Attuazione di direttive comunitarie ed impatto sui diritti dei lavoratori
L’ingresso in Europa del nostro Paese è coinciso con un arretramento nei diritti detenuti in precedenza dai lavoratori, giustificato con l’ ineluttabile esigenza dell’omogeneizzazione dei trattamenti, nonostante la possibilità giuridica degli stati nazionali di attivare la cd. “clausola di non regresso” relativamente a condizioni di protezione più favorevoli per i lavoratori sancite nel diritto interno. L’articolo evidenzia talune fattispecie vecchie e nuove.
1.
Il ricorso
inflazionato ai contratti a termine (ex d. lgs. n. 368/2001, attuativo della direttiva 1999/70/CE)
E’ ormai un fatto notorio – considerato purtroppo tanto scontato quanto molto spesso sottovalutato nei suoi effetti di regressione rispetto a conquiste giuridiche del nostro diritto del lavoro tradizionale in via di sfarinamento o di frantumazione – che a seguito dell’emanazione del d.lgs. n. 368 del 6 settembre 2001, predisposto (notoriamente con l’avallo di due sole delle tre Confederazioni sindacali storiche) ed approvato in applicazione della direttiva Comunitaria 1999/70/CE, la vecchia legge n. 230 del 1962 sul contratto a tempo determinato che disponeva una casistica di ipotesi legittimanti la stipulazione dei contratti a termine (quale alternativa residuale al contratto di lavoro a tempo indeterminato), è stata abrogata, cioè a dire soppressa.
Ora –
all’insegna dello “scordatevi del posto fisso” - il rapporto di lavoro a termine sopravanza (piuttosto che affiancare) in sede di nuove assunzioni il rapporto di
lavoro a tempo indeterminato. Anche perché oltre a consentire un recesso alla
scadenza del termine, il contratto a tempo determinato viene (e sempre più,
verrà) comodamente utilizzato come prolungato “periodo di prova” indiretto, ai
fini della scrematura o individuazione degli eventuali lavoratori destinatari
per “affidabilità” (in senso lato e
discrezionale) dell’eventuale rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Abolite
le causali in esclusiva legittimanti il ricorso al contratto a termine, il
decreto legislativo n. 368/2001 dispone – con formula amplissima, conferitrice
di una assoluta discrezionalità all’azienda per attivarlo – che il contratto a
tempo determinato potrà essere stipulato , quando ricorrono “ ragioni di
carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” (art. 1). In
buona sostanza, praticamente sempre, quando all’azienda aggrada e/o quando
riesce (agevolmente, com’è consuetudine) a giustificarlo con una delle esigenze
(dagli ampi e non circoscritti
contorni) sopra riferite ed indicate con formula onnicomprensiva. Gli unici
divieti di ricorso introdotto – come eccezione
– dal precitato d. lgs. n. 368/01 per la stipulazione di un contratto a
termine sono i seguenti: a) per la sostituzione di lavoratori in sciopero; b)
nelle unità produttive in cui nei 6
mesi precedenti si sia dato corso a riduzioni di personale ex lege
223/91 (a meno che i ccnl non lo consentano anche in tale ipotesi); c) nelle
unità produttive in cui sia in corso una sospensione dei rapporti o una
riduzione dell’orario (per effetto ad es. di
ricorso a contratti di solidarietà); d) da parte di aziende
sostanzialmente non in regola con la legislazione sulla sicurezza sul lavoro di
cui al d. lgs. n. 626/94.
L’esigenza
di allineamento alla (deteriore) legislazione europea ha prodotto, per i nostri
giovani, questa prima forma di arretramento nei diritti del lavoro – in veste
di precarietà, saltuarietà ed
intermittenza del rapporto di lavoro, cui – come di seguito evidenzieremo
– altre ne seguono di non minore significatività, introdotte da una
legislazione nazionale ispirata dall’esigenza della flessibilità ed
indifferente a quella della “stabilità” e “certezza” delle tipologie di
rapporto di lavoro, notoriamente fonte (pressoché unica) del reddito per il
proprio sostentamento, la formazione di una famiglia, l’acquisto di una casa
per il nucleo familiare, l’accensione di un mutuo bancario, ecc. In sostanza si
tratta di un arretramento grave nei presupposti per una vita civile e
dignitosa.
Già in altra sede abbiamo detto - e qui lo ripetiamo perché resti fisso nelle menti facilmente influenzabili da slogans o spots mediatici - che l’obbligo di allineamento in senso regressivo per i diritti dei lavoratori non è affatto ineluttabile in conseguenza dell’entrata in Europa, giacchè il Trattato istitutivo CE (stipulato in Roma il 25.3.1957 quale modificato dal Trattato di Amsterdam del 2.10.1997) al tit. XI (artt. da 136 a 140), nell’art. 136 pone come obiettivi da traguardare quelli «...della promozione dell’occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che consenta la loro parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello di occupazione elevato e duraturo e la lotta contro l’emarginazione». «A tal fine, la Comunità e gli Stati membri mettono in atto misure che tengono conto della diversità delle prassi nazionali, in particolare nelle relazioni contrattuali, e della necessità di mantenere la competitività dell’economia della Comunità».«Essi ritengono che una tale evoluzione risulterà sia dal funzionamento del mercato comune, che favorirà l'armonizzarsi dei sistemi sociali, sia dalle procedure previste dal presente trattato e dal ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari, amministrative». Sempre allo stesso fine, l’art. 137 (nei suoi vari commi) precisa che: «Per conseguire gli obiettivi previsti nell'art. 136, la Comunità sostiene e completa l'azione degli stati membri nei seguenti settori... (omissis) . A tal fine il Consiglio CE può adottare... mediante direttive, le prescrizioni minime applicabili progressivamente, tenendo conto delle condizioni e delle normative tecniche esistenti in ciascuno stato membro». «Le disposizioni adottate a norma del presente articolo:
- non compromettono la facoltà riconosciuta agli Stati membri di definire i principi fondamentali del loro sistema di sicurezza sociale e non devono incidere sensibilmente sull'equilibrio finanziario dello stesso,
-
non ostano a che uno
Stato membro mantenga e stabilisca misure compatibili con il presente trattato,
che prevedano una maggiore protezione».
Senza
svalutare l’esigenza di una omogeneizzazione tendenziale, è chiaro che la
voglia e lo stimolo ad avvalersi della prerogativa “di conservazione delle
condizioni di miglior favore” per la tutela dei lavoratori non rientra affatto negli intenti né dell’attuale
compagine governativa né delle
associazioni datoriali che hanno (congiuntamente all’esecutivo) la convenienza
acchè i diritti dei lavoratori perdano il preesistente “superiore” grado di
protezione nazionale per uno scadimento finalizzato ed utile ad una gestione
più agevole, ma anche meno rispettosa dei diritti di dignità, del fattore
lavoro.
2.
Via libera alla somministrazione di manodopera (ex.
L. n. 30/2003 di riforma del mercato del lavoro e schema di d. lgs. attuativo
del 6 giugno 2003)
Con
quest’obbiettivo di scadimento o sfaldamento dei diritti e delle tutele del
fattore lavoro (per lo meno di quello tradizionale) si è mossa – a nostro
avviso - la cd. “legge Biagi” (n. 30
del 14 febbraio 2003: legge delega di
riforma del mercato del lavoro) quando – tra le altre cose – ha stabilito all’art. 1, lett. l) “l’abrogazione
della legge 23 ottobre 1960, n. 1369” cioè il venir meno della legge
vietante la somministrazione e l’ appalto di mere prestazioni di lavoro
(sancito a suo tempo avvedutamente in omaggio al principio di civiltà giuridica
per cui desta ripulsa che il
“lavoratore sia considerato come una merce”) ed ha introdotto nell’ordinamento
la possibilità che determinate agenzie, enti e soggetti possano effettuare “somministrazione
di manodopera” per “esigenze tecniche, organizzative o produttive”
dell’impresa utilizzatrice, ridefinendo altresì gli istituti (qualificati
“casi”) di “distacco e comando”
di personale.
In tal
modo si è privato il lavoratore del fondamentale diritto alla certezza del
datore di lavoro proprio referente, si è sancita la regola della dissociazione
fra impresa utilizzatrice delle prestazioni e agenzia, associazione o ente
bilaterale (cui si è in organico, da cui si ottiene la retribuzione ed al cui
potere disciplinare si soggiace) somministratori di manodopera. Si è data per
scontata – ed affermata giuridicamente – l’irrilevanza per il lavoratore (che
deve solo preoccuparsi di mettere assieme lo stipendio al 27 del mese)
dell’azienda, impresa, datore di lavoro che tale stipendio gli consente di percepire
utilizzando la sua prestazione e la sua professionalità. Al lavoratore - glielo si è detto a chiare note - non deve interessare l’immagine, la
solidità, il prestigio, l’affidabilità dell’azienda, banca o istituzione in cui
un tempo, con oculatezza, sceglieva di lavorare; quel che conta è che l’agenzia
di somministrazione di personale (nel cui organico si trova inserito) sia
capace di destinarlo a terzi, come
forza-lavoro mercificata, ed il terzo può essere, di volta in volta, la Pirelli
spa, una banca prestigiosa, la Fiat, la Telecom, ovvero una ditta di pulizie,
una cooperativa di produzione e consumo
o un’impresa artigianale dell’indotto. Il destinatario delle sue
prestazioni – l’azienda nella quale prima si traguardava reciprocamente la cd.
fidelizzazione e del cui marchio sulla tuta
o logo nel bottone all’occhiello della giacca si andava fieri – non deve
rientrare tra gli interessi giuridici ed umani del lavoratore:
l’importante è che gli venga assicurato a fine mese dall’agenzia di somministrazione
di lavoro (il collocatore che richiama alla mente il tristo e vecchio
caporalato) lo stipendio e la contribuzione previdenziale per la maturazione di
una futura (quanto esigua se non
irrisoria) pensione. Questa forma di
somministrazione di personale (conferita ex lege ad enti locali, associazioni non riconosciute,
enti o organismi bilaterali costituiti
da associazioni di datori di lavoro e sindacati comparativamente più
rappresentativi a livello nazionale o territoriale, università ed istituti di
scuola secondaria di 2° grado, consulenti del lavoro: cfr. art. 1, lett. i) l.
n. 30/2003) viene definita con il termine anglosassone “staff leasing” e
può essere a tempo indeterminato o a tempo determinato.
Lo
schema di decreto attuativo (approvato dal C.d. Ministri il 6 giugno 2003,
sottoposto ad esame delle parti sociali e successivamente da emanarsi), al tit.
III (Somministrazione di lavoro, appalto di servizi, distacco), Capo I, art. 20
(Condizioni di liceità), punto 3, specifica che “la somministrazione di
lavoro a tempo indeterminato è ammessa esclusivamente a fronte delle seguenti
ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo:
a) per
lavori di facchinaggio e pulizia;
b) per
servizi di vigilanza e custodia;
c) per
servizi di consulenza e assistenza nel settore informatico, compresa la
progettazione e manutenzione di reti intranet e extranet, siti internet,
sistemi informatici, sviluppo di software applicativo, caricamento dati;
d) per
servizi di assistenza e cura alla persona;
e) per servizi
di ristorazione e portineria;
f) per
servizi di trasporto di persone, macchinari, merci;
g) per
la gestione di biblioteche, archivi, magazzini, nonché servizi di economato;
h) per
attività di consulenza direzionale, assistenza alla certificazione,
programmazione delle risorse, sviluppo organizzativo e cambiamento, gestione
del personale, ricerca e selezione del personale;
i) per
attività di marketing, analisi di mercato, organizzazione della funzione
commerciale;
j) per
la gestione di call-center;
k) per
costruzioni edilizie all'interno degli stabilimenti;
l) per
installazioni o smontaggio di impianti e macchinari;
m) per
tutte le attività connesse alla fase di avvio di una nuova attività nelle aree
Obiettivo 1 di cui al regolamento (CE) n. 1260/1999 del Consiglio, del 21
giugno 1999, recante disposizioni generali sui Fondi strutturali;
n) per
particolari attività produttive, con specifico riferimento all'edilizia e alla
cantieristica navale, le quali richiedano più fasi successive di lavorazione,
l'impiego di manodopera diversa per specializzazione da quella normalmente
impiegata nell'impresa;
o) in
tutti gli altri casi previsti dai contratti collettivi di lavoro nazionali o
territoriali stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro
comparativamente più rappresentative.
La
semplice lettura della casistica di attività
- anche attinenti all’ordinario “core business” aziendale, cioè
ad incombenze tradizionalmente rientranti nel ciclo produttivo dell’impresa, ma
di cui il vertice gestionale preferisce la dismissione diretta per farle
effettuare da personale esterno somministrato
– lascia comprendere come con questa legislazione si siano create le
premesse potenziali per “un’azienda senza dipendenti diretti” (la utopica
fabbrica senza operai (1) o quanto meno con il minimo possibile di organico. Il
che comporta, peraltro, tutta una serie di implicazioni di ordine gestionale,
correlate alla diversificazione contrattuale fra lavoratori operanti “fianco a
fianco” o “gomito a gomito”, al non sentirsi
i lavoratori somministrati dei
soggetti corresponsabilizzati e compartecipi delle fortune e della produttività
aziendale, e così via, oltreché tutte le addizionali difficoltà per le OO.SS. dal lato del proselitismo e
dell’esercizio dei diritti sindacali in azienda (anche se, formalmente, si
dedica ad essi l’art. 24 che in teoria li dovrebbe consentire), stante
l’eterogeneità dei contratti applicati, di non aver come referente unitario
l’azienda ma la stessa e uno o più intermediari e così via.
Per
quanto concerne la somministrazione a tempo determinato, l’art. 20, punto 4) dice che :
“La somministrazione di lavoro a
tempo determinato è ammessa a fronte di ragioni di carattere tecnico,
produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all'ordinaria
attività dell'utilizzatore. La individuazione, anche in misura non uniforme, di
limiti quantitativi di utilizzazione della somministrazione a tempo determinato
è affidata ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente
più rappresentativi in conformità alla disciplina di cui all'articolo 10 del
decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368.”
I casi
di divieto di somministrazione (sia termine sia tempo indeterminato) da impresa
fornitrice a utilizzatrice sono riconducibili alle stesse fattispecie vietate
per il contratto a termine, riferite nel par. 1 del presente scritto
(ripetitive dell’art. 1 d.lgs. n. 368/2001).
Unica
garanzia sancita dall’art. 23 dello
schema di decreto attuativo del 3 giugno 2003 – secondo le previsioni della
legge delega n. 30/2003 – consiste nel fatto che “i lavoratori dipendenti
dal somministratore hanno diritto ad un trattamento economico e normativo
complessivamente non inferiore (il
che non significa affatto che consegua dall’ applicazione dello stesso ccnl,
anzi tutt’altro!) a quello dei dipendenti di pari livello dell’utilizzatore,
a parità di mansioni volte”. Avranno altresì diritto a “fruire di tutti i servizi sociali e
assistenziali di cui godono i dipendenti dell’utilizzatore addetti alla stessa
unità produttiva, esclusi quelli il cui godimento sia condizionato alla
iscrizione ad associazioni o società cooperative o al conseguimento di una
determinata anzianità di servizio”(cfr. art. 23, punto 4). Anche qui (salva
la mensa o la distribuzione di caffè, cornetti da colazione e bevande dalla macchinette automatiche installate ai
piani aziendali) la concessione e fruizione del resto dei servizi sociali è
del tutto teorica perché molte delle attività sociali e ricreative in azienda sono affidate a “Club” o a “circoli” con propri statuti,
contemplanti l’adesione a determinate associazioni dopolavoristiche
territoriali o nazionali.
Per il
godimento di premi di risultato o di produttività a favore dei “somministrati”si rinvia ai ccnl applicati
dall’utilizzatore e alle modalità eventualmente ivi stabilite o da stabilire.
Viene
spontaneo chiedersi quali siano le convenienze – visto che in termini di costo
del lavoro, per effetto del meccanismo (complessivamente) equiparativo dei trattamenti
economici tra dipendenti diretti e dipendenti somministrati, l’onere sostenuto
dall’azienda committente si equivale o risulta addirittura superiore per il
necessario compenso da corrispondere all’agenzia di somministrazione di
personale – che determinano la scelta aziendale. Possiamo sommariamente, anche
se non esaustivamente, individuarle nei seguenti benefici:
a)
riduzione intrinseca dell’organico, liberazione dai vincoli legislativi
connessi al superamento di soglie di consistenza numerica sia ai fini delle
assunzioni obbligatorie, sia ai fini del reintegro in caso di licenziamento
ingiustificato sia ai fini della costituzione di RSA nelle unità produttive
(non a caso, nell’art. 22 dello schema di lgs. attuativo della l. n. 30, si è stabilito che nel caso di “contratto
di somministrazione a tempo determinato, il prestatore di lavoro non è
computato nell’organico dell’utilizzatore ai fini dell’applicazione di
normative di legge o di contratto collettivo, fatta eccezione per quelle
relative alla materia dell’igiene e della sicurezza sul lavoro”). Non
trovano poi applicazione – sempre ex art. 22 cit. – per le somministrazioni a tempo determinato, la disciplina in
materia di assunzioni obbligatorie e la riserva di cui all’art. 4 bis,
comma 3, del d.lgs. n. 181 del 2000. In caso di fine dei lavori connessi alla somministrazione non
trovano applicazione le disposizioni
sulla mobilità di cui all’art. 4 della l. 23 luglio 1991, n. 223 e trovano
invece applicazione le norme sulla legittimità del licenziamento per
giustificato motivo oggettivo (con preavviso e per ragioni inerenti
all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare
funzionamento di essa), di cui all’art. 3 e 10 l. n. 604/66.
Va
ancora sottolineato come accanto alla somministrazione di personale presso
l’impresa utilizzatrice – che sui somministrati esercita il potere direttivo
(disciplinare escluso, in quanto resta in capo all’agenzia di
somministrazione), organizzativo e gestionale - lo schema di d.lgs. attuativo
della l. n. 30 abbia previsto e mantenuto all’art. 29 l’istituto dell’appalto
di servizi (con manodopera specializzata) a favore dell’impresa committente o
utilizzatrice, svolgibile da chiunque operi in forma professionalmente
organizzata ex art. 1655 cod. civ.,
senza sottostare a certificazione alcuna da parte di organi di controllo.
L’appalto di servizi si distingue dalla somministrazione per “esercizio
pieno da parte dell’appaltatore del potere organizzativo e direttivo nei
confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto e i possesso da parte sua, o
di suo personale utilizzato nell’appalto, della professionalità specifica corrispondente alle esigenze tecniche
del servizio dedotto in contratto” (così ex art. 29 cit.).
Cosicché
alle aziende oggi si pongono queste (anche) coesistenti alternative: a)
esternalizzare (anche logisticamente) a terzi soggetti, imprese o consorzi,
servizi ed opere non più considerate, secondo convenienza economica o scelta discrezionale, effettuabili
in azienda; b) continuare a svolgerle in azienda, integrando le insufficienze
d’organico con somministrazione di personale coordinato e guidato da capo
squadra interno dipendente; c) continuare a svolgerle in azienda mediante
ricorso a manodopera fornitagli da
terzo per ricorso ad appalto, sotto la direzione e guida di capo squadra
dell’appaltatore.
E’ stato
osservato che “così l’estraneazione del lavoratore rispetto a chi utilizza la
prestazione diventa amplissima perché il decreto rende lecito l’appalto di mere
prestazioni di lavoro, oltre a consentire la somministrazione di lavoro a tempo
determinato e indeterminato” (2). “Un ulteriore elemento da valutare, in
maniera molto negativa, è costituito dal fatto che gli istituti di
mercificazione si prestano ad un uso inverso e simulatorio. Infatti, il
reperimento della forza lavoro presso gli intermediari può essere anche solo
formale. Non è detto affatto, invero, che l’imprenditore ricorra alla
somministrazione o all’appalto di servizi perché non trova dipendenti diretti.
Invero, dopo aver selezionato lavoratori validi, impone loro, se vogliono
lavorare, di farsi assumere presso somministratori o appaltatori che si
prestano ad essere meri prestanomi” (3).
3.
Liberalizzazione del “distacco” o “comando”
(secondo le precitate normative sulla riforma del mercato del lavoro: cd. legge
Biagi e schema di d. lgs. attuativo)
Naturalmente
– una volta sancita nell’ordinamento l’irrilevanza (per il lavoratore
somministrato) dell’azienda destinataria della
di lui prestazione – è scaturita nel legislatore nostrano, come logico
corollario, la pretesa di una analoga indifferenza “anche” da parte del
dipendente in organico in una determinata azienda (quindi del non
somministrato da terzi) verso la propria azienda titolare del rapporto di lavoro
contrattuale, attraverso la liberalizzazione degli istituti del “distacco” o
“comando”. Così, utilizzando i prevalenti orientamenti giurisprudenziali
legittimanti il distacco quando sussista un interesse del distaccante – un
tempo individuato come specifico e, di regola, finalizzato all’accrescimento
professionale del comandato ad apprendere nuove tecniche presso terzi, di norma
presso l’azienda Capogruppo -, l’art. 30 dello schema di decreto attuativo del
6 giugno 2003 ha così disposto, con finalità definitorie:
“L’ipotesi
del distacco si configura quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio
interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di un
soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa.”
Si nota
subito che l’interesse da soddisfare da
parte del distaccante non è affatto precisato o circoscritto con aggettivazioni
limitative. Nella pregressa giurisprudenza formatasi anteriormente alla
emananda normativa, si era approdati all’affermazione (o convincimento) secondo
cui l’interesse “deve essere un interesse tecnico e deve essere valutato con
riferimento concreto all’attività del distaccante” (così Pret. Alessandria
4.12.1998; Cass. sez. lav. 2.11.1999, n. 12224), con la consequenziale
specificazione che l’interesse non può
essere necessariamente un interesse
meramente economico del distaccante (così ex Cass. 17.1.2000, n. 594, in
RIDL, II, 2001, 407).
Ora si parla di “interesse” senza specificazione alcuna.
In
questa selva normativa, si potrebbe dubitare
che non sia legittimo interesse
al distacco presso un fornitore creditore la “messa a sua disposizione di personale”, con il cui risparmio di costo del
lavoro saldare il debito contratto dal distaccante? Non è anche questo un modo
per il distaccante di “soddisfare un proprio interesse”? Riteniamo di essere
ricorsi ad un esempio al limite: ma allora se l’intento era quello di
ridisciplinare l’istituto del “distacco”
- in senso chiarificatore, insuscettibile di incentivare un contenzioso
– perché non essere più espliciti e non fare uno sforzo in direzione della
chiarezza e ragionevolezza? Non si può che rispondere affermando che la
genericità è stata scelta e mantenuta dall’odierno legislatore come funzionale
alla massima libertà di manovra e alla riaffermazione della massima
discrezionalità del distaccante di individuare “volta per volta” e “secondo
convenienza” quale delle sue plurime
esigenze possa essere convertita (nel)
o convogliata a strutturare l’interesse postulato dalla normativa. C’è
solo da augurarsi che nella loro rivisitazione, in sede di consultazione, le
OO.SS. possano riuscire a pretendere una
specificazione del suddetto “interesse”, che così com’è lascia spazio ad
operazioni fraudolente e di “mercificazione” del lavoratore.
Una
perla da segnalare è la previsione legislativa secondo cui il distacco (implicante come da noi, dalla
giurisprudenza e dalla dottrina conosciuto, un mero mutamento della sede di
lavoro e del soggetto temporaneamente fruitore della prestazione professionale
invariata) può “comportare anche un mutamento di mansioni” (art. 30,
punto 3), nel qual caso il distacco “deve
avvenire con il consenso del lavoratore interessato” e “quando comporti
un trasferimento a una unità produttiva sita a più di 50 Km da quella in cui il
lavoratore è adibito, il distacco può avvenire soltanto per comprovate ragioni
tecniche, organizzative, produttive o sostitutive”. Nel distacco sopra
ipotizzato c’è la possibilità e l’intento di realizzare o una modifica in
peius delle mansioni d’assunzione – in violazione dell’art. 2103 c.c.- o
l’assegnazione a mansioni non equivalenti presso il soggetto o azienda ricevente. C’è quindi nella norma lo spazio
per legittimare un tentativo (illegittimo)
di ius variandi extra moenia che - nella situazione di ricattabilità in cui il lavoratore si trova
in costanza di rapporto – si pretende di sanare con un consenso (che
scontatamente il lavoratore fornirà, per non trovarsi esposto a ritorsioni). Ma
ci si scorda che i patti derogativi in tema di mansioni sono dichiarati nulli
dall’art. 2103 ult. co.; chi scrive non
ritiene che possano rimanere indifferenti a tale divieto – e quindi
risultare valide - le modificazioni in
peius consentite dal distaccato, in
condizioni di soggezione, per il solo fatto che le mansioni si esplichino in
una destinazione “extraterritoriale” aziendale (extra moenia).
Per
completezza ricordiamo che nel nostro ordinamento le attuali sole ipotesi in
cui si è sancita la legittimità di modifiche peggiorative delle mansioni
d’assunzione, riposavano su interessi superiori a quelli della salvaguardia del
bene della professionalità, quali il bene superiore del mantenimento
dell’occupazione o dell’integrità e del
non aggravamento dello stato di salute. In omaggio a questi beni si è ritenuto
che :
a) le
lavoratrici madri, durante la gestazione e fino a 7 mesi successivi al parto (e
previo controllo dell’Ispettorato del lavoro) “possono essere adibite a
mansioni inferiori a quelle abituali conservando la retribuzione corrispondente
alle mansioni precedentemente svolte nonché la qualifica originale” (art. 4
l. n. 1204/’71);
b) in
caso di sopravvenuta inabilità alle mansioni originarie (cfr. Cass. sez.
un. n. 7755/1998), o in caso di
inabilità conseguente a malattia o infortunio professionale che abbia provocato
una riduzione della capacità lavorativa inferiore al 60%, o comunque per
inadempimento del datore di lavoro, accertato in sede giurisdizionale, delle
norme in materia di sicurezza ed igiene del lavoro, il lavoratore possa essere
adibito (consensualmente) a mansioni inferiori (art. 4, co. 4, l. 12.3.1999, n. 68);
c) gli
accordi sindacali stipulati nel corso delle procedure di mobilità – cfr. art.
4, co.11, legge n. 223/1991 – al fine di garantire il reimpiego almeno di una
parte dei lavoratori ritenuti eccedenti “possono stabilire, anche in deroga
al 2° co. dell’art. 21003 c.c., la loro
assegnazione a mansioni diverse da quelle svolte”. E l’art. 8, co. 3, della
legge 19.7.1993 n. 236 (Interventi urgenti
a sostegno dell’occupazione) ha addizionato, in tema di licenziamenti
collettivi per riduzione di personale, che “gli accordi sindacali al fine di
evitare le riduzioni di personale, possono regolare il comando o il distacco di
uno o più lavoratori dall’impresa ad altra per una durata temporanea”.
4.
Deroghe al divieto di discriminazione (ex schema di
d. lgs. del 3 luglio 2003 attuativo
della direttiva 2000/78/CE)
Ritornando
alla perdita di diritti in conseguenza di attuazione di normative europee, una
segnalazione merita il decreto
legislativo - approvato dal C.d.
Ministri il 3 luglio 2003, in attesa di pubblicazione sulla G.U. – adottato in
“Attuazione della Direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in
materia di occupazione e di condizioni di lavoro” (pubblicato in forma
invariata, successivamente alla redazione del presente scritto, sulla G.U. 187
del 13.8.03, con la denominazione D.Legislativo 9 luglio 2003, n. 216 e con lo
stesso titolo).
Dopo
aver correttamente fornito la definizione (o nozione) di “discriminazione” diretta ed indiretta,
sancendo all’art. 2, comma 1, che si
ha:
“a)
discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per
handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente
di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga;
b)
discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un
atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le
persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura,
le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un
orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad
altre persone”;
- dopo
aver stabilito al comma 3 dello stesso
art. 2, che :
“Sono,
altresì, considerate come discriminazioni, ai sensi del comma 1, anche le
molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per uno dei
motivi di cui all'articolo 1, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità
di un persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante
od offensivo.
L'ordine
di discriminare persone a causa della religione, delle convinzioni personali,
dell'handicap, dell'età o delle tendenze sessuali è considerata una
discriminazione ai sensi del comma 1";.
- dopo
aver ancora fissato all’art. 3, comma 1,
che:
“Il
principio di parità di trattamento senza distinzione di religione, di
convinzioni personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale si
applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è
suscettibile di tutela giurisdizionale secondo le forme previste dall'articolo
4, con specifico riferimento alle seguenti aree:
a)
accesso all'occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i
criteri di selezione e le condizioni di assunzione;
b)
occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la
retribuzione e le condizioni del licenziamento;
c)
accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale,
perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini
professionali;
d)
affiliazione e attività nell'ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori
di lavoro o di altre organizzazioni professionali e prestazioni erogate dalle
medesime organizzazioni”;
- dopo
aver integrato l’art. 15 dello Statuto dei lavoratori (in tema di repressione
antidiscriminatoria), sancendo, all’art. 4, comma 1, che :
“All'articolo
15, comma 2, della legge 20 maggio 1970, n. 300, dopo la parola «sesso» sono
aggiunte le seguenti: «, di handicap, di età o basata sull'orientamento
sessuale o sulle convinzioni personali»,
-
singolarmente si passa all’enunciazione (pericolosissima) di deroghe,
affermando - rispettivamente ai commi 3, 5 e 6 dell’art. 3 - che:
“3. Nel rispetto dei principi di proporzionalità e
ragionevolezza, nell'ambito del rapporto di lavoro o dell'esercizio
dell'attività di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi
dell'articolo 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche
connesse alla religione, alle convinzioni personali, all'handicap, all'età o
all'orientamento sessuale di una persona, qualora, per la natura dell'attività
lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di
caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai
fini dello svolgimento dell'attività medesima. Parimenti, non costituisce
atto di discriminazione la valutazione delle caratteristiche suddette ove esse
assumano rilevanza ai fini dell'idoneità allo svolgimento delle funzioni che le
forze armate e i servizi di polizia, penitenziari o di soccorso possono essere
chiamati ad esercitare.”
“5.
Non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2 le
differenze di trattamento basate sulla professione di una determinata religione
o di determinate convinzioni personali che siano praticate nell'ambito di enti
religiosi o altre organizzazioni pubbliche o private, qualora tale religione o
tali convinzioni personali, per la natura delle attività professionali svolte
da detti enti o organizzazioni o per il contesto in cui esse sono espletate,
costituiscano requisito essenziale, legittimo e giustificato ai fini dello
svolgimento delle medesime attività.
Non costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2 quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari. In particolare, resta ferma la legittimità di atti diretti all'esclusione dallo svolgimento di attività lavorativa che riguardi la cura, l'assistenza, l'istruzione e l'educazione di soggetti minorenni nei confronti di coloro che siano stati condannati in via definitiva per reati che concernono la libertà sessuale dei minori e la pornografia minorile.”
Trascurando deliberatamente di entrare nel merito della
legittimazione alla discriminazione (attraverso il licenziamento, la rimozione,
il trasferimento, ecc.) disposta a favore di enti ed organizzazioni religiose,
a motivo di professione di altre religioni o di professione di determinate
convinzioni personali, e occupandoci del rapporto di lavoro esplicato nei
settori delle imprese industriali e di servizi, lascia veramente
perplessi il fatto che si siano
sottratte alla configurazione della fattispecie “discriminatoria” (tramite
eminentemente il comma 3, dell’art. 3 e sia pure con la premessa “nel
rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza”) “…quelle
differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione,
alle convinzioni personali, all'handicap, all'età o all'orientamento sessuale
di una persona, qualora, per la natura dell'attività lavorativa o per il
contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che
costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento
dell'attività medesima”.
Ci viene subito in mente che la convinzione ideologico/sindacale –
che sfocia nell’atto di tesseramento con trattenuta sindacale sulla busta paga
– potrà, d’ora in poi, essere motivo di allontanamento dall’area dei “Servizi
del Personale” o da “Servizi fiscali”, di “Redazione bilanci”, da “Servizi
legali”e “Segreterie Organi Statutari” ( e chi più ne ha più ne metta), in cui si viene necessariamente a conoscenza di dati, determinazioni e decisioni
riservate. L’azienda – in ragione del
convincimento sindacale (rientrante nell’alveo delle “convinzioni personali”di
legge) – potrebbe effettuare rimozioni da quella posizione di lavoro o da
quell’area di quel dipendente sindacalizzato, in quanto ad es. da parte aziendale si ipotizza che “la refrattarietà più che l’indifferenza
al sindacato” - cioè l’asindacalità
soggettiva - sia garante di neutralità
di comportamento potenziale e quindi costituisca “requisito essenziale e
determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima”. E se anche
la convinzione fosse infondata, potrebbe disporre – nella non chiarezza
testuale della normativa indeterminata – i propri provvedimenti, innescando un
contenzioso risolubile nei noti tempi biblici della nostra giustizia.
Con il che quello che era un diritto acquisito indistintamente ed indiscutibilmente in capo a tutti i lavoratori, viene ad essere ora ritagliato, circoscritto, sottoposto a valutazione con la lente di ingrandimento, in ragione delle “convinzioni personali” raffrontate alla posizione di lavoro rivestita o all’area in cui si opera.
Elementi, suppostamente positivi (per le fattispecie verificatesi posteriormente all'entrata in vigore del d. lgs. n. 216) si rinvengono - ma questo lascia presumere che le richieste rivolte con plurimi d.d.l. giacenti in Parlamento sin dalla XIII legislatura, per una disciplina specifica del "mobbing" potrebbero venire accantonate - nel rilievo che:
a) da parte dell'art.3, 2 co., si inserisce il "mobbing" tra le fattispecie di discriminazione diretta o indiretta, tramite la dizione "...molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per uno dei motivi di cui all'articolo 1, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di un persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo";
c) viene prevista una procedura sanzionatoria analoga a quella conseguente all'azionamento dell'art. 28 l. n. 300/70, consistente nell'emissione da parte del giudice di un provvedimento ordinante la cessazione del comportamento vessatorio e la rimozione degli effetti;
d) dall'art. 5 viene conferita alle "rappresentanze locali delle OO.SS. maggiormente rappresentative a livello nazionale" la legittimazione ad agire in giudizio - su delega del vessato - in nome e per conto dello stesso o a sostegno di esso.
Ma anche sul punto specifico - come sul resto della normativa antidiscriminazione - il nostro Governo mostra tutti i suoi limiti e la sua connaturata tendenza negatoria di qualsiasi posizione di "favor" o di sottrazione dei vessati e discriminati da "probationes" diaboliche, giacchè ha mantenuto in capo ad essi l'onere probatorio, quando invece la direttiva europea prevedeva la possibilità dell'inversione, sul convenuto, dell'onere della prova; si legge infatti espressamente all' art.10 della 2000/78/CE, che "gli Stati membri prendono le misure necessarie, conformemente ai loro sistemi giudiziari nazionali, per assicurare che [...] incomba alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del principio della parità di trattamento". Ma si vede che al nostro Premier, appiattito sulle posizioni della Confindustria di cui è esponente anche diretto il Ministro "strafica" (come si sente e si crede la signora imprenditrice) alle Pari Opportunità, l'invito europeo non deve essere apparso pertinente.
Il decreto in questione, nella parte in
precedenza da noi criticata, ha determinato reazioni eclatanti solo da
parte dell’Arcigay – che in questa occasione ha mostrato molto più senso
giuridico di altre categorie – ma va sottolineato che i pericoli di
discriminazione e di emarginazione si estendono a tutti i lavoratori in
generale, in ragione di parametri valutativi onnicomprensivi (religione,
handicap, età, convinzioni personali, orientamento sessuale).
Anche le OO.SS. – forse prese da problematiche più gravide, in cui si sono fatte impantanare dal Governo, da una parte, e dalla naturale resistenza datoriale (non disgiunta da una certa loro inerzia) nei rinnovi contrattuali, dall’altra – non ci sembra che abbiamo assunto, o per lo meno esternato, una pubblica posizione al riguardo, com’era da attendersi da parte di un organismo istituzionalmente tutorio degli interessi dei propri rappresentati.
Roma, 18 luglio 2003
(pubblicato su Consulenza, Lavoro e Previdenza, Buffetti ed., n. 28/2003, p.43)
(1) Di questo rischio o sogno parlano
Alleva-Naccari, I volti del precariato e la mercificazione del lavoro,
in www.cgil.it/giuridico, secondo i
quali “ A questo punto il sogno di una fabbrica senza lavoratori propri è a
portata di mano, perché i lavoratori che effettivamente vi opereranno saranno
organizzati o da capi squadra del committente o da capi squadra
dell’appaltatore, sempre però senza essere o divenire mai dipendenti del
committente stesso”.
(2-3) Così Alleva-Naccari, cit. Sul tema si possono utilmente vedere: Bock, Prime riflessioni sull’attuazione della legge Biagi, in Consulenza, n.24/2003, 12 e ss.; De Marinis, La flessibilità senza confini: brevi note a margine della l. n. 30/2003, in MGL n.6/2003, 414 e ss.
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