Produzione in
giudizio di documentazione aziendale riservata: legittimità e condizioni
(aggiornamento
dell'Articolo n. 35 del sito)
Sommario:
1.
Premessa
e sintesi di Cass. 4.5.2002, n. 6420
2. Il panorama giurisprudenziale in tema di allegazione in
giudizio di documentazione d’ufficio
3. L’orientamento più rigorista (rifiutato da Cass. n.
6420/2002)
4. (segue) Ulteriori puntualizzazioni
5. L’orientamento intermedio più flessibile (superato da
quello più avanzato di Cass. n. 6420/2002)
6. Conclusioni
*********
1. Premessa e
sintesi di Cass. 4.5.2002, n. 6420
E’ consuetudine,
normalmente seguita dal lavoratore nell’atto di sostenere le proprie
pretese o diritti in un giudizio teso a
rivendicare una qualifica superiore o volto a prospettare una illegittima
dequalificazione e simili, quella di allegare documentazione d’ufficio, sia
consistente in circolari e comunicazioni aziendali sia in propri elaborati
approntati nel corso dell’attività svolta, di norma sottoscritti o firmati dal
superiore o dal Dirigente del servizio cui il lavoratore appartiene.
Documentazione talora costituita da veri e propri originali estratti
dall’archivio aziendale, talora da semplici fotocopie.
Conviene che l’orientamento giurisprudenziale - seppure in un certo qual senso (in
precedenza) variegato, su questo
importante tema - sia di pubblico dominio, affinché il lavoratore che ha
trovato il coraggio di agire (e di reagire) giudizialmente in corso di rapporto
avverso le inadempienze del proprio datore di lavoro, conosca come deve comportarsi e non si trovi esposto al rischio
di una sanzione disciplinare che può dilatarsi fino al punto di privarlo
dell’occupazione e cioè della fonte di sostentamento personale e familiare.
E di ciò si deve essere particolarmente edotti sia in linea
generale sia eminentemente nel settore del credito, qui a causa della presenza di una giurisprudenza che -
elitariamente e non sempre giustificatamente, a nostro avviso - pretende dal
bancario un rapporto di più intensa fiducia,
in dipendenza dei compiti suppostamente più delicati svolti dai
prestatori all’interno dell’azienda di credito (piuttosto che in quelle
industriali o commerciali) ovvero in ragione dell’asserita maggiore
riservatezza delle informazioni che i bancari gestirebbero o con le quali
verrebbero in contatto.
Sulla tematica – i cui precedenti riepilogheremo di seguito – si è
recentissimamente intrattenuta, in modo approfondito, convincente e chiarificatore – Cass. 4 maggio 2002, n.
6420 (1) affermando la legittimità della produzione in giudizio di fotocopie di
documentazione aziendale riservata, non già sottratta artatamente dagli archivi
aziendali non accessibili al prestatore di lavoro, ma detenuta in ragione del
disimpegno delle proprie mansioni e quindi entrata nella sfera della sua
disponibilità. Nella vertenza che ha visto, in primo e secondo grado, la
soccombenza di un dirigente della filiale di Ancona della Cassa di risparmio di
Fano – che aveva prodotto, a titolo
esemplificativo, fotocopie di 11 proposte di concessione fidi a clienti non
proseguite dalla direzione della banca, per dimostrare la dequalificazione in
cui era stato confinato – la Cassazione ha accolto il ricorso per reintegra nel
posto di lavoro proposto dal dirigente licenziato per “violazione dell’obbligo
di fedeltà” e riservatezza, affermando la legittimità e non sanzionabilità del
comportamento, con le argomentazioni riassunte nella massima che (da noi
elaborata) di seguito riportiamo: “L’obbligo di fedeltà di cui all’articolo
2105 c.c., circoscritto sostanzialmente al divieto di concorrenza nei confronti
del proprio datore di lavoro – ma giurisprudenzialmente ampliato ed integrato
dai principi di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.) - costituisce una “norma elastica” la cui
applicazione richiede un’attività di specificazione da parte del giudice di
merito alla stregua dei principi generali dell’ordinamento attuali nel contesto
storico sociale del momento e quindi, ora in periodo post-corporativo, in
aderenza in particolare al principio di
solidarietà ex art. 2 Cost.(che ha sostituito la “solidarietà corporativa” che lo caratterizzava), con la conseguenza
che l’attuale necessaria rilettura dell’art. 2105 cod. civ. comporta che la
clausola generale di buona fede deve abilitare il giudice a concedere spazio di
effettività, più che a valori etici e morali collocati fuori del “territorio
positivo”, ai valori sui quali si fonda il sistema giuridico e che per tale
ragione vantano un titolo poziore per
influenzare ed ottenere l’adempimento dell’obbligazione. Ne consegue che, nell’ipotesi
di produzione in giudizio (allo scopo di ottenere il risarcimento del danno
derivante da asserita dequalificazione) da parte del lavoratore di copia di
documenti aziendali riservati riguardanti clienti di un istituto di credito ed
in suo possesso per ragioni d’ufficio, non è configurabile la fattispecie della
sottrazione o spossessamento per l’azienda di documentazione riservata ma si
versa nell’ipotesi di mera allegazione nel fascicolo processuale di fotocopie
detenute in ragione delle proprie mansioni. Tale comportamento finalizzato al diritto di difesa ex art. 24 Cost., che prevale sul diritto di riservatezza dell’azienda
(garantito dalla norma elastica dell’art. 2105 c.c.) - considerato anche che
non determina la fattispecie della “divulgazione” della documentazione
riservata, in quanto esclusivamente prodotta nel processo in cui i soggetti che
ne dispongono sono tenuti al segreto d’ufficio –, si rivela pertanto non
sanzionabile e quindi legittimo, in quanto non sussistono ab imis i presupposti
per l’adozione di un provvedimento disciplinare (in generale e specie)
espulsivo.
Nel caso in esame, è incorso quindi in un decisivo errore il
Tribunale nel circoscrivere illegittimamente il diritto di difesa del
lavoratore, escludendo la liceità della produzione in giudizio di fotocopie di
documenti aziendali nella di lui disponibilità per ragioni d’ufficio ed è,
quindi, illegittimo - per errata
interpretazione del concetto dell’obbligo di fedeltà ex art 2105 cod. civ.,
dell’art.2119 cod. civ. e degli artt. 1 e 3 l. n. 604/66 - il licenziamento del lavoratore, che va
pertanto reintegrato ex art. 18 l. n. 300/70 nel posto di lavoro, mentre il
giudice del rinvio determinerà l’entità del risarcimento danno da licenziamento
illegittimo, ai sensi di legge”.
La S. corte con tale decisione prosegue speditamente nel
cammino dell’abbandono di principi giuridici formalistici, per mantenersi
aderente alla realtà concreta della vita di lavoro, cogliendo esattamente l’aspetto del lavoratore quale contraente
svantaggiato nel rapporto contrattuale. Soggetto difficoltizzato nel ricorso al
magistrato – oltre che dal timore realistico della compromissione per il futuro
dei rapporti con l’azienda datrice di lavoro che è solita memorizzare lo sgarbo dell’azione giudiziaria e l’indisponibilità a subire le vessazioni
inferte - da oneri probatori quasi diabolici (aggiuntivi alla già denunciate
“sacche di omertà “ dei colleghi d’ufficio di cui inibisce spessissimo le
testimonianze, cfr. l’affermazione in Cass. n. 143/2000). In questo sentiero di
apprezzabilissima concretezza – non reperibile di solito nei gradi inferiori,
talché è giocoforza suggerire ai
lavoratori, nonostante le esasperanti lungaggini processuali, di esperire tutti
i gradi del giudizio per sottoporre le proprie rivendicazioni e doglianze alla
valutazione finale di magistrati più esperti e, salvo eccezioni, di maggior
sensibilità sociale – la Cassazione, sia nell’ambito della sezione lavoro ma
eminentemente a sezioni unite, si era già incamminata con decisione,
travolgendo vecchi orientamenti, quali esemplificativamente quello in tema di
licenziabilità, per impossibilità sopravvenuta ex art. 1464 c.c., del
lavoratore divenuto inabile alle mansioni, statuendo: a) in questo caso
l’obbligo del reimpiego (cd. repêchage) in altri compiti semprechè sussistenti
in azienda (cfr. Cass. sez. un. n. 7755/1998); b) in altro caso il principio della insufficienza della
concezione meramente sinallagmatica a governare il rapporto di lavoro, con la
conseguenza della maturazione delle ferie in malattia (Cass. n. 14020/2001);
c) in altro caso ancora il principio
della sussistenza di un danno professionale in re ipsa per effetto di
demansionamento o dequalificazione lesiva, per violazione dell’art. 2103 c.c.,
del diritto costituzionale del singolo all’autorealizzazione attraverso il
lavoro e nella comunità di lavoro ex artt. 4, 2 e 41 Cost. (cfr. l’orientamento
oramai consolidato espresso da: Cass. sez. lav. 6 novembre 2000, n. 14443, Cass.
7 luglio 2001, n. 9228,Cass. 23 ottobre 2001, n. 13033, Cass. 2 novembre 2001,
n. 13580, Cass. 14 novembre 2001, nn. 14189 e 14199, Cass. 2 gennaio 2002, n.
10), sottraendo in tal modo il dequalificato alla dimostrazione (pretesa
incredibilmente in alcune oramai rifiutate decisioni) di aver subito un
pregiudizio alla professionalità, quando è fatto notorio sulla base del senso
comune (ex art.115 c.p.c.) che l’inutilizzo nelle mansioni e a maggior ragione
la forzata inattività provoca automaticamente un degrado professionale, tanto
maggiore quanto più lungo è il tempo di durata del demansionamento. In altre
fattispecie affermando: d) l’obbligo di sottrazione del lavoratore - a pena di incorrere in responsabilità civile ex art 2087 c.c. e penale per lesioni colpose, ex art. 590
c.p., per danno alla integrità psico-fisica - da mansioni “soggettivamente”
pregiudizievoli in ragione anche solo della propria struttura fisio/psichica e
di fragilità congenite di salute (cfr. Cass. sez. lav. 21 gennaio 2002, n.
572); e) la sufficienza, in mancanza di testimoni oculari, della versione della
vittima di molestie sessuali, se giudicata attendibile, ai fini
dell’accoglimento della richiesta di risarcimento del danno subito (cfr. Cass.
sez. lav. 22 aprile 2002, n. 5825); f) la delimitazione del concetto di
“obbligo di fedeltà” ex art. 2105 c.c. – su si intrattiene anche l’odierna
Cass. n. 6420/2002 – da intendersi in senso restrittivo (e non totalizzante od
assorbente tutti i comportamenti del
lavoratore), tanto che non è suscettibile di coprire gli illeciti datoriali e
tanto da mandar esente da sanzione disciplinare il dipendente che abbia
denunciato l’evasione fiscale datoriale alla guardia di finanza (consegnandogli
copia della bolla di accompagnamento), in quanto l’«obbligo di fedeltà» non
copre i fatti illeciti aziendali ed esonera il lavoratore dalla connivenza od
omertà (cfr. Cass. sez. lav. 16 gennaio 2001, n. 519).
Si tratta,
indubbiamente, di principi che vengono mal digeriti da chi aveva confidato
nella erezione incrollabile – in contrapposizione alle scarne rivendicazioni
giudiziarie della parte debole del rapporto che al magistrato ricorre quanto
proprio la situazione ha superato la soglia della tollerabilità psicologica e
quando è talmente convinta della antigiuridicità del comportamento datoriale,
da azzardare un irto percorso
giudiziale di conferma – di
sovrastrutture giuridico-formalistiche e probatorie deterrenti (fidando anche
nei tempi lunghi processuali, ai quali sembra, certo non a caso, non si voglia porre rimedio), sovrastrutture che
invece la Corte di cassazione sgretola ed abbatte. Secondo i conservatori ed i
soccombenti, ciò avverebbe in quanto sarebbe arrivata in Cassazione la generazione progressista dei “pretori
d’assalto” sessantottini, al cui annacquamento e/o neutralizzazione appare -
secondo taluno (2) - funzionale la contestata riforma governativa dell’ordinamento giudiziario, che contempla
criteri accelerati di accesso e di
selezione per la Cassazione in modo da inserire giovani magistrati rampanti,
docili e disponibili verso gli indirizzi del potere politico.
2. Il panorama
giurisprudenziale in tema di allegazione in giudizio di documentazione
d’ufficio
Tornando all’argomento in esame, va peraltro effettuato un excursus
dell’orientamento maturato antecedentemente alla riferita Cass. n. 6420 del 4
maggio 2002.
Nella concreta
realtà di lavoro l’allegazione di documentazione d’ufficio, nel corso di un
giudizio, può apparire al prestatore di lavoro del tutto legittima e
strumentale all’esercizio del proprio diritto alla difesa ex art. 24
Cost., mentre invece dal lato giuridico
tale comportamento è stato giudicato da
non trascurabile giurisprudenza
(in via di superamento), del tutto
illecito ed idoneo a giustificare la reazione datoriale (quantunque ritorsiva)
anche nella veste della massima
sanzione disciplinare (licenziamento) a carico del dipendente, per
violazione del dovere di fedeltà, ex art. 2105 c.c. Ciò in considerazione del
c.d. pregiudizio arrecato al diritto aziendale alla riservatezza (o al segreto)
sulla documentazione aziendale di propria pertinenza.
Sul
tema, la precedente e piuttosto datata giurisprudenza della Cassazione (3) è
stata aggiornata, nel 1993, da due decisioni della Suprema corte, l’una più
elastica ed ispirata a buon senso (4), l’altra più rigida ed intransigente (5)
e, nel corso del 1996, da Cass. n. 4328/1996 (6) inscrivibile nel filone della
prima decisione, meno formalistica e di maggiore buon senso. Di recente, nello
stesso senso del rifiuto delle sovrastrutture formalistiche, Cass. n. 1144 del
2 febbraio 2000 (7), seguita da Cass. 25 ottobre 2001, n. 13188 (8).
La prima (Cass.n. 215/’93) infatti, pur confermando il divieto di
produzione in giudizio di documentazione d’ufficio da parte dei lavoratori
ricorrenti, giunse a giudicare illegittima - per carente valutazione delle
particolari circostanze in cui era stata commessa l’infrazione nonché per
sottovalutazione dell’elemento intenzionale e del grado della colpa - la
reazione aziendale del licenziamento, in quanto la produzione della
documentazione (costituita in parte da minute ed elaborati redatti dai
lavoratori rivendicanti la qualifica superiore) era avvenuta dopo l’ordine
giudiziale di esibizione rivolto dal giudice al datore di lavoro (che allo
stesso aveva ritenuto di non conformarsi) e su sollecitazione rivolta ai
lavoratori dal proprio legale (considerato soggetto terzo), a fronte della
mancata ammissione datoriale del contenuto dei documenti stessi.
La seconda decisione (Cass. n. 2560/’93, enfatizzata con
particolare diffusione), fu invece talmente dura ed incisiva da riformare in
peius - tramite il licenziamento per giusta causa (o in tronco) - il
precedente e giuridicamente più mite provvedimento di licenziamento per
giustificato motivo, con spettanza del
preavviso, legittimato dal Tribunale di Milano (9) a carico di un funzionario
del Servizio ispettivo di una banca che, in un giudizio per la rivendicazione
della superiore qualifica dirigenziale, aveva allegato “fotocopie” di propri
elaborati, di istruttorie interne (o afferenti la clientela) dallo stesso
redatte e firmate dal superiore, di proposte o procedure predisposte dal
ricorrente (e divenute operative con la firma del Dirigente del Servizio)
nonché di minute e corrispondenza varia.
La terza e più recente decisione della Cassazione (n.
4328/’96, innanzi citata) annullò invece il provvedimento di licenziamento
legittimato dai giudici di appello a fronte della produzione in giudizio (da
parte di un commesso di banca rivendicante in giudizio la superiore qualifica
impiegatizia) di mere “fotocopie” - insuscettibili di intaccare l’integrità
degli archivi aziendali - in quanto tale gravissimo provvedimento doveva
ritenersi, ex art. 2106 c.c., sproporzionato rispetto alla non rilevante
illiceità del comportamento del prestatore di lavoro (illiceità neppure
adeguatamente accertata dai giudici di
merito, sussistendo vizi di motivazione in ordine al carattere riservato dei
documenti fotocopiati, in numero di 400, costituiti peraltro eminentemente
da distinte e modulistica bancaria
riportante il numero degli assegni circolari, prospettate enfaticamente dalla
banca al giudice quali “tipologie
organizzative e gestionali …da tenere segrete”).
Nello stesso senso si
espresse la successiva Cass. n. 1144 del 2 febbraio 2000, che ritenne
sproporzionato - ex art. 2106 c.c. - il provvedimento di licenziamento nei
confronti di un lavoratore bancario che per esigenze di rivendicazione di
qualifica superiore aveva effettuato nel corso del rapporto in organico al
Servizio del Personale, fotocopie di documentazione (ritenuta non riservata dai
giudici di merito), alla cui redazione aveva contribuito, delle quali non si
era appropriato indebitamente ma ne aveva avuto il possesso o la disponibilità
in ragione del proprio ufficio. La Cassazione condivise sul punto l'opinione
del Tribunale secondo il quale era da ritenere "relativamente scusabile"
il comportamento del bancario - e pertanto non meritevole di essere sanzionato
con un provvedimento così drastico quale il licenziamento - in quanto fondato
sul convincimento della utilizzabilità a fini processuali degli atti del suo
ufficio. Affermò la Cassazione, reiterando
considerazioni già esplicitate nella precedente decisione n. 4328/'96 che: "Se,
infatti, il diritto del lavoratore a difendersi in giudizio per la tutela della
propria posizione lavorativa deve avere un qualche contenuto, è difficilmente
contestabile che lo stesso possa prendere nota, e in modo sufficientemente
puntuale, di quella documentazione - che sostanzialmente riguardi l'attività da
lui espletata - di cui abbia giustificata disponibilità, tanto più se essa
costituisca in qualche modo, anche indiretto ed in misura marginale, oggetto
materiale dell'attività medesima (cfr. sul punto Cass. 9 maggio 1996, n. 4328)".
Ad essa ha fatto seguito Cass. sez. lav. 25 ottobre 2001, n.
13188 che ha ritenuto anch’essa
sproporzionata la sanzione del licenziamento nei confronti di un dipendente
dell’Alitalia che aveva fotocopiato documentazione aziendale –
producendola in una vertenza giudiziale di lavoro – giacché non si era
verificata (in ragione della mera allegazione al fascicolo processuale
gestibile e consultabile da soggetti tenuti al segreto professionale) la
lamentata “divulgazione” di notizie riservate, pur osservando che il
comportamento era censurabile dal lato della correttezza e lealtà e meritevole
di sanzione conservativa.
3. L’orientamento
più rigorista (rifiutato da Cass. n. 6420/2002)
Va innanzitutto evidenziato che - secondo l’anteriore Cass.
n. 2560/1993 come secondo Cass. n. 4328/1996 - l’illiceità del comportamento
del lavoratore è stata ritenuta sussistente sia che questi produca in giudizio
“originali” di documenti sia “fotocopie” degli stessi, l’unica differenza
consistendo, secondo il diverso orientamento giurisprudenziale, nel grado di
intensità dell’illecito, tale da ripercuotersi sulla tipologia delle sanzioni
dispiegabili (conservative o espulsive, a secondo dei casi).
Nella sentenza del Tribunale di Milano (che è stata
pienamente condivisa dall’orientamento intransigente e rigorista di Cass. n.
2560/1993) è stato asserito che: “...si è molto discettato sulla distinzione
tra asporto di fotocopie e asporto di originale. Il Collegio non ha difficoltà
a riconoscere che l’estrazione di notizie mediante fotocopiatura è cosa diversa
dall’asporto dell’originale e che la fotocopiatura arbitraria è certamente meno
grave dell’asporto dell’originale. Si deve tuttavia riconoscere che anche
l’estrazione di copia (rectius, di fotocopia) è un modo di disporre di beni che
appartengono all’imprenditore, unico titolare del diritto di stabilire gli
utilizzi più conformi ai propri interessi”.
In sostanza – secondo tale orientamento - anche la
produzione in giudizio di “fotocopie” di documentazione aziendale (riservata)
costituiva violazione dell’obbligo di fedeltà - estrinsecantesi, ex art. 2105
c.c., nel divieto di “divulgare notizie attinenti all’organizzazione o ai
metodi di produzione dell’impresa o di farne uso in modo da poter recare ad
essa pregiudizio ”-
disciplinarmente sanzionabile, con la differenza, dal punto di vista
della responsabilità penale, che mentre l’asportazione di documento (in
originale) di cui non si abbia la disponibilità attualizzava il reato di furto
(a causa della sottrazione dagli archivi aziendali), l’utilizzo di
documento aziendale di cui si abbia la
disponibilità concretizzava il reato di “appropriazione indebita” (10).
A difesa del lavoratore venne tentativamente e correttamente
sostenuto che la c.d. “documentazione aziendale” prodotta in giudizio doveva,
invero, essere considerata “comune” alle parti (e non esclusivamente datoriale)
in quanto redatta dal lavoratore, come nel caso delle relazioni, degli
elaborati, delle proposte e simili. Ma - fatta salva la fotocopiatura di minute
“personali” di relazioni o atti di cui il lavoratore aveva assunto, da solo, la
paternità e la responsabilità in azienda - la magistratura (in questo caso
Cass. n. 2560/1993, aderendo a Trib. Milano 2.6.1990, cit.) sostenne che di
norma i documenti fotocopiati e prodotti in giudizio hanno circolato in azienda
come atti del Dirigente del Servizio che, apponendovi la propria
sottoscrizione, di tali documenti ha assunto la paternità e la responsabilità.
A seguito dell’assunzione di paternità da parte del Dirigente, la bozza,
elaborato o proposta del funzionario sottordinato diventa giuridicamente un “aliud”
rispetto all’atto preparatorio e
solo così acquista natura decisoria ed incidenza operativa. Considerazioni
queste che hanno portato ad escludere l’assunto della “comunanza” del documento
e legittimato la piena riconducibilità dello stesso quale “prodotto finito”
nell’ambito dell’esclusiva proprietà dell’azienda.
In buona sostanza, la citata decisione di Cassazione (n. 2560/1993) stabilì che nella fase
patologica del rapporto - sconfinato in contrasto giudiziario - il dipendente
non può giocare “strappando” le carte dalle mani dell’avversario per rafforzare
la propria posizione processuale (sottovalutando, da una posizione troppo
partigianamente datoriale, il fatto che il lavoratore, per far acclarare ed
esprimere con tempestività un giudizio sulla qualità del proprio lavoro a fini
di ottenere il riconoscimento della qualifica superiore altro non poteva che
sottoporre la propria “produzione” alla valutazione del magistrato). Ma per sottrarsi a quest’ultimo rilievo di
buon senso, la Cassazione eresse le sovrastrutture giuridico-formalistiche
ostative per il contraente debole,
asserendo che il dipendente che voglia provare le proprie affermazioni
può chiedere che il magistrato ordini al datore di lavoro convenuto l’ispezione
sulla documentazione probante ex art. 118 c.p.c. (che recita: “il giudice
può ordinare alle parti e ai terzi di consentire...sulle cose in loro possesso
le ispezioni che appaiono indispensabili per conoscere i fatti di causa...Se la
parte rifiuta di eseguire tale ordine senza giusto motivo può da questo rifiuto
desumere argomenti di prova a norma dell’art. 116, 2° co.”) ovvero
l’esibizione della documentazione medesima ex art. 210 c.p.c. (che recita: “...il
giudice istruttore, su istanza di parte, può ordinare all’altra parte o ad un
terzo di esibire in giudizio un documento o altra cosa di cui ritenga
necessaria l’acquisizione al processo. Nell’ordinare l’esibizione il giudice dà
i provvedimenti opportuni circa il tempo, il luogo ed il modo dell’esibizione”).
Insomma – si disse – che
il contrasto fra il diritto del dipendente alla tutela giurisdizionale delle proprie rivendicazioni
e quello del datore di lavoro alla riservatezza, non può essere risolto
unilateralmente dal lavoratore, ma deve essere valutato in sede giudiziaria,
nella quale il datore di lavoro - a fronte dell’eventuale ordine di ispezione o
di esibizione impartito dal giudice - può resistere a tale comando, preferendo
esporsi alle conseguenze che il giudice
è libero di trarre ex art. 116 c.p.c. (afferente alla valutazione delle prove)
secondo cui: “ il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che
le parti gli danno..., dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le
ispezioni che egli ha ordinate e, in generale, dal contegno delle parti nel
processo”.
4. (segue)
Ulteriori puntualizzazioni
In linea
con quanto sopra riferito si è giunti quindi a sostenere che nel processo
civile ciascuna parte ha il diritto di non scoprire le proprie carte e può
anche decidere di rifiutare l’esibizione e soccombere piuttosto che mettere in
pericolo il riserbo che intende conservare attorno a taluni aspetti della
propria organizzazione.
Peraltro se il codice di procedura civile ha circondato di cautele
e posto sotto controllo del giudice i
modi e i tempi dell’esibizione dei documenti (ad es. tramite estratto, senza
menzione dei nominativi dei terzi coinvolti e simili), sembra ragionevole
ritenere - è stato soggiunto - che il clamore del foro sotteso al “carattere
pubblico” dell’udienza integri per l’azienda quel pregiudizio alla riservatezza
che l’art. 2105 c.c. tende più a prevenire che a reprimere. E della tutela
della riservatezza beneficiano non solo le persone fisiche ma anche le persone
giuridiche, come documentano diverse norme del nostro ordinamento. E poiché la
Costituzione stessa, con le disposizioni che garantiscono i diritti
all’inviolabilità personale ed all’integrità del domicilio e della
corrispondenza (art.13, 14 e 15), preclude ingerenze rivolte all’acquisizione
di informazioni relative ad altri soggetti, nel contemperamento degli opposti
interessi si deve ritenere - ha sottolineato ancora Cass. n. 2560/1993 - che la
tutela del riserbo debba prevalere su quella della manifestazione del proprio
pensiero, che non può, nel caso del lavoratore subordinato, sconfinare nella
propalazione di notizie afferenti all’organizzazione e ai metodi di produzione
dell’impresa, quali possono evincersi da relazioni di lavoro predisposte a fini
meramente interni o da documenti sulla salute aziendale approntati - nella
fattispecie decisa - da un funzionario dell’ispettorato aziendale che è
notoriamente struttura caratterizzata da una pregnante riservatezza.
Anche l’argomento a favore del lavoratore circa la necessità
del riscontro di un effettivo pregiudizio per l’azienda, arrecato in
conseguenza della produzione in giudizio di documentazione in parte riservata,
al fine di legittimare la sanzione
espulsiva aziendale, venne ritenuto irrilevante, affermandosi la sufficienza di
un “pregiudizio potenziale”, congiunta all’attitudine del comportamento del
prestatore a scuotere la fiducia che l’imprenditore deve poter riporre nel
dipendente.
5. L’orientamento
più flessibile (ora superato da quello più avanzato di Cass. n. 6420/2002)
Questo orientamento formalistico, sebbene non sia stato
oggetto di opportuni ripensamenti, è stato mitigato e ridimensionato nelle
conseguenze, a carico del lavoratore, da parte di Cass. 9 maggio 1996 n. 4328, innanzi citata, che, pur ritenendo sanzionabile la
produzione in giudizio di “fotocopie” di documenti aziendali “riservati” da
parte del lavoratore interessato al riconoscimento di una superiore qualifica,
ha cassato la decisione del Tribunale che aveva legittimato il provvedimento di
licenziamento per giustificato motivo soggettivo (notevole inadempimento agli
obblighi contrattuali, ex art. 3 L. n. 604/’66) nei confronti del commesso che
aveva prodotto numerose fotocopie (afferenti l’oggetto della propria attività)
in un giudizio teso al riconoscimento della superiore qualifica di impiegato di
banca, sia perché:
a) l’estrazione di fotocopie di documenti “non riservati” -
non concretizzando il reato di sottrazione di documentazione, l’unico idoneo a
costituire attentato all’integrità degli archivi aziendali - in un certo qual
senso si rivela strumentale al diritto del lavoratore di c.d. “agendazione”
della documentazione aziendale interna in sua disponibilità ai fini della tutela giudiziale della
propria posizione professionale. Asserisce, infatti, la Cassazione che se deve
essere tutelato il diritto dell’azienda alla riservatezza, deve essere tutelata
altresì “l’esigenza del lavoratore, che intenda avvalersi in giudizio della
documentazione in possesso di controparte” (datoriale, n.d.r.),
consentendogli di fornire “al giudice elementi circa la concreta esistenza
dei documenti stessi e l’indicazione di documenti specificamente individuati o
individuabili”. “Ed, in vista di ciò, se il diritto del lavoratore a difendersi
in giudizio per la tutela della propria posizione lavorativa deve avere un qualche
contenuto effettivo e pratico, è difficilmente contestabile che lo stesso possa
prendere nota, ed in modo sufficientemente puntuale, di quella
documentazione...cui abbia legittimamente accesso, tanto più se essa
costituisce in qualche modo, anche indiretto ed in misura marginale, oggetto
materiale dell’attività medesima”;
b) i giudici del merito (Tribunale di Trapani) non erano
stati convincenti nel provare che le fotocopie in questione rappresentassero
“tipologie organizzative e gestionali dell’imprenditore“ che lo stesso avrebbe
avuto interesse acchè fossero tenute segrete, piuttosto che modulistica
corrente in atto nelle aziende di credito, come asseriva la difesa del
lavoratore. Cioè a dire, secondo i giudici di legittimità, le “fotocopie” - per
occasionare la sanzione espulsiva
dall’azienda per violazione dell’obbligo di fedeltà ex art. 2105 c.c. -
dovevano con certezza ed
inequivocamente attenere a documentazione riservata non propalabile,
afferente (secondo il contenuto dello
stesso art. 2105 c.c.) all’organizzazione ed ai metodi di produzione
dell’impresa, improntati da caratteristiche di riservatezza.
6. Conclusioni
Ora con l’attuale decisione di Cass. 4 maggio 2002, n. 6420
ne esce affermata la legittimità della produzione in giudizio di fotocopie di
documentazione riservata, semprechè non sottratta ma nella propria
disponibilità per ragioni d’ufficio, in ragione: a) della prevalenza del diritto di difesa giudiziale ex art. 24
Cost. su quello alla riservatezza aziendale, desunta sia dal rango costituzionale dell’art. 24 (e dalla preminenza
giurisprudenzialmente accordata al diritto di difesa giudiziale sul diritto
alla riservatezza da parte della
giurisprudenza di legittimità: cfr. Cass. pen. 24.1.1989), sia da riferimenti
storici in ordine alla riforma del segreto d’ufficio (ipotizzato sacrificabile
in caso di difesa personale in giudizio), sia dal diritto (rinvenibile
nell’art. 12 l. n. 675/96 sulla cd. privacy) al trattamento dei dati
personali svincolato dalla necessità
del consenso dell’interessato quando
l’uso degli stessi sia necessario “per far valere o difendere un
diritto in sede giudiziaria …”, tanto da far affermare alla Corte che “ ciò
(è) a definitiva convalida della prevalenza del diritto di difesa in giudizio
da riconoscersi al prestatore di lavoro rispetto ad un’accezione genericamente
estesa dell’obbligo di fedeltà alla stregua del principio costituzionale
sancito dall’art. 24”; b)
dell’insussistenza del pregiudizio della “divulgazione” dei documenti destinati al solo inserimento nel fascicolo
processuale gestito e consultato da soggetti tutti quanti tenuti
processualmente al segreto d’ufficio.
Tale legittimità esce in maniera inequivoca poiché, pur occupandosi della sanzione del licenziamento, la S. corte cassa il Tribunale di Ancona affermando l’insussistenza “ab imis dei presupposti per l’adozione di un provvedimento disciplinare (in generale e specie) espulsivo”. Cosicché è viziato il tentativo di ridimensionamento della portata dei principi della decisione in oggetto, operato da un primo commentatore (11) laddove afferma - nelle “considerazioni critiche” a Cass. n. 6420/2002 - che “mette conto rilevare come alcuni principi enunciati dalla Cassazione suscitino notevoli perplessità tanto da far dubitare della ritenuta illegittimità del licenziamento, ancorché, a quanto pare, la Corte non escluda, esplicitamente, la legittimità di una sanzione conservativa”. L’operazione riduttiva è smentita dalla chiara affermazione legittimante e preclusiva di qualsiasi tipologia di sanzione, da noi sopra riferita. Si deve invece convenire con il predetto annotatore critico sulla successiva affermazione (dallo stesso fatta, in termini del tutto preoccupati) secondo cui: “Né sembra si possa ritenere che, riguardando la decisione un caso di specie, i criteri enunciati in motivazione non possano avere efficacia diffusiva”. Osservazione del tutto condivisibile e realistica, tant’è che se per mera ipotesi si volesse – in ragione del pregresso orientamento giurisprudenziale negativo e formalista testé ricusato – sollecitare l’intervento delle sezioni unite, l’odierna decisione è talmente ben argomentata che non dubitiamo minimamente della riconferma (in sede plenaria) dei principi di diritto in essa sanciti, che si sono affermati con gradualità grazie ad un terreno oramai dissodato da precedenti statuizioni, in linea di principio conformi.
Mario
Meucci
Roma, 24 maggio 2002
(*) Conforme, di recente, Cass. 7 dicembre 2004, n. 22923, in http://www.rassegna.it/2005/dirittolavoro/articoli/01.htm .
(1)
Vedila integralmente nel ns. sito http://clik.to/dirittolavoro
, sezione “Articoli”, n. 125.
(2) D’Avanzo, nell’articolo titolato “Un’altra
battaglia di civiltà: l’indipendenza della magistratura” nel ns. sito http://clik.to/dirittolavoro
, sezione “Articoli”, n.119.
(3) Vedi, Cass. 24.5.1985, n. 3156 e Cass.
29.6.1981, n. 4229.
(4) Cass. 11.11.1993, n. 215, in D&L, Riv. crit. dir. lav.
1993, 603.
(5) Cass. 2.3.1993, n. 2560, in Not.
giurisp. lav. 1993, 202, con le conclusioni difformi del P.M.
(6) Cass. 9.5.1996 n. 4328 si può leggere in Mass.
giur. lav. 1996, 596, con nota non interamente condivisibile di Niccolai.
(7) Cass. 2. 2 .2000, n. 1144 è reperibile
integralmente in Riv. it. dir. lav. 2001, II, 101, con nota di dissenso
di Monaco, L'obbligo di riservatezza delle persone giuridiche e la
prestazione fedele: un percorso di lettura. Riguardo a questa annotazione
della citata autrice, va detto che – a nostro avviso – le considerazioni su cui
poggiano le critiche alle concrete statuizioni della Cassazione appaiono
a dir poco astruse, intellettualoidi ed inconferenti, contrapponendo essa
all’orientamento giudiziale espresso la costruzione teorica di un’ impresa come “sacrario di riservatezza”, entità
produttrice di “beni e valori” (anche cartacei) riservati in assoluto, sottratti
alla divulgazione qualsiasi siano le esigenze dei prestatori di lavoro che
all’interno vi operano e sanzionabile per solo pregiudizio potenziale
(quand’anche non risulti alcun danno effettivo), conseguente a partecipazione
dei dati e documenti nel giudizio quanto a terzi. Così giungendo a negare
sostanzialmente una reale facoltà di sindacato giudiziario sulla
proporzionalità tra infrazione e sanzione, in quanto “sarebbe difficile
ipotizzare una possibile graduazione della risposta sanzionatoria” nei
confronti del comportamento del dipendente, lumeggiando - inespressamente ma concludentemente - la indiscussa legittimità dell’unica sanzione disciplinare rappresentata dal licenziamento.
(8) Cass
sez. lav. 25 ottobre 2001, n. 13188 trovasi nel ns. sito http://clik.to/dirittolavoro,
sezione “Articoli”, n. 89.
(9)
Con
sentenza del 2.6.1990, in Not. giurisp. lav. 1990, 824.
(10) Così Cass. pen. 30.4.1983 imp. Rampini, in Not.
giurisp. lav. 1983, 516.
(11) G.Gramiccia, nel
commento a Cass. n. 6420/2002, dal titolo “Un esercizio improprio della
tutela processuale che intacca il vincolo fiduciario con l’impresa”,
in Guida al diritto, ed. “Il
sole-24 ore”, n. 20/2002, p. 55 e ss.
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