1.
Premessa
All’inizio
del terzo millennio (1) porsi dalla parte della stabilità dei rapporti di
lavoro sembra essere impresa disperata e comunque marchiata dalla cultura
lavoristica del vecchio secolo. La cultura, di matrice più politica che
economica, negatrice della stabilità sembra maggioritaria sia nel dibattito
culturale che nell’opinione comune. La stabilità non accettata è soprattutto
quella reale, la tutela forte disciplinata dall’articolo 18 dello Statuto dei
lavoratori, mentre sembra essere più tollerata la stabilità obbligatoria,
incentrata sulla tutela debole dell’alternativa tra la riassunzione e il
pagamento della penale (2). Il divario di giudizio tra stabilità reale e
stabilità obbligatoria non sembra essere il riflesso speculare della
distinzione legislativa. Esso è, invece, espressione di una contraddizione
forte non esplicitata: è l’idea di stabilità che non è accettata, non solo e
non tanto la strumentazione giuridica modellata dall’articolo 18. E’ facile prevedere
che, se, in ipotesi, venisse meno il regime della stabilità reale, sarebbe
probabilmente travolta, in un secondo momento, anche la stabilità obbligatoria
oggi apparentemente non contestata. Allora occorre avere il coraggio, già sul
piano del metodo, di capovolgere il corrente modo di procedere: non si dovrebbe
criticare o difendere l’articolo 18 (il piano delle conseguenze), senza
previamente respingere o accettare l’idea della stabilità come valore (il piano
della premessa di cui l’articolo 18 è solo la conseguenza).Allora la prima
domanda che si pone è questa: ha ancora senso l’idea della stabilità del
rapporto di lavoro nell’attuale contesto di trasformazione economica, sociale e
giuridica? Se il dibattito sull’articolo 18 fosse inserito in questo orizzonte
di senso, sarebbe più facile prendere posizione in merito.
La
richiesta di abrogazione dell’articolo 18, cioè della tutela forte, intende
negare in radice l’idea della stabilità, anche se ripiega sul più facile
percorso della omogenizzazione al ribasso dei trattamenti, estendendo a tutti
la tutela (debole) obbligatoria. Occorre, al contrario, decidere
preliminarmente se la stabilità vada garantita e solo dopo prevedere come.
2. Stabilità e recedibilità ad nutum.
A che cosa
si contrappone la stabilità? Storicamente la stabilità nasce come antitesi del
principio di libera recedibilità, cioè dell’irrilevanza dei motivi
(presupposti) del licenziamento e della completa mancanza di protezione,
giurisdizionalmente attuabile, dell’interesse alla conservazione del rapporto
di lavoro da parte del lavoratore. E’ del tutto errato identificare stabilità,
posto fisso, rapporto a tempo indeterminato, come oggi comunemente si fa. La
stabilità non coincide affatto con il posto fisso. Solo nel pubblico impiego in
passato era in un certo qual modo garantito il posto fisso, ma ciò avveniva in
via di fatto più che di diritto. Oggi con la privatizzazione del pubblico
impiego e l’adozione di un unico modello di regolazione anche il pubblico
impiego conosce processi di mobilità (3). Nel settore privato il regime di
stabilità non è stato mai idoneo a garantire il posto di lavoro in assoluto. Il
principio di stabilità ha sempre dovuto fare i conti con il mantenimento
dell’impresa sul mercato. Ciò significa che per definizione nel settore privato
non può essere garantito il posto fisso. Il rapporto a tempo indeterminato, con
la conseguente continuità occupazionale, non solo non coincide con il posto
fisso, ma neanche con il rapporto stabile come la storia insegna (il rapporto a
tempo indeterminato non comporta di per sé stabilità). Il fatto che
nell’attuale contesto ci sia la necessità di cambiare più volte il posto di
lavoro (come si dice) non chiarisce da che cosa sia originato il cambiamento
(una cosa è la scadenza di un rapporto a termine , un’altra subire il
licenziamento in un rapporto a tempo indeterminato, un’altra ancora dimettersi
da un rapporto stabile perché si è trovato uno migliore) e comunque non è una
buona ragione per non aspirare ad occupare o a far occupare un posto di lavoro
con rapporto a tempo indeterminato. In realtà l’alternativa è ancora una volta
quella classica: licenziamento ad nutum o stabilità?
Ora non è
difficile sostenere che il ritorno al licenziamento ad nutum sarebbe
oggettivamente un regresso per la regolazione dei rapporti di lavoro. Resta da
spiegare come un regresso, obiettivamente considerato tale, possa essere
invocato come progresso, se non in base all’assunto, tutto da dimostrare, che
si stava meglio quando si stava peggio. L’idea del licenziamento ad nutum, più
o meno camuffato, non è compatibile con un rapporto di lavoro regolato da legge
e da contrattazione collettiva, come l’evoluzione dei rapporti sociali ha
tramandato. Che senso avrebbe tutelare il rapporto di lavoro, se fosse possibile,
quando si vuole, interromperlo? Non sono necessarie indagini sociologiche
approfondite, per ricordare che la dimensione di tutela dei diritti, mediante
l’intervento del giudice, si sia affermata a seguito dell’introduzione della
legge sui licenziamenti.
La
stabilità è un valore da promuovere e tutelare poiché esprime sul piano
giuridico il principio della conservazione del rapporto di lavoro fino a quando
il patto che lega il lavoratore al datore di lavoro non s’infranga sullo
scoglio dell’inadempienza notevole degli obblighi contrattuali, così come
avviene per tutti i contratti di scambio sul mercato. Questo principio esalta,
dunque, la contrattualità del rapporto di lavoro, alla stregua di tutti i
rapporti di scambio. Non si può da un lato esaltare la dimensione individuale e
contrattuale del rapporto di lavoro in generale e poi pretendere di negare
rilevanza al comportamento del lavoratore ai fini della decisione sulla
conservazione del rapporto di lavoro. Il principio della temporaneità dei vincoli
obbligatori, nel pensiero liberale classico, postula la recedibilità ad nutum
del lavoratore, non del datore di lavoro (4).
La
stabilità come valore , nel gioco del bilanciamento degli interessi e dei
valori, potrebbe anzi dovrebbe essere sacrificato qualora la sua protezione
giuridica ledesse irrimediabilmente non tanto l’impresa, ma la possibilità
dell’impresa, l’impresa intesa come istituzione, come attitudine produttiva.,
portatrice in quanto tale di valori preminenti rispetto all’interesse alla stabilità
occupazionale (5) .Si tratta di verificare se la stabilità leda interessi
dell’impresa preminenti e in particolare tre valori che non debbono essere
compromessi: il principio dell’affidabilità, il principio della flessibilità,
il principio dell’efficienza.
3. Stabilità e valori dell’impresa: quale preminenza?
L’assoluta
illicenziabilità comporterebbe la violazione del principio
dell’affidamento(assorbito in passato dal vincolo sicuramente più intenso della
fiduciarietà). Non si può fare a meno di ricordare che stabilità è abolizione
del licenziamento ad nutum e non invece del licenziamento. Il collegamento del
rimedio risolutivo all’inadempimento del lavoratore è fondativo di un forte
principio etico coinvolto nello scambio lavoro retribuzione (6): la
responsabilità contrattuale del prestatore di lavoro che è il risvolto
dell’affidamento riposto nel lavoratore dal datore di lavoro (ti mantengo a
lavorare fino a quando sei adempiente). Ora questo meccanismo non è altro che
la traduzione sul terreno dei rapporti di lavoro del principio della
risolvibilità del contratto per inadempimento che regola l’economia di mercato,
principio penalizzato nei rapporti di lavoro dal sopravvenuto
(ingiustificatamente) principio di recedebilità ad nutum., negatore del rilievo
risolutivo del comportamento del lavoro (ti farò lavorare fino a quando a me
piacerà). Non a caso nel regime di risolubilità ad nutum l’inadempimento veniva
fatto incidere su profili diversi dalla conservazione del rapporto: il
preavviso e l’indennità di anzianità.
Si tratta
di verificare, allora, se la stabilità sia compatibile con il principio della
flessibilità, principio costitutivo della moderna impresa che deve competere
sui mercati globali. Il termine magico di flessibilità viene utilizzato per
tante e differenti operazioni (7). Come è stata realizzata giustamente la
flessibilità in entrata, mediante l’articolazione tipologica dei rapporti di
lavoro, così dovrebbe essere garantita la flessibilità in uscita: dunque, fine
della stabilità. Ora l’equivoco, prospettato nel dibattito politico- culturale,
deve esser rimosso. La flessibilità che non può essere negata (pena il venir
meno dell’idea d’impresa) è l’attitudine alla trasformazione dell’impresa con
la conseguente determinazione dei livelli occupazionali. Ma questo valore
certamente è protetto. La disciplina dei licenziamenti collettivi e della messa
in mobilità è regolata, su impulso europeo, dalla legge n. 223/91 e ad altro
non mira che alla facoltà dell’impresa di mutare in diminuzione, oltre che in
aumento, il proprio fabbisogno occupazionale (8). Il fatto che i licenziamenti
collettivi siano posti in essere a seguito di un confronto dialettico con il
sindacato, non giustifica l’opinione propagandistica che è impossibile
licenziare. C’è qualcuno che può negare l’uso ampio dei licenziamenti
collettivi negli anni ‘80 e ‘90? Ciò vale anche per le imprese di piccola
dimensione. Quando l’impresa licenzia meno di 5 lavoratori o quando non sia
soggetta alle procedure dei licenziamenti collettivi poiché ha meno di 16
dipendenti potrà sempre avvalersi del principio del giustificato motivo
obiettivo di licenziamento a mente dell’articolo 3 della legge n. 604 del ’66.
La
flessibilità è un valore esaltato sia nella fase di costituzione dei rapporti
di lavoro, sia dentro la gestione degli stessi. La flessibilità in entrata è
stata formalmente realizzata in misura ampia. Occorre evitare la visione
restrittiva e intrisa da logica di aggiramento, secondo la quale
l’articolazione tipologica dei rapporti di lavoro va spiegata come misura
reattiva all’eccessiva rigidità della disciplina dei licenziamenti.
L’articolazione tipologica si spiega con ragioni più strutturali che toccano
sia l’impresa che i lavoratori. Se si eliminasse la stabilità , rimarrebbe
comunque la differenza tra contratto a tempo indeterminato e contratto a tempo
determinato. Occorre, anche, evitare gli inutili allarmismi sull’eccessiva
precarizzazione dei rapporti di lavoro. Quello che conta è lo stock degli
occupati, non il flusso delle assunzioni. L’assunzione a termine non impedisce,
infatti, la trasformazione, in un momento successivo, in un rapporto a tempo
indeterminato. In ogni caso per i contratti erroneamente chiamati atipici la
flessibilità in entrata coincide (almeno per i contratti a termine, formazione
e lavoro, apprendistato e lavoro interinale) con l’automaticità della
risoluzione del rapporto: flessibilità in entrata e in uscita coincidono. Non
si capisce, allora, perché le imprese, oltre a beneficiare della flessibilità
derivante dall’articolazione tipologica dei rapporti di lavoro, dovrebbero
conseguentemente (non si capisce dove starebbe la conseguenza) beneficiare del
ripristino del recesso ad nutum verso i lavoratori con rapporto a tempo
indeterminato.
Rimane il
principio d’efficienza. Esso richiama la vecchia mitologia del terrore: il
lavoratore produrrebbe meglio se rischiasse di perdere il posto di lavoro: la
pubblica amministrazione sarebbe una prova. L’intera storia del lavoro ha
sfatato questo mito, una volta affermatasi la filosofia delle risorse umane. I
professori universitari e i dirigenti d’azienda che imprecano contro la
stabilità degli altri, dovrebbero, per coerenza, rinunciare preventivamente
alla propria. Ma è difficile che qualcuno reputi la propria stabilità un
disvalore, mentre è comodo ritenere ingiustificata soltanto quella degli altri.
Perché i professori universitari contrari alla stabilità non si fanno promotori
di un sistema di permanenza limitata nel proprio posto di lavoro? Perché le
imprese hanno accettato di costruire su basi volontarie un sistema di tutela
dei dirigenti, nonostante la legislazione del lavoro li lasciasse a ragion
veduta privi di tutela?
Resta il fatto che la stabilità è un costo.
Oggi si vanno diffondendo le indagini empiriche che riescono a dimostrare, al
centesimo, il costo delle regole. Ben vengano queste indagini. Chi le utilizza
per deprecare il costo delle regole dovrebbe, tuttavia, prospettare il costo
della mancata regolazione. La filosofia di fondo che talvolta si diffonde è,
invece, che per limitare il costo delle regole, l’unica cosa da fare è
eliminarle. Questo discorso, applicato al diritto del lavoro, si traduce
nell’auspicio di un ritorno al passato, dimenticando che la storia del lavoro è
una storia di conquiste di regole, con i costi relativi. Il richiamo alla
globalizzazione è fuori luogo. Si tratta di decidere se determinati standard di
civiltà debbano essere mantenuti o sacrificati nel momento di debolezza del
fattore lavoro. Occorre evitare le argomentazioni che hanno il difetto di
generare opposizioni preconcette e ideologizzanti nei confronti della
globalizzazione. La regolazione dei licenziamenti è vista come il fenomeno più
eclatante della rigidità legislativa, unitamente alla rigidità gestionale
causata dalla presenza delle organizzazioni sindacali nelle imprese.
L’ordinamento lavoristico presenta altri profili di rigidità regolativa, ad
esempio la sicurezza e la tutela contro le discriminazioni. Eppure gli strali
contro la rigidità si dirigono principalmente verso la stabilità. Ciò fa
sorgere il dubbio che l’attacco alla stabilità dipenda soprattutto
dall’effettività della tutela, cosa non rinvenibile adeguatamente in regole
altrettanto rigide, ma di fatto eluse, come la sicurezza e le discriminazioni.
La contestazione al principio di stabilità assume il significato della figura
retorica della sineddoche poiché la parte rappresenta il tutto. Ma così facendo
si finisce con il caricare il principio di stabilità di significati simbolici,
che vanno al di là della mera dimensione di una tecnica di tutela giuridica.
4.
Stabilità, reintegrazione, risarcimento: la congruenza tra mezzi e fini
Se il
principio di stabilità è un valore che deve essere mantenuto all’inizio del
nuovo millennio, si tratta di verificare l’adeguatezza dei mezzi di tutela.
Innanzi
tutto sembra fortemente metabolizzata la tecnica della stabilità obbligatoria.
Ciò si spiega facilmente per l’incongruenza tra premessa e conseguenza. La
premessa della stabilità è, infatti, sostanzialmente smentita nel momento in
cui , in presenza di una condanna del giudice, il datore può scegliere se
riassumere o pagare la penale. La stabilità obbligatoria è un surrogato della
stabilità. Si comprende in termini di convenienza empirica, non di adeguatezza
rispetto allo scopo. Eppure la legge n. 108 del ’90 fu aspramente contestata al
suo apparire. A distanza dall’impatto della legge appaiono sempre meno
convincenti le ragioni della differenzazione delle discipline di tutela.
Nell’ottica del principio di uguaglianza (9) sarebbe auspicabile
l’omogeneizzazione delle tutele. Da un punto di vista astratto, sarebbe più
logico e più giustificabile un allargamento del regime di tutela reale verso il
basso, con l’esclusione soltanto delle microimprese (tre o cinque dipendenti) oppure
a gestione familiare. Ma non sembra realisticamente verificabile un’ipotesi di
tal genere (contro una prospettiva simile fu varata la legge n. 108). Si
comprende così il tentativo di unificazione verso il basso, con il superamento
della tutela reale e la generalizzazione della tutela obbligatoria, oggetto
della iniziativa referendaria (10).
La tutela
reale, nella sua essenza di reintegrazione e risarcimento, è la regola più
razionale che si possa immaginare ove si accetti il principio della stabilità
(11). Chi è privato ingiustificatamente del posto di lavoro lo deve riavere
(reintegrazione) dopo l’accertamento del giudice, mentre per il passato il
posto di lavoro sarà restituito(risarcimento) in base al suo valore effettivo
(retribuzioni perse). Con l’adattamento necessario, come sempre accada nel
diritto del lavoro, è il principio che nel diritto processuale civile in
generale si esprime con il risarcimento in forma specifica. Nell’articolo 18
non v’è affatto una visione proprietario-fisicistica del posto di lavoro. Il
posto di lavoro è un’entità relazionale riconducibile al rapporto di scambio
tra lavoro e retribuzione. Perciò si sa già che reintegrazione significa
lavorare come prima e risarcimento percepire il valore di scambio del posto di
lavoro irrimediabilmente perso per il passato.
Certo, la tutela reale non è protetta
costituzionalmente. E’ difficile dar torno alla Corte costituzionale che ha
ritenuto ammissibile il referendum abrogativo dell’articolo 18 (12). La
stabilità reale è frutto di un intervento discrezionale del legislatore,
costituzionalmente corretto anche se non imposto. Sarebbe, pertanto, possibile
per il legislatore intervenire con un regime diverso. La stabilità reale non
potrebbe essere considerata un diritto acquisito, con conseguente pretesa
all’intangibilità dell’assetto legislativo esistente. Ma un’abrogazione
dell’articolo 18 nell’attuale legislatura non si giustificherebbe , soprattutto
se ciò avvenisse sulla base dei disegni di legge presentati nella 13^
legislatura per evitare il referendum.
Innanzi
tutto il popolo italiano si è espresso sul quesito referendario in larga
maggioranza sia con l’astensione dal voto che con il voto contrario espresso.
Sebbene dalla celebrazione del referendum non siano sorti vincoli giuridici per
il futuro legislatore (13), il grande “sondaggio” popolare dimostra che il
popolo ha compreso il senso del quesito e non ha fatto proprio il giudizio dei
promotori del referendum: agli italiani la stabilità reale piace. Libere le
varie minoranze politiche e culturali di insistere sul tema, resta il fatto che
è smentita la tesi di fondo prospettata erroneamente proprio in nome del
popolo, soprattutto del popolo non toccato dallo statuto dei lavoratori.
Il popolo
ha capito che la flessibilità non c’entra con la stabilità, anzi
l’articolazione tipologica dei rapporti che realizza la flessibilità in entrata
non è in contrasto con una prospettiva di promozione dell’occupazione stabile.
Occorre, infatti, saper coniugare flessibilità del rapporto (ad esempio dell’orario
e della retribuzione) e tutela dell’occupazione.
Il popolo
non riesce a capire come la parola stabilità sbandierata o invocata per
l’assetto finanziario e politico del paese ( patto di stabilità esterno e
interno) non debba avere valore soltanto per i rapporti di lavoro.
Il popolo
ha capito che, se è comprensibile differenziare il trattamento delle piccole
imprese, sarebbe ingiustificabile regalare alle grandi imprese, industriali,
bancarie, assicurative, commerciali, del turismo, dei trasporti, delle fonti di
energia e alle pubbliche amministrazioni il regime di protezione dei lavoratori
identico a quello riservato oggi alle piccole imprese.
L’attacco
all’articolo 18 avviene nel momento in cui la necessità di proteggere i
lavoratori contro i licenziamenti è più avvertita nell’Europa sociale. Non solo
la riformata Carta sociale europea, ricordata dalla sentenza della Corte
costituzionale, ma anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
fonda la protezione contro i licenziamenti ingiustificati (14). Certo, da
queste carte non si desume un modello unico di tutela, ma nessuno potrà mai
affermare che il modello dell’articolo 18, pur non essendo imposto, non sia in
linea con l’istanza protettiva del posto di lavoro, così come avviene in base
al diritto costituzionale interno.
5. Le operazioni giurisprudenziali di
ridimensionamento della stabilità
Come ha
reagito la giurisprudenza al dibattito che ha comunque delegittimato il diritto
vigente? Come capita spesso il dibattito de jure condendo provoca delle
ricadute sul piano interpretativo del diritto vigente da parte della
giurisprudenza.
Il punto
più delicato della ricostruzione dell’articolo 18 sta nel rapporto tra
reintegrazione e risarcimento. Il ridimensionamento della tutela reale passa attraverso
la determinazione del contenuto del risarcimento. Il legislatore ha detto a
chiare lettere come deve essere calcolato il risarcimento del danno nel regime
di tutela reale. Il principio dell’inserimento nel calcolo del risarcimento di
tutte le retribuzioni perse è stemperato, nella prassi applicativa, con
l’ammissione della detrazione dell’aliunde perceptum propria del regime di
diritto comune (15). Costituisce solo apparentemente una contropartita la
valorizzazione delle regole di diritto comune in ordine all’ammissibilità nel
calcolo del risarcimento di altre voci di danno diverse dalle retribuzioni
perse (16). Si afferma nella prassi in tal modo l’astratta contestazione del
modello del diritto speciale condotta sempre dalla dottrina in nome del diritto
comune Ma non è forse una contraddizione, nell’ottica ricostruttiva
dell’articolo 18, ridurre l’ammontare dei danni risarcibili pari alle
retribuzioni perse, sottraendo l’aliunde perceptum, e poi allargare a dismisure
l’ambito dei danni risarcibili? Il diritto comune è chiamato contemporaneamente
e contraddittoriamente a restringere ed ad allargare il calcolo del
risarcimento. Non è più ragionevole il legislatore dell’articolo 18 che limita
i danni soltanto alle mancate retribuzioni (senza alcuna detrazione). E’
proprio per un caso di ironia della storia che la norma definita garantista e
rigida come l’articolo 18 veda nella prassi il trionfo di quel diritto comune
che da solo non è stato capace di tutelare la stabilità, nonostante gli sforzi
degli interpreti. Certo, anche il legislatore ha le sue colpe, poiché con la
novella del ’90 ha ammesso lo scambio reintegrazione risarcimento su iniziativa
del lavoratore negando il valore non monettizzabile dell’ordine di
reintegrazione affermato nell’originario regime di tutela reale.
Su un altro terreno, quello degli effetti
collegati al licenziamento inefficace nell’area della tutela obbligatoria, la
soluzione di diritto comune è negata dall’adozione del più favorevole regime
della tutela obbligatoria (17) Ciò può avvenire a patto di negare rilievo
specifico alla parola inefficacia, negando perciò che il diritto speciale possa
essere conforme al o quanto meno illuminato dal diritto comune. Non è detto che
il licenziamento inefficace per vizi di forma e per inosservanza dell’art. 7
della l. n. 300 del ‘70 sia socialmente meno grave del licenziamento privo di
giustificato motivo. Quando la forma è espressione di civiltà giuridica, come
nel caso del licenziamento inefficace, la violazione delle regole formali è più
grave dell’assenza delle ragioni giustificatrici del licenziamento, che, nel
regime di tutela obbligatoria, comporta l’alternativa tra riassunzione o
pagamento della penale.
6. Conclusioni
Il nuovo
millennio vede un forte dibattito sul ruolo del Diritto del lavoro (18). Tale
dibattito non può non avere ad oggetto anche la revisione di leggi
significative. Occorre evitare, tuttavia, non solo il clima di conservazione
normativa, alla lunga non difendibile, ma anche lo spirito di vendetta sociale
postuma. Le trasformazioni sociali non richiedono un ritorno indietro, ma un
andare avanti nella ricerca faticosa degli equilibri tra le esigenze delle
imprese e la tutela del lavoro. Questa è la vera ragione oltre che il fascino,
del Diritto del lavoro. Perciò occorre essere contrari al massimalismo di
destra, così come è stato necessario esserlo verso quello di sinistra.
Il vero
bersaglio della critica alla stabilità è il ruolo del giudice del lavoro, più
che la regolazione legislativa in sé (19). Il problema della crisi della
giustizia del lavoro è serio. Ma l’ideale di un diritto senza giudizio è
altrettanto utopico come quello di un’economia senza regole. Piuttosto sono da
favorire, anche se in materia di stabilità reale ciò è più difficile, procedure
alternative al ricorso all’autorità giudiziaria o, comunque, soluzioni che
affidano un maggiore ruolo alle parti sociali (20).
Intervento
del Prof. Mario Napoli al IV Congresso
nazionale
dei Consulenti del Lavoro
Roma 22
Novembre 2001
(*) Saggio
di apertura del numero monografico dedicato ai licenziamenti della Rivista
Quaderni di Diritto del lavoro e delle Relazioni industriali, UTET, Torino,
2001
Note
1. L’inizio del terzo millennio ha provocato
interrogativi sul futuro del Diritto del lavoro. V, in generale, il Congresso
dell’AIDLASS di Ferrara del maggio del 2000 e soprattutto le relazioni di L.
Mengoni, U. Romagnoli, T. Treu, M. Persiani. Cfr. altresì S. Simitis, Il
diritto del lavoro ha ancora un futuro, in Giornale di Diritto del lavoro e di
Relazioni industriali, 1997,p.638; M. Ackerman, Un futuro per il Diritto del
lavoro, Lavoro e diritto, 1997, p.4; M. Napoli, Il lavoro e le regole. C’è un
futuro per i l Diritto del lavoro?, Jus, 1998, p.51.
Per una
visione d’assieme delle problematiche del Diritto del lavoro alla svolta del
secolo v. P. Davies, Lavoro subordinato e lavoro autonomo, Diritto delle
relazioni industriali, 2000,p.210; A. Supiot, Lavoro subordinato e lavoro
autonomo, ibidem,p.220; M. Persiani, Diritto del lavoro e autonomia del punto
di vista giuridico, Argomenti di Diritto del lavoro, 2000; T. Treu, Il Diritto
del lavoro: realtà e possibilità, ibidem.
2. Per la ricostruzione del sistema rinvio a
M. Napoli, La stabilità reale del rapporto di lavoro, Angeli, Milano, 1980 e a
Id. voce Licenziamento, Digesto delle discipline privatistiche, Sezione
commerciale, vol IX, UTET, Torino, 1993.Per l’analisi e l’assetto della
dottrina e della giurisprudenza v. (a cura di) O. Mazzotta, I licenziamenti,
Cedam, Padova, 1999.
3. Per l’impatto della privatizzazione
sull’assetto della regolazione del licenziamento v. il mio Il rapporto di
lavoro con le amministrazioni pubbliche. Lineamenti interpretativi del D. LGS 3
febbraio 19993, n. 29 e successive modificazioni, Jus, 1995. Sull’ultima
versione del d. lgtvo n. 29 v., in generale, a cura di A. Corpaci, M. Rusciano,
L. Zoppoli, La riforma dell’organizzazione, dei rapporti di lavoro e del
processo nelle amministrazioni pubbliche, Le nuove leggi civili commentate,
1999, p.1047.
4. Cfr. P. Fergola, La teoria del recesso e
il rapporto di lavoro, Giuffrè, Milano,
1985.
5. Questo è il corretto modo di procedere
della Corte costituzionale, seguita poi dalla Cassazione, sui limiti esterni al
diritto di sciopero. V: Corte cost. 28 dicembre 1962,n.124, Foro italiano, 1963,I,1
;Cass. 30 gennaio 1980,n.711, ibidem, c. 25. Sulla peculiarità
dell’argomentazione nella giurisprudenza costituzionale v. L. Mengoni,
Ermeneutica e dogmatica giuridica, Giuffrè, Milano, 1996, p.115.
6. Per una rivalutazione della contrattualità
del rapporto di lavoro v. M. Napoli, Contratto e rapporti di lavoro, oggi, i n
Le ragioni del diritto, Studi in onore di L. Mengoni, Tomo II, Giuffrè, Milano,
1995,p.1057. Cfr., altresì: L. Montuschi, Sulla discussa centralità della
fattispecie “contratto di lavoro subordinato”, ibidem, p. 1027;E. Ghera,
Prospettive del contratto individuale di lavoro, in Scritti in onore di G.
Giugni, Cacucci, Bari, 2000.
7. Sulla flessibilità la letteratura è
sterminata. V., comunque, (a cura di ) G. Santoro Passarelli, Flessibilità e
diritto del lavoro, 3 volumi, Giappichelli, Torino, 1997 e (a cura di ) A.
Garilli e A. Bellavista, La flessibilità nel mercato del lavoro. Sui rapporti
tra flessibilità e licenziamenti v. il mio Flessibilità e tutela contro i
licenziamenti, in M. Napoli, Questioni di Diritto del lavoro, Giappichelli,
Torino,1996, p.281.
8. Sui licenziamenti collettivi oltre alle
opp.citt.alla nota 2 v. I licenziamenti collettivi, Quaderni di Diritto del
lavoro e delle relazioni industriali, n. 19, 1997 e, per un quadro comparato,
(a cura di) B. Veneziani e U. Carabelli, I licenziamenti per riduzione di
personale in Europa, Cacucci, Bari, 2001.
9. Sulla giurisprudenza costituzionale, che ha sempre difeso la
differenzazione delle tutele nelle piccole imprese rispetto alle grandi, v. il
mio La giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di licenziamenti,
in AA. VV., Apporto della giurisprudenza costituzionale alla formazione del
Diritto del lavoro, Giuffrè, Milano, 1988. Sul principio di eguaglianza come crigterio
interpretativo del Diritto del lavoro v. U. Romagnoli, Il diritto del lavoro
nel prima del principio di uguaglianza, in (a cura di) M. Napoli,
Costituziolne, lavoro, pluralismo sociale, Vita e pensiero, Milano, 1998.
10. Corte
Costituzionale 7 febbraio 2000,n. 46, Rivista giuridica del lavoro e della
previdenza sociale 2000, p. 174.
11. La ragionevolezza è chiamata a fungere da
parametro generale di giustificazione delle leggi. Oltre all’op. di Mengoni
cit. alla nota 5 v. anche M. Persiani, Diritto del lavoro e razionalità,
Argomenti di Diritto del lavoro, 1995. Per il significato della reintegrazione
v., da ultimo, il bilancio di E. Ales, La reintegrazione trent’anni dopo: un
nuovo caso di archeologia giuridica?, Il Diritto del lavoro, 2000, p. 20.
12.
Secondo
la Corte “ è da escludere che la disposizione che si intende sottoporre a
consultazione, per quanto espressiva di esigenze ricollegabili ai menzionati
principi costituzionali (4 e 35), concreti l’unico possibile paradigma
attuativo dei principi medesimi. Pertanto l’eventuale abrogazione della c.d.
tutela reale avrebbe il solo effetto di espungere uno dei modi per realizzare
le garanzie del diritto al lavoro, che risulta ricondotto, nelle discipline che
attualmente vigono sia per la tutela reale che per quella obbligatoria, al
criterio di fondo della necessaria giustificazione del licenziamento”. Per
l’inammissibilità del referendum v. P. G. Alleva, I “referendum sociali” e il
rapporto di lavoro, Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale,
2000, p.3.
13. Per la dottrina costituzionalista v.
l’efficace ricostruzione offerta da A. Mangia, Referendum, Cedam, Padova,
1999.Sulle prospettive successive all’esito del referendum sull’articolo 18 v.
la tavola rotonda in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale,
2000, p. 405.
14. La Corte costituzionale fa riferimento alla
Carta sociale europea nella nuova versione, ratificata e resa esecutiva con la
legge 9 febbraio 1999,n. 30. In base al paragrafo 24 della parte prima, “tutti
i lavoratori hanno diritto alla tutela in caso di licenziamento”. Nel paragrafo
24 della parte seconda è previsto “il diritto dei lavoratori licenziati senza
un valido motivo ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”. Nella
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la materia del
licenziamento è contenuta nel capo IV Solidarietà, articolo 30: “Tutela in caso
di licenziamento ingiustificato. Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela
contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario
e alla legislazione e prassi nazionale”. Sull’Europa sociale v. l’intera
Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale , n. 4, 2000 ed ivi, v.
soprattutto, B. Veneziani, Nel nome di Erasmo da Rotterdam. La faticosa marcia
dei diritti sociali fondamentali nell’ordinamento comunitario, p.779, nonché,
M. Barbera, Dopo Amsterdam, Promodis, Brescia, 2000.
15. V., ad esempio, Cass. 5 Giugno 1996,n.5228,
in Diritto del lavoro, 1997,II,p.358. In senso contrario Cass. 19 Maggio n.
6548, Rivista critica di Diritto del lavoro 2000,p.228
16. V., ad esempio, Cass. S. U. 29 aprile
1985,n.2764, Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, 1985, II,
p. 85.
17. La soluzione, ma in chiave risarcitoria, di
Diritto comune è prospettata da Cass. S. U. 27 Luglio 1999,n.508, Foro
italiano, 1999, I, c. 2818. Sull’applicazione dell’articolo 8 della legge n.
608, v., tra tante, Trib. Milano 16 ottobre 2000, Rivista critica di Diritto
del lavoro 2001,p. 191.
18. V. le opp. citt. alla nota 1.
19. Sull’assetto della giurisprudenza in
relazione agli orientamenti dottrinali v. Il dialogo tra dottrina e
giurisprudenza nel diritto del lavoro, Quaderni della Rivista degli infortuni e
delle malattie professionali, INAIL, Roma, 2000.
20. Sui rimedi alternativi alla giurisdizione v.,
in generale, da ultimo, Conciliazione e arbitrato in Europa, Giornale di
Diritto del lavoro e di relazioni industriali, n. 87, 2000, ed ivi,
soprattutto, il saggio di M. Grandi, La composizione stragiudiziale delle
controversie di lavoro nel Diritto italiano. Con riferimento al pubblico
impiego v. il Contratto collettivo quadro in materia di procedure di conciliazione
e arbitrato, su cui v. Formez, Il contenzioso nel lavoro pubblico, Roma, 2001.
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