto da noi prospettato per dissolvere una convinzione errata nell’opinione
pubblica dei non addetti ai lavori – che
il Capo 3 del Trattato CE relativo al “Ravvicinamento delle
legislazioni” facoltizza agli artt.
94 e 95 direttive e misure «relative
al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed
amministrative degli Stati membri» sia che abbiano un’incidenza diretta “sull’instaurazione
o sul funzionamento del mercato comune” sia “sulla instaurazione e
funzionamento del mercato interno”, espressamente disponendo, però, che
le procedure di ravvicinamento «non si applicano alle disposizioni
fiscali, a quelle relative alla libera circolazione delle persone e a quelle
relative ai diritti ed interessi dei lavoratori dipendenti».
Ciò detto per quanto concerne la nostra materia,
successivamente - al comma 4 dell’art. 95 - si dispone addirittura, in linea
generale, che: «allorché dopo l’adozione …di una misura di armonizzazione,
uno Stato membro ritenga necessario mantenere disposizioni nazionali
giustificate da esigenze importanti…, esso notifica tali disposizioni alla
Commissione precisando i motivi del mantenimento delle stesse», e la
Commissione ed il Consiglio valutano successivamente la fondatezza della deroga
ed il rilascio delle autorizzazioni relative. Come si vede, a livello
europeo, si riscontra molto equilibrio
e molto rispetto per le esigenze nazionali, che non postula nessuna automatica
esigenza di “appecoronamento”.
Roma, 21 luglio 2002
Mario Meucci
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