Sommario:
1. Premessa
2.Il
panorama giurisprudenziale in tema di allegazione in giudizio di documentazione
d’ufficio
3.
L’orientamento più rigorista
4.(segue)
Ulteriori puntualizzazioni
5.L’orientamento
più flessibile
6.
Conclusioni
1. Premessa
E’
consuetudine, normalmente seguita dal
lavoratore nell’atto di sostenere le proprie pretese o diritti in un giudizio teso a rivendicare una
qualifica superiore o volto a prospettare una illegittima dequalificazione e
simili, quella di allegare documentazione d’ufficio, sia consistente in
circolari e comunicazioni aziendali sia in propri elaborati approntati nel
corso dell’attività svolta, di norma sottoscritti o firmati dal superiore o dal
Dirigente del servizio cui il lavoratore appartiene. Documentazione talora
costituita da veri e propri originali estratti dall’archivio aziendale, talora
da semplici fotocopie.
Conviene
che l’orientamento giurisprudenziale -
seppure in un certo qual senso variegato, su questo importante tema
- sia di pubblico dominio, affinchè il
lavoratore che ha trovato il coraggio di agire (e di reagire) giudizialmente in
corso di rapporto avverso le inadempienze del proprio datore di lavoro, non si
trovi esposto al realistico rischio di una sanzione disciplinare che può
dilatarsi fino al punto di privarlo dell’occupazione e cioè della fonte di
sostentamento personale e familiare.
E di
ciò si deve essere particolarmente edotti sia in linea generale sia
eminentemente nel settore del credito,
qui a causa della presenza di una giurisprudenza che - elitariamente ed
ingiustificatamente - pretende dal bancario un rapporto di più intensa
fiducia, in dipendenza dei compiti
suppostamente più delicati svolti dai prestatori all’interno dell’azienda di
credito (piuttosto che in quelle industriali o commerciali) ovvero in ragione
dell’asserita maggiore riservatezza delle informazioni che i bancari
gestirebbero o con le quali verrebbero in contatto.
2. Il panorama giurisprudenziale
in tema di allegazione in giudizio di documentazione d’ufficio
Va
partanto chiarito che se l’allegazione di documentazione d’ufficio, nel corso
di un giudizio, può apparire al prestatore di lavoro del tutto legittima e
strumentale all’esercizio del proprio diritto alla difesa ex art. 24 Cost.,
tale comportamento viene invece giudicato da una parte non indifferente e non
trascurabile della giurisprudenza, del tutto illecito ed idoneo a giustificare
la reazione datoriale (quantunque ritorsiva) anche nella veste della massima sanzione disciplinare (licenziamento) a
carico del dipendente, per violazione del dovere di fedeltà, ex art. 2105 c.c.
Ciò in considerazione del c.d. pregiudizio arrecato al diritto aziendale alla
riservatezza (o al segreto) sulla documentazione aziendale di propria
pertinenza.
Sul tema, la precedente e
piuttosto datata giurisprudenza della Cassazione (1) è stata aggiornata, nel
1993, da due decisioni della Suprema corte, l’una più elastica ed ispirata a
buon senso (2), l’altra più rigida ed intransigente (3) e, nel corso del 1996,
da Cass. n. 4328/1996 (4) inscrivibile nel filone della prima decisione, meno
formalistica e di maggiore buon senso. Di recente, nello stesso senso Cass. n.
1144 del 2 febbraio 2000 (4 bis).
La
prima (Cass.n. 215/’93) infatti, pur confermando il divieto di produzione in
giudizio di documentazione d’ufficio da parte dei lavoratori ricorrenti, ha
giudicato illegittima - per carente valutazione delle particolari circostanze
in cui era stata commessa l’infrazione nonché per sottovalutazione
dell’elemento intenzionale e del grado della colpa - la reazione aziendale del
licenziamento, in quanto la produzione della documentazione (costituita in
parte da minute ed elaborati redatti dai lavoratori rivendicanti la qualifica
superiore) era avvenuta dopo l’ordine giudiziale di esibizione rivolto dal
giudice al datore di lavoro (che allo stesso aveva ritenuto di non conformarsi)
e su sollecitazione rivolta ai lavoratori dal proprio legale (considerato
soggetto terzo), a fronte della mancata ammissione datoriale del contenuto dei
documenti stessi.
La
seconda decisione (Cass. n. 2560/’93, enfatizzata con particolare diffusione), è
stata invece talmente dura ed incisiva da riformare in peius - tramite
il licenziamento per giusta causa (o in tronco) - il precedente e
giuridicamente più mite provvedimento di licenziamento per giustificato motivo,
con spettanza del preavviso,
legittimato dal Tribunale di Milano (5) a carico di un funzionario del Servizio
ispettivo di una banca che, in un giudizio per la rivendicazione della
superiore qualifica dirigenziale, aveva allegato “fotocopie” di propri
elaborati, di istruttorie interne (o afferenti la clientela) dallo stesso
redatte e firmate dal superiore, di proposte o procedure predisposte dal
ricorrente (e divenute operative con la firma del Dirigente del Servizio) nonché di minute e corrispondenza varia.
La
terza e più recente decisione della Cassazione (n. 4328/’96, innanzi citata) ha
invece annullato il provvedimento di licenziamento legittimato dai giudici di
appello a fronte della produzione in giudizio di mere “fotocopie” - insuscettibili
di intaccare l’integrità degli archivi aziendali - in quanto tale gravissimo
provvedimento doveva ritenersi, ex art. 2106 c.c., sproporzionato rispetto alla
non rilevante illiceità del comportamento del prestatore di lavoro (illiceità
neppure adeguatamente accertata dai
giudici di merito, sussistendo vizi di motivazione in ordine al carattere
riservato dei documenti fotocopiati). Nello stesso senso si è espressa la
recentissima Cass. n. 1144 del 2 febbraio 2000, che ha ritenuto
sproporzionato - ex art. 2106 c.c. - il provvedimento di licenziamento nei
confronti di un lavoratore bancario che per esigenze di rivendicazione di
qualifica superiore aveva effettuato nel corso del rapporto in organico al
Servizio del Personale, fotocopie di documentazione (ritenuta non riservata dai
giudici di merito), alla cui redazione aveva contribuito, delle quali non si era
appropriato indebitamente ma ne aveva avuto il possesso in ragione del proprio
ufficio. La Cassazione ha condiviso sul punto l'opinione del Tribunale secondo
il quale era da ritenere "relativamente scusabile" il comportamento
del bancario - e pertanto non meritevole di essere sanzionato con un
provvedimento così drastico quale il licenziamento - in quanto fondato sul convincimento della utilizzabilità a fini
processuali degli atti del suo ufficio. Afferma la Cassazione, reiterando quanto
già detto nella precedente n. 4328/'96 che: "Se,
infatti, il diritto del lavoratore a difendersi in giudizio per la tutela
della propria posizione lavorativa deve avere un qualche contenuto, è
difficilmente contestabile che lo stesso possa prendere nota, e in modo
sufficientemente puntuale, di quella documentazione - che sostanzialmente
riguardi l'attività da lui espletata - di cui abbia giustificata
disponibilità, tanto più se essa costituisca in qualche modo, anche indiretto
ed in misura marginale, oggetto materiale dell'attività medesima (cfr. sul
punto Cass. 9 maggio 1996, n. 4328)".
3. L’orientamento più rigorista e
prevalente
Va
innanzitutto evidenziato che - secondo l’anteriore Cass. n. 2560/1993 come
secondo Cass. n. 4328/1996 - l’illiceità del comportamento del lavoratore
sussiste sia che questi produca in giudizio “originali” di documenti sia
“fotocopie” degli stessi, l’unica differenza consistendo, secondo il diverso
orientamento giurisprudenziale, nel grado di intensità dell’illecito, tale da
ripercuotersi sulla tipologia delle sanzioni dispiegabili (conservative o
espulsive, a secondo dei casi).
Nella
sentenza del Tribunale di Milano (che è stata pienamente condivisa
dall’orientamento intransigente e rigorista di Cass. n. 2560/1993) è stato
asserito che: “...si è molto discettato sulla distinzione tra asporto di
fotocopie e asporto di originale. Il Collegio non ha difficoltà a riconoscere
che l’estrazione di notizie mediante fotocopiatura è cosa diversa dall’asporto
dell’originale e che la fotocopiatura arbitraria è certamente meno grave
dell’asporto dell’originale.Si deve tuttavia riconoscere che anche l’estrazione
di copia (rectius, di fotocopia) è un modo di disporre di beni che appartengono
all’imprenditore, unico titolare del diritto di stabilire gli utilizzi più
conformi ai propri interessi”.
In
sostanza, anche la produzione in giudizio di “fotocopie” di documentazione
aziendale (riservata) costituisce violazione dell’obbligo di fedeltà -
estrinsecantesi, ex art. 2105 c.c., nel divieto di “divulgare notizie
attinenti all’organizzazione o ai metodi di produzione dell’impresa o di farne
uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio ”- disciplinarmente sanzionabile, con la
differenza, dal punto di vista della responsabilità penale, che mentre
l’asportazione di documento (in originale) di cui non si abbia la disponibilità
attualizza il reato di furto (a causa della sottrazione dagli archivi
aziendali), l’utilizzo di documento
aziendale di cui si abbia la disponibilità concretizza il reato di
“appropriazione indebita” (6).
A
difesa del lavoratore è stato tentativamente e correttamente sostenuto che la
c.d. “documentazione aziendale” prodotta in giudizio doveva, invero, essere
considerata “comune” alle parti (e non esclusivamente datoriale) in quanto
redatta dal lavoratore, come nel caso delle relazioni, degli elaborati, delle
proposte e simili. Ma - fatta salva la fotocopiatura di minute “personali” di
relazioni o atti di cui il lavoratore aveva assunto, da solo, la paternità e la
responsabilità in azienda - la magistratura (in questo caso Cass. n. 2560/1993,
aderendo a Trib. Milano 2.6.1990, cit.) ha argomentato che di norma i documenti
fotocopiati e prodotti in giudizio hanno circolato in azienda come atti del
Dirigente del Servizio che, apponendovi la propria sottoscrizione, di tali
documenti ha assunto la paternità e la responsabilità. A seguito
dell’assunzione di paternità da parte del Dirigente, la bozza, elaborato o
proposta del funzionario sottordinato diventa giuridicamente un “aliud” rispetto all’atto preparatorio e solo così
acquista natura decisoria ed incidenza operativa. Considerazioni queste che
hanno portato ad escludere l’assunto della “comunanza” del documento e
legittima la piena riconducibilità dello stesso quale “prodotto finito”
nell’ambito dell’esclusiva proprietà dell’azienda.
In
buona sostanza, la citata decisione di Cassazione (n. 2560/1993) ha stabilito che nella fase patologica del
rapporto - sconfinato in contrasto giudiziario - il dipendente non può giocare
“strappando” le carte dalle mani dell’avversario per rafforzare la propria
posizione processuale (sottovalutando, da una posizione troppo partigianamente
datoriale, il fatto che il lavoratore, per far acclarare ed esprimere con
tempestività un giudizio sulla qualità del proprio lavoro a fini di ottenere il
riconoscimento della qualifica superiore altro non poteva che sottoporre la
propria “produzione” alla valutazione del magistrato). Ma per sottrarsi a quest’ultimo rilievo di
buon senso, la Cassazione ha asserito che il dipendente che voglia provare le
proprie affermazioni può chiedere che il magistrato ordini al datore di lavoro
convenuto l’ispezione sulla documentazione probante ex art. 118 c.p.c. (che
recita: “il giudice può ordinare alle parti e ai terzi di consentire...sulle
cose in loro possesso le ispezioni che appaiono indispensabili per conoscere i
fatti di causa...Se la parte rifiuta di eseguire tale ordine senza giusto
motivo può da questo rifiuto desumere argomenti di prova a norma dell’art. 116,
2° co.”) ovvero l’esibizione della documentazione medesima ex art. 210
c.p.c. (che recita: “...il giudice istruttore, su istanza di parte, può
ordinare all’altra parte o ad un terzo di esibire in giudizio un documento o
altra cosa di cui ritenga necessaria l’acquisizione al processo. Nell’ordinare
l’esibizione il giudice dà i provvedimenti opportuni circa il tempo, il luogo
ed il modo dell’esibizione”).
Insomma
il contrasto fra il diritto del dipendente alla tutela giurisdizionale delle proprie rivendicazioni
e quello del datore di lavoro alla riservatezza, non può essere risolto
unilateralmente dal lavoratore, ma deve essere valutato in sede giudiziaria,
nella quale il datore di lavoro - a fronte dell’eventuale ordine di ispezione o
di esibizione impartito dal giudice - può resistere a tale comando, preferendo
esporsi alle conseguenze che il giudice
è libero di trarre ex art. 116 c.p.c. (afferente alla valutazione delle prove)
secondo cui: “ il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che
le parti gli danno..., dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le
ispezioni che egli ha ordinate e, in generale, dal contegno delle parti nel
processo”.
4. (segue) Ulteriori puntualizzazioni
In linea con quanto
soprariferito si è giunti quindi a sostenere che nel processo civile ciascuna
parte ha il diritto di non scoprire le proprie carte e può anche decidere di
rifiutare l’esibizione e soccombere piuttosto che mettere in pericolo il
riserbo che intende conservare attorno a taluni aspetti della propria
organizzazione.
Peraltro
se il codice di procedura civile ha circondato di cautele e posto sotto
controllo del giudice i modi e i tempi
dell’esibizione dei documenti (ad es. tramite estratto, senza menzione dei
nominativi dei terzi coinvolti e simili), sembra ragionevole ritenere - è stato
soggiunto - che il clamore del foro sotteso al “carattere pubblico”
dell’udienza integri per l’azienda quel pregiudizio alla riservatezza che
l’art. 2105 c.c. tende più a prevenire che a reprimere. E della tutela della
riservatezza beneficiano non solo le persone fisiche ma anche le persone
giuridiche, come documentano diverse norme del nostro ordinamento. E poichè la
Costituzione stessa, con le disposizioni che garantiscono i diritti
all’inviolabilità personale ed all’integrità del domicilio e della
corrispondenza (art.13, 14 e 15), preclude ingerenze rivolte all’acquisizione
di informazioni relative ad altri soggetti, nel contemperamento degli opposti
interessi si deve ritenere - ha sottolineato ancora Cass. n. 2560/1993 - che la
tutela del riserbo debba prevalere su quella della manifestazione del proprio
pensiero, che non può, nel caso del lavoratore subordinato, sconfinare nella
propalazione di notizie afferenti all’organizzazione e ai metodi di produzione
dell’impresa, quali possono evincersi da relazioni di lavoro predisposte a fini
meramente interni o da documenti sulla salute aziendale approntati - nella
fattispecie decisa - da un funzionario dell’ispettorato aziendale che è
notoriamente struttura caratterizzata da una pregnante riservatezza.
Anche
l’argomento a favore del lavoratore circa la necessità del riscontro di un
effettivo pregiudizio per l’azienda, arrecato in conseguenza della produzione
in giudizio di documentazione in parte riservata, al fine di legittimare la sanzione espulsiva aziendale, è stato
ritenuto irrilevante, affermandosi la sufficienza di un “pregiudizio
potenziale”, congiunta all’attitudine del comportamento del prestatore a
scuotere la fiducia che l’imprenditore deve poter riporre nel dipendente.
5. L’orientamento più flessibile
Questo
orientamento formalistico, sebbene non sia stato oggetto di opportuni
ripensamenti, è stato mitigato e ridimensionato nelle conseguenze a carico del
lavoratore da parte della recente Cass. 9 maggio 1996 n. 4328, innanzi
citata, che, pur ritenendo sanzionabile
la produzione in giudizio di
“fotocopie” di documenti aziendali “riservati”
da parte del lavoratore interessato al riconoscimento di una superiore
qualifica, ha cassato la decisione del Tribunale che aveva legittimato il
provvedimento di licenziamento per giustificato motivo soggettivo (notevole
inadempimento agli obblighi contrattuali, ex art. 3 L. n. 604/’66) nei
confronti del commesso che aveva prodotto numerose fotocopie (afferenti
l’oggetto della propria attività) in un giudizio teso al riconoscimento della
superiore qualifica di impiegato di banca, sia perchè:
a)
l’estrazione di fotocopie di documenti “non riservati” - non concretizzando il
reato di sottrazione di documentazione, l’unico idoneo a costituire attentato
all’integrità degli archivi aziendali - in un certo qual senso si rivela
strumentale al diritto del lavoratore di c.d. “agendazione” della
documentazione aziendale interna in sua disponibilità ai fini della tutela giudiziale della propria posizione
professionale. Asserisce, infatti, la Cassazione che se deve essere tutelato il
diritto dell’azienda alla riservatezza, deve essere tutelata altresì “l’esigenza
del lavoratore, che intenda avvalersi in giudizio della documentazione in
possesso di controparte” (datoriale, n.d.r.), consentendogli di
fornire “al giudice elementi circa la concreta esistenza dei documenti
stessi e l’indicazione di documenti specificamente individuati o
individuabili”. “Ed, in vista di ciò, se il diritto del lavoratore a difendersi
in giudizio per la tutela della propria posizione lavorativa deve avere un
qualche contenuto effettivo e pratico, è difficilmente contestabile che lo
stesso possa prendere nota, ed in modo sufficientemente puntuale, di quella
documentazione...cui abbia legittimamente accesso, tanto più se essa
costituisce in qualche modo, anche indiretto ed in misura marginale, oggetto
materiale dell’attività medesima”;
b) i
giudici del merito (Tribunale di Trapani) non erano stati convincenti nel
provare che le fotocopie in questione rappresentassero “tipologie organizzative
e gestionali dell’imprenditore“ che lo stesso avrebbe avuto interesse acchè
fossero tenute segrete, piuttosto che modulistica corrente in atto nelle
aziende di credito, come asseriva la difesa del lavoratore. Cioè a dire,
secondo i giudici di legittimità, le “fotocopie” - per occasionare la
sanzione espulsiva dall’azienda per
violazione dell’obbligo di fedeltà ex art. 2105 c.c. - dovevano con certezza ed inequivocamente attenere a
documentazione riservata non propalabile, afferente (secondo il contenuto dello stesso art. 2105 c.c.)
all’organizzazione ed ai metodi di produzione dell’impresa, improntati da
caratteristiche di riservatezza.
6. Conclusioni
Nel concludere, tenendo necessariamente conto dell’attuale stato
di relativa incertezza della giurisprudenza sul problema specifico (con una
certa prevalenza di quella a sfavore del lavoratore), indirizziamo ai lavoratori
ricorrenti il suggerimento cautelativo di astenersi dalla produzione in
giudizio anche di mere “fotocopie” di documenti d’ufficio - salvo di quelli
che, per la loro diffusione introaziendale o per la loro non attinenza
all’organizzazione ed ai metodi di produzione dell’impresa, non abbiano
carattere intrinsecamente riservato (quali comunicati di servizio, circolari,
lettere affisse negli albi aziendali) o tale carattere di riservatezza abbiano
obiettivamente perduto per il tempo trascorso dall’emanazione o per la carenza
di attualità del contenuto degli stessi) - invitandoli a limitarsi nel ricorso
giudiziale a “sunteggiare” il contenuto dei documenti “riservati” (nel senso
innanzi esplicitato) nella parte di loro interesse ai fini probatori nonchè a
fornirne i dati identificativi (provenienza e/o data di redazione, e simili),
accompagnandoli dalla richiesta al magistrato di ordinarne l’ispezione o
l’esibizione giudiziale ex artt. 118 e 210 c.p.c. (per gli effetti valutativi
di cui all’art. 116 stesso codice).
(pubblicato in Notiziario del lavoro e previdenziale,
ed. de lillo, n. 6 del 25 febbraio ’98 e aggiornato a Cass.n.1144 del 2
febbraio 2000)
(1)
Vedi, Cass. 24.5.1985,
n. 3156 e Cass. 29.6.1981, n. 4229.
(2)
Cass. 11.11.1993, n.
215, in D&L, Riv. crit.
dir. lav. 1993, 603.
(3)
Cass. 2.3.1993, n. 2560,
in Not. giurisp. lav. 1993, 202, con le conclusioni difformi del P.M.
(4) Cass. 9.5.1996 n. 4328 si può leggere in Mass. giur. lav. 1996, 596, con nota non interamente condivisibile di Niccolai.
(4
bis) in Riv. it. dir. lav. 2001, II, 101, con nota di dissenso di Monaco,
L'obbligo di riservatezza delle persone giuridiche e la prestazione fedele:
un percorso di lettura.
(5) Con sentenza del 2.6.1990, in Not.
giurisp. lav. 1990, 824.
(6) Così Cass. pen. 30.4.1983 imp. Rampini, in Not.
giurisp. lav. 1983, 516.
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