La Cassazione consolida l’orientamento sull’immanenza e/o automaticità del danno alla professionalità da demansionamento o inattività forzata
Il
comportamento del datore di lavoro che lascia un lavoratore in condizioni di
inattività per lunghissimo tempo non solo viola la norma di cui all’art. 2103
c.c., ma lede il fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo
di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine
e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal
mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza.
La dignità professionale del lavoratore, intesa come
esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel
contesto lavorativo, è un bene immateriale per eccellenza e la sua lesione
produce automaticamente un danno (non economico ma comunque) rilevante sul
piano patrimoniale (per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore),
determinabile necessariamente solo in via equitativa.
Tale statuizione è conforme alla
ricostruzione del danno da demansionamento professionale data dalla
giurisprudenza di legittimità nella sua più recente evoluzione. In diverse,
significative, pronunce questo giudice ha, infatti, rilevato che la modifica
"in peius" (ovvero la negazione o l’impedimento) delle mansioni dà
luogo ad una pluralità di pregiudizi, solo in parte incidenti sulla
potenzialità economica del lavoratore. Infatti il demansionamento non solo
viola lo specifico divieto di cui all’articolo 2103 c.c., ma ridonda in lesione
del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del
lavoratore nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla
vita professionale e di relazione dell’interessato, con una indubbia dimensione
patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche
in via equitativa (Cass. 11727/99, 14443/00). L’affermazione di un valore
superiore della professionalità, direttamente collegato a un diritto
fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a carattere
immateriale, in qualche modo supera e integra la precedente affermazione che la
mortificazione della professionalità del lavoratore potesse dar luogo a
risarcimento solo ove venisse fornita la prova dell’effettiva sussistenza di un
danno patrimoniale (cfr. le sentenze 7905/98, 1026/97,3686/96 e 8835/91).
Prova, viceversa, che, secondo le ricordate pronunce, rimane necessaria per
quanto riguarda l’eventuale danno materiale, il pregiudizio economico cioè
subito dal lavoratore anche in termini di guadagno non conseguito per effetto
della perdita di concreti vantaggi necessariamente legati allo svolgimento
delle mansioni negate.
Con ricorso al pretore di Roma
Domenico Perna esponeva che dal 1970 al 1973 aveva lavorato come attore alle
dipendenze della Rai Spa; che dal 1973 al 1989 la Rai, pur retribuendolo, non
lo aveva fatto più lavorare sicché era responsabile dei danni derivanti: da
inattività protrattasi per sedici anni; da perdita dell’equo compenso ex
articolo 80 della legge sul diritto d’autore; da mancata conclusione di
contratti artistici con terzi; da mancata percezione degli aumenti di merito di
cui all’articolo 8 del regolamento contrattuale; da lesione del diritto alla
notorietà.
Nel contraddittorio con la Rai, il
pretore, con sentenza non definitiva del 15 luglio 1992, dichiarava il diritto
del Perna ad essere utilizzato sia nella produzione radiofonica che televisiva
e rimetteva la causa sul ruolo per la determinazione delle inadempienze della
Rai e per la quantificazione dell’eventuale danno. Quindi, con sentenza
definitiva del 22 aprile 1994 condannava la società datrice di lavoro a pagare
al Perna la somma di lire 100 milioni a titolo di risarcimento del danno per
inattività.
Contro le due sentenze proponevano
appello entrambe le parti evidenziandone l’erroneità sotto più profili.
Disposta
la riunione dei giudizi, con sentenza del 7 settembre 1998, il tribunale di
Roma ha accolto parzialmente l’appello del Perna (precisamente, in punto di
liquidazione delle spese di lite e di correzione di errore materiale della
sentenza non definitiva del 15 luglio 1992) e ha respinto quello della Rai.
In motivazione il giudice del
gravame ha osservato che infondate erano le eccezioni (litispendenza, nullità
dell’appello del Perna, mancata sospensione del giudizio sul quantum in
attesa della definizione di quello sull’an) sollevate dalla Rai. Nel
merito, ha accertato che il Perna era stato assunto dalla Rai nel 1970 per lo
svolgimento di mansioni di attore di terza categoria e che, in base al
contratto intervenuto tra le parti, era tenuto a rendere una prestazione
giornaliera di cinque ore per la produzione di programmi radiofonici, ovvero di
sei ore e trenta per i programmi televisivi, per sei giorni la settimana. Ha
quindi affermato che la sostanziale inattività del Perna nell’arco di sedici
anni, a partire dal 1973, era un dato provato in giudizio come imputabile alla
Rai e integrava violazione dell’art. 2103 c.c., nonché del fondamentale diritto
al lavoro, inteso quale mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun
cittadino. Ha proseguito osservando che la violazione, protratta per anni, di
quel diritto fondamentale, aveva certamente leso la professionalità e
l’immagine del Perna, cioè il bene definito in ricorso come
"notorietà", producendogli per ciò stesso un danno che correttamente
era stato quantificato nella somma indicata in via equitativa dal pretore
utilizzando come parametro la retribuzione percepita dal lavoratore mese per
mese nel periodo di demansionamento.
Quanto poi alla asserita (dalla
Rai) non imputabilità dell’inadempimento, il tribunale ha affermato che
l’assunto appariva del tutto inadeguato a fronte di un’attività disimpegnabile
dal dipendente in produzioni, radiofoniche e televisive, nelle quali la società
era impegnata giornalmente per 24 ore e su più reti; e comunque era rimasto del
tutto indimostrato con riferimento ad entrambi i profili dedotti a
giustificazione del comportamento datoriale, non essendo state avanzate né
reiterate sul punto richieste istruttorie.
Ha disatteso, inoltre, la
doglianza della Rai relativa all’aggravamento del danno professionale per
comportamento colposo del dipendente, e passando ad esaminare le (altre) voci
di danno pretese dal Perna (equo compenso, mancata conclusione di contratti,
aumenti di merito) ha evidenziato: quanto alla prima, che mancava del tutto la
prova del fatto costitutivo del vantato diritto; quanto alla seconda, che la
stessa era del pari sfornita di prova e comunque contraddetta dalle deduzioni
di cui al punto 8) del ricorso introduttivo; quanto alla terza, che gli aumenti
di merito erano rimessi alla discrezionalità del datore di lavoro e non potevano
ritenersi perciò conseguenza normale e diretta dell’inadempimento.
Il Perna chiede la cassazione di
questa sentenza con ricorso fondato su cinque motivi. La società Rai, nel
controricorso, propone, a sua volta, ricorso incidentale affidato a tre motivi,
ai quali resiste il Perna. Le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
Il ricorso principale e quello
incidentale devono essere riuniti ai sensi dell’articolo 335 c.p.c. perché
proposti contro la stessa sentenza.
Con il primo motivo del ricorso
principale Domenico Perna censura la sentenza impugnata per violazione e falsa
applicazione dell’art. 2103 c.c., degli artt. 1362 e seguenti c.c., nonché per
vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, con riferimento
alla interpretazione del contratto di lavoro (art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.).
Sostiene che il tribunale non ha
considerato la intenzione delle parti di stipulare un contratto di scrittura
artistica, contratto che si qualifica per l’interesse dell’artista interprete
ad eseguire le attività concordate, in quanto il suo lavoro – e quindi la sua
"notorietà" - si arricchiscono sempre più con l’interpretazione e con
i conseguenti riconoscimenti di critica e di pubblico. Conseguentemente il
danno provocato dalla esclusione di esso ricorrente da qualsiasi parte, doveva
essere risarcito in modo consono alla sua personalità, alla sua fama e alle sue
immense possibilità di impiego come attore, ossia con una determinazione
"qualificata". Non corretta, pertanto, sarebbe la quantificazione del
danno operata con il semplice calcolo dell’aumento del 50% (rectius 29%)
delle retribuzioni percepite, in quanto il giudice del merito, visto il
gravissimo inadempimento del datore di lavoro, avrebbe dovuto considerare e
valutare sia gli elementi specifici del contratto in essere tra le parti, sia i
programmi in cui il Perna avrebbe dovuto e/o potuto essere impiegato come
attore (anche con riferimento alle prove richieste sul punto) e quantificare,
seppure in via equitativa ma tenendo conto comunque di questi specifici
elementi, il danno da risarcire.
Con il secondo motivo e con
denuncia di vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione
(articolo 360 numero 5 c.p.c.) assume il ricorrente che il tribunale ha omesso di
pronunciarsi sulla sua richiesta di mezzi istruttori, che gli avrebbero
consentito di quantificare il danno subito tenendo in doveroso conto le proprie
capacità artistiche e professionali e le "parti" che avrebbe potuto e
dovuto effettuare come attore se la Rai non si fosse resa inadempiente agli
obblighi contrattuali. Il tribunale, a tal fine, avrebbe dovuto: a) ammettere
le prove testimoniali richieste con l’atto introduttivo; b) disporre la
esibizione dei palinsesti Rai dal 1973 al 1989; c) disporre la esibizione degli
orari di lavoro di esso ricorrente dal 1973 al 1989; d) disporre Ctu al fine di
accertare in quali e quante programmazioni il Perna poteva essere impiegato; e)
disporre che la Rai esibisse l’elenco degli attori a tempo indeterminato e gli
spettacoli delle reti televisive e radiofoniche in cui erano stati impegnati,
nonché una panoramica di tutti gli spettacoli e produzioni, dal 1973 al 1989,
in cui il Perna doveva essere impiegato in forza dell’articolo 11 del contratto
artistico di lavoro; f) disporre la esibizione di tutti gli appalti artistici
delle reti televisive e radiofoniche concessi a ditte esterne con la
indicazione dei compensi versati agli attori non Rai.
Con il terzo motivo e sempre con
denuncia di vizio di motivazione omessa insufficiente e contraddittoria (art.
360 n. 5 c.p.c.) il Perna sostiene che l’affermazione, secondo la quale il
danno era stato liquidato in misura pari al 50% della retribuzione da lui
percepita nel periodo di cui è causa, è contraddetta dal fatto che la Rai, in
tale periodo, ebbe a corrispondergli la somma di lire 309 milioni ed il 50% di
tale somma ammonta evidentemente a 154 milioni e non a 100 milioni come
liquidato dai giudici a quo. In sostanza il tribunale ha commesso un
errore causato da una inesatta determinazione dei presupposti numerici di
un’operazione che si risolve in un vizio logico di motivazione della impugnata
sentenza.
Con il quarto motivo, lamentando
violazione e falsa applicazione degli art. 2120 e 2115 c.c. e delle leggi in
materia pensionistica, in relazione agli artt. 1226 c.c e 432 c.p.c., nonché
vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 n. 3 e 5
c.p.c.), assume il ricorrente il tribunale, pur avendo accertato la sussistenza
del suo diritto all’aumento retributivo, non ha poi provveduto a determinare le
somme a lui spettanti per l’incidenza di tale aumento nel trattamento di fine
rapporto e a dichiarare, altresì, il suo diritto alle "spettanze
pensionistiche" corrispondenti alle maggiori retribuzioni dovutegli.
Con il quinto motivo e con
denuncia di violazione e falsa applicazione dell’art. 80 L.d.a, degli articoli
1175 e 1375 c.c. nonché di vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione su punto decisivo (art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.), lamenta il ricorrente
che il tribunale abbia omesso di valutare il comportamento inadempiente della
Rai alla stregua delle regole di correttezza e buona fede nel decidere sulla
domanda di risarcimento dei danni per la perdita del diritto all’equo compenso
di cui all’articolo 80 della legge sul diritto d’autore e per la mancata
corresponsione degli aumenti di merito. Il Perna, infatti, avrebbe potuto
recitare nelle numerosissime opere e programmi realizzati dalla società e
godere dei diritti nascenti dalla diffusione delle recitazioni eseguite (tra i
quali, quello a percepire l’equo compenso). Sul punto, sin dal primo grado,
erano stati richiesti numerosi mezzi istruttori, sicché il tribunale ha errato
a ritenere non provato il fatto costitutivo delle asserite perdite o
possibilità di guadagno. Quanto poi agli aumenti di merito, assume che, ove il
contratto preveda (come, nel caso, il regolamento Rai all’articolo 8) la loro
attribuzione come elemento costitutivo della retribuzione, gli stessi possono
essere considerati come semplice liberalità, ma assumono valore di
corrispettivo, soggetto, quindi, al controllo del giudice che deve verificare
la discrezionalità del datore di lavoro secondo i principi di correttezza e
buona fede.
Con il primo motivo del proprio
ricorso incidentale la società Rai censura la sentenza impugnata per violazione
e falsa applicazione degli artt. 2103, 1223, 1226 e 1227 c.c., dell’art. 112
c.p.c., nonché per omessa insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360
n. 3 e 5 c.p.c.), per avere il tribunale ritenuto la sussistenza di un danno
risarcibile in conseguenza della lesione della professionalità e dell’immagine
del Perna sulla base di sole presunzioni, benché (contraddittoriamente)
giudicate inidonee a sopperire al mancato assolvimento dell’onere probatorio.
Inoltre, il giudice a quo avrebbe violato l’art. 112 c.p.c. con
l’affermare che l’inadempimento della Rai avrebbe "leso la professionalità
e l’immagine del ricorrente" perché il Perna aveva domandato unicamente il
risarcimento del danno per la lesione del "diritto di notorietà". La
motivazione della sentenza d’appello sarebbe, altresì, contraddittoria nella
parte in cui, da un lato, riconosce la esistenza del danno e, per altro verso,
osserva che il Perna aveva ricevuto alcune importanti proposte di lavoro, da
lui rifiutate in ossequio al contratto che lo legava alla Rai; la circostanza,
invero, dimostrerebbe che, comunque, nessun effetto pregiudizievole aveva
prodotto l’asserita inattività. Censura, infine, le considerazioni con le quali
il giudice di appello ha escluso la rilevanza del comportamento del Perna
nell’aggravamento del danno professionale, osservando che in due sole occasioni
(non già "più volte") il lavoratore aveva chiesto di essere
utilizzato, e che l’aver proposto l’azione giudiziaria dopo più di quindici
anni dall’inizio dell’inattività integrava una condotta acquiescente e omissiva
che non poteva essere negata con la mera argomentazione che "la decisione
di agire in giudizio … necessita di adeguata meditazione".
Con il secondo motivo e con
deduzione di violazione e falsa applicazione dell’art. 2118 c.c. (recte
1218 c.c.), nonché del vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione (art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.) la sentenza del tribunale è censurata
per aver ritenuto del tutto indimostrato l’assunto della Rai circa la non
imputabilità dell’inadempimento, disattendendo gli elementi acquisiti al
processo e ignorando che il pretore, nella sentenza non definitiva, aveva
ravvisato la indispensabilità di un’indagine approfondita circa la gravità
dell’inadempimento (a tal fine rimettendo la causa sul ruolo) e prospettato la
indispensabilità di disporre una Ctu per stabilire un quadro delle opere in cui
il Perna era validamente collocabile.
Con il terzo motivo, denunciando
violazione e falsa applicazione dell’articolo 414 numero 4 c.p.c. in relazione
all’art. 434 c.p.c., nonché del vizio di omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione (art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.), la ricorrente assume
che erroneamente il tribunale ha escluso la nullità dell’atto di appello
proposto dal Perna, posto che lo stesso mancava del requisito della esposizione
dei fatti, non recano menzione dello svolgimento del processo, del contenuto
degli atti di parte né dei fatti che sarebbero stati a fondamento del ricorso,
così da non consentire la individuazione certa dei termini della controversia.
Il ricorso incidentale della
società Rai va esaminato per primo prospettando questioni logicamente
preliminari a quelle poste con il ricorso principale, e la verifica della
fondatezza del terzo dei tre motivi di impugnazione precede la valutazione
degli altri, dal momento che le censure ivi proposte investono la stessa
validità dell’appello del Perna.
Tali censure sono, peraltro,
infondate.
La Corte ha, infatti, più volte
chiarito (vedi, in particolare, Cass. 6312/99, 1156/95, 11971/95, 9316/94), che
il requisito della "sommaria esposizione dei fatti" richiesto
dall’articolo 342 c.p.c. (e, nel rito del lavoro, dall’art. 434 c.p.c.) è
funzionale alla individuazione delle censure mosse dall’appellante e, in quanto
tale, non esige una parte espositiva formalmente autonoma e unitaria, ma può
emergere indirettamente dalle argomentazioni svolte a sostegno dei motivi di
appello, ove questi forniscano gli elementi idonei a consentire
l’individuazione dell’oggetto della controversia e delle ragioni del gravame.
Il giudizio da rendere al riguardo deve essere, quindi, formulato sulla base
del contenuto complessivo dell’atto, con apprezzamento del giudice del merito sindacabile
in sede di legittimità solo per vizi di motivazione.
Vizi che, nel caso, non
sussistono, apparendo in tutto coerente con il ricordato principio la
valutazione del tribunale che ha escluso la nullità osservando che il ricorso
in appello del Perna presentava tutti i requisiti di legge necessari per il
raggiungimento dello scopo cui l’atto è preordinato e conteneva, in
particolare, una esaustiva esposizione dei fatti e delle ragioni di diritto.
Ma infondati sono anche il primo e
il secondo motivo del ricorso incidentale.
Quanto al primo motivo, osserva la
corte che il tribunale, una volta accertato che il Perna era stato lasciato in
condizione di inattività per lunghissimo tempo, a fronte dell’obbligo assunto
della Rai di farlo lavorare ogni giorno per cinque o sei ore (a seconda del
tipo di prestazione, radiofonica o televisiva), ha ritenuto che il
comportamento datoriale non solo violava la norma di cui all’art. 2103 c.c., ma
era al tempo stesso lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto
come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché
dell’immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente
mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di
appartenenza.
In sostanza con tale affermazione
il giudice di appello ha enunciato un concetto di lesione di un bene
immateriale per eccellenza, qual è la dignità professionale del lavoratore,
intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità
nel contesto lavorativo, e ha ritenuto che tale lesione produca automaticamente
un danno (non economico ma comunque) rilevante sul piano patrimoniale (per la
sua attinenza agli interessi personali del lavoratore), anche se determinabile
necessariamente solo in via equitativa.
La corte non ritiene censurabile
la statuizione, che è conforme alla ricostruzione del danno da demansionamento
professionale data dalla giurisprudenza di legittimità nella sua più recente
evoluzione. In diverse, significative, pronunce questo giudice ha, infatti,
rilevato che la modifica "in peius" (ovvero la negazione o
l’impedimento) delle mansioni dà luogo ad una pluralità di pregiudizi, solo in
parte incidenti sulla potenzialità economica del lavoratore. Infatti il
demansionamento non solo viola lo specifico divieto di cui all’articolo 2103 c.c.,
ma ridonda in lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della
personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che
incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato, con una
indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di
valutazione anche in via equitativa (Cass. 11727/99, 14443/00).
L’affermazione di un valore
superiore della professionalità, direttamente collegato a un diritto
fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a carattere
immateriale, in qualche modo supera e integra la precedente affermazione che la
mortificazione della professionalità del lavoratore potesse dar luogo a
risarcimento solo ove venisse fornita la prova dell’effettiva sussistenza di un
danno patrimoniale (cfr. le sentenze 7905/98, 1026/97,3686/96 e 8835/91).
Prova, viceversa, che, secondo le ricordate pronunce, rimane necessaria per
quanto riguarda l’eventuale danno materiale, il pregiudizio economico cioè
subito dal lavoratore anche in termini di guadagno non conseguito per effetto
della perdita di concreti vantaggi necessariamente legati allo svolgimento
delle mansioni negate.
Con ciò, rimangono in ogni caso
superate (limitandosi la corte a correggere la motivazione nell’esercizio dei
poteri di cui all’art. 384, comma 1, c.p.c.) le contraddizioni che si dicono
esistenti nel ragionamento svolto dal giudice del merito in punto di prova
della sussistenza di un danno risarcibile.
Non sussiste, inoltre, la
denunciata violazione dell’art. 112 c.p.c., posto che parlando di lesione della
professionalità e della immagine del lavoratore il tribunale ha ben spiegato
che, con tale espressione, intendeva dare contenuto al bene definito nel
ricorso introduttivo come "notorietà".
Neppure è censurabile la
motivazione con la quale è stata negata rilevanza al comportamento del Perna
nell’aggravamento del danno professionale, non riscontrandosi illogicità e
contraddizioni nelle valutazioni in fatto operate dal giudice del merito,
laddove i rilievi svolti dalla società ricorrente, senza evidenziare il mancato
esame di elementi e circostanza decisivi, appaiono intesi a sollecitare un
nuovo apprezzamento di merito che, secondo i principi, è inammissibile in sede
di legittimità.
Quanto, infine, al secondo motivo
di ricorso incidentale, è sufficiente osservare, per ritenerne la infondatezza,
che la società ricorrente non specifica quali fossero gli elementi probatori
acquisiti a dimostrazione del suo assunto e che sarebbero stati trascurati dal
tribunale; il che impedisce alla corte di verificarne la decisività, l’idoneità
cioè a comportare con ragionevole certezza una decisione diversa da quella
adottata (esigenza cui l’art. 360 n. 5 c.p.c. allude col riferimento al
"punto decisivo") e di ritenere, perciò, sussistenti i denunciati
vizi di motivazione. Il riferimento, poi, alla sentenza non definitiva del
pretore è inconsistente, essendo la stessa superata dalla sentenza definitiva
che, avendo condannato la Rai al risarcimento del danno da inadempimento
contrattuale, ne aveva, con tutta evidenza, presupposto la imputabilità.
Passando quindi all’esame del
primo motivo del ricorso principale, osserva la corte che, diversamente da quanto
nello stesso si sostiene, il giudice di appello, nel procedere alla
liquidazione, in via equitativa, del danno correlato alla lesione della
personalità del lavoratore, ha doverosamente tenuto conto della specificità e
delle caratteristiche della prestazione lavorativa oggetto del contratto di
scrittura artistica intervenuto tra le parti – ponendo in evidenza come la
stessa potesse arricchirsi di riconoscimenti e consensi solo con il suo
esercizio costante – nonché del dimostrato, notevole grado di notorietà
acquisito dal Perna negli anni immediatamente precedenti l’accantonamento
illegittimamente impostogli dal datore di lavoro.
Neppure arbitrario ed illogico
appare il ricorso in via parametrica alla retribuzione (anche) per una
quantificazione "qualificata" del danno alla professionalità del
lavoratore, non potendo negarsi che la retribuzione costituisce espressione
(per qualità e quantità, ai sensi dell’articolo 36 della Costituzione) anche
del contenuto professionale della prestazione, nel caso in esame concretamente
non accettata dalla Rai (e tuttavia ugualmente retribuita come se fosse stata
eseguita).
Quanto alle censure di cui al
secondo motivo si osserva che è principio costantemente affermato dalla
giurisprudenza di legittimità quello secondo cui il mancato esame di una
istanza istruttoria integra un vizio della sentenza impugnata, idoneo a
determinarne la cassazione, solo se e in quanto le circostanze che costituivano
oggetto della richiesta di parte siano decisive, siano tali cioè che, se valutate
ed esaminate correttamente avrebbero potuto condurre ad una decisione di merito
diversa da quella in concreto adottata.
Peraltro, il controllo sulla
ricorrenza del detto requisito della "decisività" non può essere
esercitato autonomamente dalla Corte di cassazione attraverso il diretto esame
degli atti e degli scritti difensivi dei precedenti gradi di giudizio, ma, per
il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, deve poter essere
compiuto sulla sola base delle deduzioni contenute nel ricorso stesso, alle cui
lacune non è consentito sopperire con indagini integrative
Costituisce, dunque, un preciso
onere della parte indicare specificamente nel ricorso – se del caso mediante la
loro integrale trascrizione – le circostanze che intendeva dimostrare con la
deduzione probatoria della quale lamenta la omessa considerazione (vedi, tra
tante, Cass. 1203/00, 3494/96, 381/95).
Nel caso, l’onere suddetto è
rimasto inadempiuto perché il ricorrente ha omesso di indicare le circostanze
che costituivano oggetto della richiesta prova testimoniale, essendosi limitato
a fare un mero e del tutto generico riferimento al fatto che la stessa avrebbe
chiarito le modalità di quantificazione del danno.
Ma neppure la sentenza impugnata
può costituire oggetto di censura per non avere il giudice del merito ordinato
la esibizione della documentazione in possesso del datore di lavoro, ovvero per
non aver disposto la richiesta consulenza tecnica di ufficio.
Noto è infatti il principio,
espresso dalla del tutto prevalente giurisprudenza di questa corte (vedi Cass.
1092/95, 2019/95, 9715/95, 6769/98, 15983/00) che l’ordine di esibizione di
documenti, ex art. 210 c.p.c., costituisce una facoltà discrezionale rimessa al
prudente apprezzamento del giudice del merito, che non è tenuto a specificare
le ragioni per le quali ritiene di non avvalersene. Ne consegue che il mancato
esercizio della suddetta facoltà non è sindacabile in sede di legittimità,
neppure sotto il profilo del difetto di motivazione.
Del pari, fermo restando che la
consulenza tecnica non costituisce un mezzo di prova (come sembra sostenere il
ricorrente) ma uno strumento per la valutazione della prova acquisita (a parte
il caso in cui si risolva nell’accertamento di fatti rilevabili unicamente con
l’ausilio di specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche, il che, nella
specie, non è dedotto), va considerato che rientra nel potere discrezionale del
giudice la decisione di ricorrere o meno all’assistenza di un consulente
tecnico, salvo il dovere di motivare adeguatamente il rigetto della istanza di
ammissione proveniente da una delle parti, quando in essa siano state indicate
le ragioni della indispensabilità delle indagini tecniche ai fini della
decisione (Cass. 14979/00).
Nel caso concreto, peraltro, il ricorrente
non spiega in che cosa consistessero tali ragioni, né fa cenno al fatto di
averle adeguatamente rappresentata al giudice a quo, la cui mancata
pronuncia sulla istanza in questione non può, conseguentemente, costituire
ragione di cassazione della impugnata sentenza sotto il profilo del vizio di
motivazione.
Anche il secondo motivo, dunque, è
privo di giuridico fondamento.
Con riferimento, poi, ai rilievi
svolti nel terzo motivo, è sufficiente osservare, per ritenerne la totale
infondatezza, che il tribunale (pagina 30 della sentenza) afferma testualmente
che "la liquidazione effettuata in via equitativa dal pretore appare
corretta, corrispondendo quasi integralmente a metà della retribuzione";
dove è evidente che parlare di liquidazione corrispondente "quasi
integralmente a metà della retribuzione" non equivale a dire che si tratta
di liquidazione corrispondente "a metà (ossia al 50%) della
retribuzione".
Oltretutto la circostanza che la
Rai avrebbe corrisposto al Perna la somma di lire 309 milioni, quali effettive
e totali retribuzioni del periodo controverso, appare dedotta inammissibilmente
per la prima volta in questa sede, in quanto nel ricorso non si fa cenno a
un’avvenuta allegazione della stessa in sede di merito.
Il quarto motivo, a sua volta, è
per certo privo di fondamento sol che si consideri che il diritto del
lavoratore accertato in sede di merito non è quello all’attribuzione di
maggiori retribuzioni, ma al risarcimento del danno derivante dalla violazione,
da parte del datore di lavoro, di precisi obblighi contrattuali, un diritto
cioè che trova titolo nella riconosciuta sussistenza di un’obbligazione
risarcitoria, in tutto estranea al sinallagma lavoro-retribuzione.
Né il
ricorrente sostiene di aver proposto (anche) una domanda di condanna del datore
di lavoro alla corresponsione di emolumenti non percepiti, e neppure afferma
che il giudice dl merito avrebbe mancato di esaminarla (la violazione dell’art.
112 c.p.c. non è dedotta); si tratta, quindi di questioni prospettate per la prima
volta in questa sede e che, in quanto modificano il tema di indagine e di
decisione proprio del giudizio di merito, involgendo altresì la necessità di
accertamenti di fatto, sono da considerare inammissibili (giurisprudenza
costante: per tutte, Cass. 1496/98, 4900/98, 9711/98).
Esaminando, infine, il quinto
motivo, non può non riaffermare la corte quanto più sopra considerato a
proposito della necessità, per il lavoratore che domandi, come nel caso di
specie, il risarcimento del danno consistente nel mancato conseguimento di un
trattamento economico dipendente, in via eventuale, dallo svolgimento delle
prestazioni negate, di allegare i fatti attraverso i quali il risultato
economico preteso si sarebbe realizzato, nonché il rapporto di necessità tra gli
stessi fatti e il demansionamento, e di fornire, altresì, la prova della
ricorrenza in concreto di quei fatti e di quella necessità attraverso la
combinazione dei quali solamente può dirsi venuto in essere il diritto fatto
valere.
Questo significa, in relazione al
mancato conseguimento dell’equo compenso, previsto dall’articolo 80 della legge
633/41 sul diritto di autore a favore dell’artista-attore per il caso di
ulteriore utilizzazione dell’opera, che il ricorrente doveva dimostrare che,
ove non fosse rimasto inattivo a causa dell’inadempimento del datore di lavoro,
per certo avrebbe acquisito il diritto a quel guadagno e, a tal fine, avrebbe
dovuto fornire indicazione e prova delle singole opere e trasmissioni
(radiofoniche e televisive) in concreto realizzate dalla Rai, nelle quali
sicuramente avrebbe potuto e dovuto essere impiegato, evidenziando, altresì, le
ragioni per le quali tale impiego si sarebbe verificato.
Sul punto il tribunale ha
affermato che mancava del tutto la prova del fatto costitutivo di questa
pretesa voce di danno, non avendo il ricorrente formulato al riguardo alcuna
richiesta istruttoria.
Il Perna assume oggi, che sin dal
primo grado del giudizio, erano stati richiesti numerosi mezzi istruttori,
senza peraltro chiarire in che cosa consistessero, né quali fossero i fatti e
le circostanze che gli stessi tendevano a dimostrare.
Se poi, come sembra, tali mezzi
istruttori erano quelli cui fanno riferimento le censure svolte nel secondo
motivo di ricorso, valgono le considerazioni che la corte ha al riguardo già
espresso per ritenerne la inammissibilità e comunque la infondatezza.
Da ultimo, non appare in nulla
censurabile la decisione del giudice del merito di negare al Perna gli aumenti
di merito, anch’essi richiesti dal ricorrente quale ulteriore voce di danno.
Una volta, infatti, che il tribunale ha accertato che la corresponsione di tali
emolumenti era rimessa alla discrezionalità del datore di lavoro, la loro
mancata attribuzione non può, per certo, essere configurata quale pregiudizio
economico conseguente all’inadempimento. A sua volta, la deduzione secondo cui
quell’accertamento sarebbe errato, perché la disciplina negoziale del rapporto
(contenuta nell’articolo 8 del regolamento Rai) configurerebbe gli aumenti
suddetti come elemento costitutivo della retribuzione, è priva di rilievo, in
quanto il ricorso non contiene alcuna specifica denuncia di violazione delle
regole legali di ermeneutica di cui agli articoli 1362 c.c., né lascia
comprendere in quali vizi di motivazione sarebbe incorsa la impugnata sentenza
nel trarre dalla interpretazione di quella disciplina negoziale le diverse
conclusioni cui è pervenuta.
In conclusione, sia il ricorso
principale che quello incidentale devono essere rigettati.
Le spese del presente giudizio di
cassazione sono compensate tra le parti.
La Corte riunisce i ricorsi e li
rigetta; compensa tra le parti le spese del presente giudizio.
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