Legittima la produzione in giudizio di fotocopie di documentazione aziendale riservata, detenuta in ragione delle mansioni disimpegnate.
Corte di cassazione, sezione lavoro, 4 maggio 2002, n. 6420 (ud. 23 gennaio 2002)
– Pres. Sciarelli – Rel. Balletti – Carotti (avv. Cucchieri,
Properzi) c. Carifano, Cassa di Risparmio di
Fano SpA (avv. Morosini, R. Scognamiglio).
Lavoro –
Obbligo di fedeltà ex art. 2105 c.c. – Norma elastica – Applicazione –
Interpretazione del giudice di merito -
In aderenza agli attuali principi dell’ordinamento e del principio di
solidarietà sociale ex art. 2 Cost. – Produzione in giudizio da parte del
lavoratore di fotocopie di documenti aziendali riservati, detenuti per
disimpegno delle proprie mansioni - Comportamento non sanzionabile in generale
(e specie con la massima sanzione espulsiva del licenziamento), per prevalenza
del diritto di difesa ex art. 24 Cost. sul diritto aziendale alla
riservatezza e per l’ intrinseca
insussistenza della “divulgazione”– Conseguente illegittimità del licenziamento e reintegrazione nel posto
d lavoro .
L’obbligo di fedeltà di cui all’articolo 2105 c.c.,
circoscritto sostanzialmente al divieto di concorrenza nei confronti del proprio
datore di lavoro – ma giurisprudenzialmente ampliato ed integrato dai principi
di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c. c.) - costituisce una “norma elastica” la cui
applicazione richiede un’attività di specificazione da parte del giudice di
merito alla stregua dei principi generali dell’ordinamento attuali nel contesto
storico sociale del momento e quindi, ora in periodo post-corporativo, in
aderenza in particolare al principio di
solidarietà ex art. 2 Cost. (che ha sostituito la “solidarietà corporativa” che lo caratterizzava), con la conseguenza che
l’attuale necessaria rilettura dell’art. 2105 cod. civ. comporta che la
clausola generale di buona fede deve abilitare il giudice a concedere spazio di
effettività, più che a valori etici e morali collocati fuori del “territorio
positivo”, ai valori sui quali si fonda il sistema giuridico e che per tale
ragione vantano un titolo poziore per
influenzare ed ottenere l’adempimento dell’obbligazione. Ne consegue che,
nell’ipotesi di produzione in giudizio (allo scopo di ottenere il risarcimento
del danno derivante da asserita dequalificazione) da parte del lavoratore di
copia di documenti aziendali riservati riguardanti clienti di un istituto di
credito ed in suo possesso per ragioni d’ufficio, non è configurabile la
fattispecie della sottrazione o spossessamento per l’azienda di documentazione
riservata ma si versa nell’ipotesi di mera allegazione nel fascicolo
processuale di fotocopie detenute in ragione delle proprie mansioni. Tale
comportamento finalizzato al diritto di difesa ex art. 24 Cost. che prevale sul diritto di riservatezza dell’azienda
(garantito dalla norma elastica dell’art. 2105 c.c.) - considerato anche che non determina la
fattispecie della “divulgazione” della documentazione riservata, in quanto
esclusivamente prodotta nel processo in cui i soggetti che ne dispongono sono
tenuti al segreto d’ufficio – si rivela pertanto non sanzionabile e quindi legittimo,
in quanto non sussistono ab imis i presupposti per l’adozione di un
provvedimento disciplinare (in generale e specie) espulsivo.
Nel caso in esame, è incorso quindi in un decisivo errore il
Tribunale nel circoscrivere illegittimamente il diritto di difesa del
lavoratore, escludendo la liceità della produzione in giudizio di fotocopie di
documenti aziendali nella di lui disponibilità per ragioni d’ufficio ed è,
quindi, illegittimo - per errata
interpretazione del concetto dell’obbligo di fedeltà ex art. 2105 cod. civ., dell’art.2119
cod. civ. e degli artt. 1 e 3 l. n. 604/66 - il licenziamento del lavoratore, che va pertanto reintegrato ex art.
18 l. n. 300/70 nel posto di lavoro, mentre il giudice del rinvio
determinerà l’entità del risarcimento danno da licenziamento illegittimo, ai
sensi di legge.
Con ricorso al Pretore-Giudice del lavoro di Ancona Walter
Carotti conveniva in giudizio la Cassa di Risparmio di Fano (CARIFANO) s.p.a.
esponendo:
*) che era stato assunto in data 1 gennaio 1994 alle
dipendenze della banca convenuta in qualità di direttore della filiale di Ancona,
«ritenendo che la sua esperienza e capacità professionale sarebbero state
adeguatamente valorizzate»;
*) che, invece, aveva «subito una gravissima quanto
ingiustificata dequalificazione da parte della Direzione della Carifano,
consistita in atteggiamenti lesivi della sua figura professionale con
conseguente grave perdita di autostima ed insorgenza di malesseri psicofisici»;
*) che aveva richiesto tutela giurisdizionale avverso tale
forma di dequalificazione professionale proponendo ricorso davanti al Pretore
di Ancona, in cui elencava undici casi più rilevanti di immotivato rifiuto
delle sue iniziative professionali, e depositando copia fotostatica dei
documenti ritenuti indispensabili ai fini della prova dei fatti allegati,
consistenti in atti interni della banca relativi a pratiche per la concessione
o l’ampliamento dei fidi;
*)
che a distanza di circa due mesi dalla notificazione del ricorso, la Carifano,
con lettera in data 3 giugno 1997, gli aveva contestato di aver prodotto
documentazione riservata in giudizio e, con successiva comunicazione del 26
giugno 1997, aveva disposto nei suoi confronti la dispensa dal servizio, con
immediato allontanamento mediante monetizzazione del preavviso. Il ricorrente
richiedeva, quindi, che fosse dichiarato nullo ed inefficace, o comunque
annullato, il provvedimento di dispensa dal servizio irrogatogli e, per
l’effetto, che la convenuta fosse condannata a reintegrarlo nel posto di lavoro
ed a corrispondergli a titolo di
risarcimento del danno tutte le retribuzioni perdute dal giorno della dispensa
a quello della effettiva reintegra.
Nel
relativo giudizio si costituiva la società convenuta che impugnava
integralmente la domanda attorea e ne
chiedeva il rigetto con ogni relativa conseguenza.
L’adito
Giudice del lavoro – dopo essersi
esaurita la procedura di urgenza (instaurata ex art. 700 cod. proc. civ. dal
Carotti) con provvedimento di rigetto (confermato dal Tribunale di Ancona in in
sede di reclamo ex art. 669 – terdecies cod. proc. civ.) – rigettava la
domanda con condanna del ricorrente alle spese e il Tribunale di Ancona (quale
Giudice del lavoro di secondo grado) su impugnativa della parte soccombente e
ricostituitosi il contraddittorio anche con l’intervento volontario nel
giudizio di appello dell’avv. Piergiovanni Alleva (il quale aveva difeso il
Carotti nel precedente giudizio) così decideva:
«dichiara
l’inammissibilità dell’intervento dell’avv. Piergiovanni Alleva con atto
depositato in data 18 gennaio 2000; rigetta l’appello proposto da Carotti
Walter; condanna l’appellante ed il terzo intervenuto, in via solidale, a
rifondere all’appellante le spese processuali del presente grado».
Per
quanto rileva ai fini del presente giudizio il Giudice di appello ha rimarcato
che: a) «è da rilevare preliminarmente
l’inammissibilità dell’intervento spiegato dal terzo avv. Piergiovanni Alleva,
il quale si è limitato a chiedere l’accoglimento dell’appello proposto dal
Carotti, senza far valere un’autonoma posizione giuridica, il che qualifica
detto intervento come ad adiuvandum»; b) il Carotti ha prodotto in copia
documenti aziendali riservati e «tale comportamento è idoneo a ledere in modo
insanabile il rapporto di fiducia che deve intercorrere fra datore di lavoro e
dipendente ex art. 2105 cod. civ.»; c) «il contrasto tra il diritto della banca
alla riservatezza delle notizie concernenti la propria attività e l’esercizio
del diritto del dipendente ad agire in
giudizio, costituzionalmente riconosciuto dagli artt. 24 e 36 Cost., non può
essere risolto in modo unilaterale attribuendo al lavoratore il potere di
divulgare notizie riservate, ma deve trovare il giusto contemperamento attraverso
lo strumento di tutela processuale apprestato dall’art. 118 e 210 cod. proc.
civ., che, da un lato, richiede l’intervento del giudice, dall’altro,
conferisce al datore di lavoro, di fronte ad un ordine di ispezione o di
esibizione, la facoltà di scegliere se ottemperare all’ordine del giudice
ovvero non divulgare il documento riservato, rimanendo però esposto alle
conseguenze che il giudice potrebbe trarre da siffatto comportamento ai sensi
dell’art. 116, secondo comma, e 118 cod. proc. civ.».
Per
la cassazione di tale sentenza Walter Carotti propone ricorso affidato a
quattro motivi e sostenuti da “memoria” ex art. 378 cod. proc. civ.
La
CARIFANO s.p.a. resiste con controricorso sostenuto da “memoria”.
L’intimato
avv. Piergiovanni Alleva non si è costituito.
Motivi della decisione
I.
Con il primo motivo il ricorrente – denunziando «omessa,
insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della
controversia » – censura la sentenza impugnata per aver dichiarato
inammissibile l’intervento ad adiuvandum dell’avv. Alleva perché non
integrante gli estremi di un autonomo diritto ex art. 344 cod. proc. civ.,
senza, peraltro, «rendere edotte le
motivazioni in forza delle quali l’interveniente non sarebbe stato portatore di
un autonomo diritto nel giudizio di appello».
Con
il secondo motivo di ricorso sono addebitate al Tribunale di Ancona «violazione
o falsa applicazione di norme di diritto e omessa, insufficiente o
contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia» in
quanto nella sentenza impugnata: a) «è stato dato per scontato che la
produzione di documenti in giudizio integri gli estremi della divulgazione,
senza fornire spiegazione alcuna su come questa affermazione potesse
conciliarsi con il segreto professionale imposto a tutti gli operatori
giuridici che, con quella documentazione, sarebbero, o sarebbero potuti,
entrare in contatto, [sicché] a ben vedere, nella fattispecie per cui è causa,
non c’è mai stata divulgazione di documenti, non sono mai stati integrati gli
estremi di cui all’art. 2105 c.c., che stigmatizza espressamente quei
comportamenti dei dipendenti finalizzati alla divulgazione di notizie attinenti
l’organizzazione e i metodi di produzione dell’impresa datrice di lavoro e
difettavano, ab origine, i presupposti di fatto per l’irrogazione
di una sanzione disciplinare gravissima, qual’ è il licenziamento»; b) «il
Carotti non ha mai sottratto alcunché avendo la piena disponibilità della
documentazione depositata in giudizio…mentre il comportamento legittimante il
licenziamento non è legato alla produzione di documentazione dell’azienda in un
giudizio ove si vuole tutelare un proprio diritto, bensì alla sottrazione di
documenti al datore di lavoro».
Con
il terzo motivo il ricorrente – denunziando «violazione e falsa applicazione
degli artt. 24 e 36 Cost. e omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione
circa un punto decisivo della controversia» e sollevando all’uopo questione di
legittimità costituzionale – rileva che «il diritto ad agire in giudizio per la
tutela di diritti e interessi legittimi, riconosciuto esplicitamente a tutti
dall’art. 24 Cost., costituisce un principio supremo dell’ordinamento
costituzionale, intimamente connesso con il principio di democrazia e consiste
nell’assicurare a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice ed un
giudizio, ove poter, in concreto, difendere la propria posizione
giuridica…[sicché] il lavoratore, per poter effettivamente e concretamente
tutelare in giudizio i propri diritti, deve essere ammesso alla produzione di
documentazione aziendale, mentre il Tribunale di Ancona, diversamente
ragionando, ha erroneamente ritenuto prevalente l’art. 2105 cod. civ. sull’art.
24 Cost.» e, di conseguenza, solleva «eccezione di costituzionalità
dell’art.2105 cit., che prevede la sussistenza dell’obbligo di fedeltà in capo
al lavoratore nei confronti del proprio datore di lavoro, nella parte in cui
non consente al dipendente, oggetto di vessazioni datoriali, di produrre, in un
giudizio, la documentazione aziendale probatoria del proprio diritto od
interesse ingiustamente leso o pretermesso, nella sua disponibilità»,
rimarcando, da ultimo, che «la prevalenza del diritto alla tutela giudiziale
dei propri diritti sul diritto alla riservatezza ha ricevuto compiuta regolamentazione
nella legge 31 dicembre 1996 n. 675, che ha disciplinato in modo organico e
protettivo il diritto alla cosiddetta privacy».
Con
il quarto motivo il ricorrente – denunziando «violazione e falsa applicazione
degli artt. 2119 cod. civ. e 1 e 3 della legge n. 604/1966, nonché omessa e
insufficiente motivazione circa un punto decisivo» – addebita al Giudice di
appello di avere erroneamente ritenuto sussistente nella specie il requisito
della «proporzionalità tra infrazione e sanzione »e, inoltre, di «avere desunto
intrinsecamente e potenzialmente dannosa la produzione in giudizio di
documentazione aziendale, a prescindere dal fatto dimostrato, che, in concreto,
la CARIFANO non abbia sofferto alcuna danno in conseguenza del predetto
deposito giudiziale, e di avere pensato bene di “liquidare” la questione circa
la sussistenza dell’elemento doloso o, almeno, colposo, nella condotta del
ricorrente, facendo riferimento al discutibile principio per cui il Carotti, in
considerazione della propria qualifica dirigenziale, non poteva non sapere che
la diffusione di documenti avrebbe comportato, almeno potenzialmente, un danno
alla banca», rilevando, altresì, che «in merito alla liceità della produzione
di documenti aziendali, aveva consultato un legale di fama nazionale e proprio
da questi aveva ricevuto positive assicurazioni circa la possibilità di
depositare in giudizio documentazione aziendale, purché la stessa si fosse
trovata nella materiale disponibilità del dipendente…tant’è vero che contro il cennato
legale (idest, l’avv. Alleva) ha instaurato una lite giudiziale
culminata con l’emissione di un’ordinanza che obbligava tale legale a
corrispondergli la somma di L. 250.000.000, quale risarcimento del danno dallo
stesso subito a causa della sua responsabilità professionale».
II. Il primo motivo di ricorso come dinanzi proposto si appalesa
inammissibile, in quanto sul “capo” della sentenza impugnata concernente la
declaratoria di inammissibilità dell’intervento spiegato dall’avv. Piergiovanni
Alleva sussisteva per il Carotti – così come esattamente eccepito dalla
controricorrente – una carenza di interesse ex art. 100 cod. proc. civ., non
essendo derivato al ricorrente medesimo un concreto ed apprezzabile pregiudizio
per effetto della declaratoria.
Infatti nella specie, non può verificarsi che la part.e
ricorrente, mediante il motivo in esame e attraverso la riforma del cennato “capo” della decisione, possa
comunque conseguire un risultato utile e giuridicamente apprezzabile, essendo
del tutto ininfluente alla sua posizione processuale che l’avv. Alleva fosse
legittimato, o meno, a intervenire in giudizio: per cui il primo motivo di
ricorso deve essere respinto.
III/a. Il
secondo, il terzo ed il quarto motivo di ricorso – esaminabili congiuntamente
in quanto intrinsecamente connessi – appaiono, invece, fondati.
In particolare (come si è già constatato e che qui si
rimarca sinteticamente) il ricorrente: a) con il secondo motivo,
addebita al Tribunale di Ancona di aver dato per scontato che il Carotti avesse
divulgato documentazione riservata (recte, produzione in giudizio di
fotocopia) riferentesi a clienti del proprio datore di lavoro e di aver così erroneamente statuito che il lavoratore avesse leso l’obbligo di fedeltà
ex art. 2105 cod. civ. e fosse, pertanto, passibile della massima sanzione
disciplinare, citando a conferma del decisum le non pertinenti sentenze
di questa Corte nn. 2560/1993 e 6352/1998; b) con il terzo motivo,
censura la sentenza per non aver considerato che il diritto di difesa sancito
dall’art. 24 Cost. (e di cui alla recente specifica applicazione ex art. 12
della legge 675/1996) debba essere
sempre assicurato ad ogni cittadino e, quindi,
anche al lavoratore (e, nella specie, la produzione in giudizio della
fotocopia dei documenti in questione era indispensabile ai fini probatori per
la tutela dei diritti giudizialmente azionati dal Carotti); c) con il quarto motivo, critica il giudice di appello per aver ritenuto sussistente in
modo apodittico e, comunque, irrazionale il requisito della proporzionalità tra
infrazione e sanzione disciplinare e intrinsecamente e potenzialmente dannosa
per la banca la cd. “divulgazione” della documentazione aziendale anche se
effettivamente la datrice di lavoro non avesse in concreto subito alcun danno
dalla produzione in giudizio delle fotocopie “incriminate”.
III/b. In
relazione alle cennate censure si evidenzia, al fine della precisa individuazione della fattispecie, che nella stessa
sentenza impugnata è stato precisato che:
*) «è pacifico che il Carotti, allo scopo di dimostrare i
fatti costitutivi della pretesa fatta valere nei confronti della banca davanti
al Pretore di Ancona in relazione a condotte da parte della direzione di
quest’ultima che egli riteneva lesive della sua posizione professionale, abbia
prodotto in copia documenti aziendali, della cui natura riservata non sembra
possibile dubitare, trattandosi di pratiche inerenti alla concessione e alla
modifica di fidi a clienti della banca»;
*) «detto comportamento è idoneo a ledere in modo insanabile
il rapporto di fiducia che deve intercorrere fra datore di lavoro e dipendenti
ai sensi dell’art. 2105 cod. civ. e ciò sia in relazione alla potenzialità
dannosa del fatto (per il pericolo di diffusione di dati concernenti la
situazione economica di clienti della banca e l’esistenza di eventuali
posizioni in sofferenza), sia per la posizione rivestita dal Carotti, il quale
era il direttore della filiale di Ancona»;
*) «la circostanza che nessun cliente abbia fatto
rimostranze o che la conoscenza sia rimasta circoscritta ai soggetti del
processo nel quale sono stati prodotti, a loro volta tenuti al segreto,
appaiono circostanze del tutto ininfluenti in quanto ai fini della rilevanza
disciplinare della violazione dell’obbligo di riservatezza occorre prescindere
dalla entità e dalla stessa esistenza
in concreto del danno conseguente alla violazione»;
*) « quanto al rapporto di proporzionalità fra infrazione e
la sanzione, nel rapporto di lavoro con un istituto di credito, la violazione
dell’obbligo di riservatezza comporta inevitabilmente la lesione dell’elemento
fiduciario, a prescindere dall’entità e dalla stessa esistenza in concreto del
danno conseguente a tale violazione, atteso il valore intrinseco, nell’attività
bancaria, della segretezza e della riservatezza, valore non affidabile
all’apprezzamento del singolo dipendente…e considerato che il Carotti non era
addetto a mansioni esecutive o impiegatizie, ma rivestiva una elevata posizione
funzionale quale direttore della filiale di Ancona della Carifano, il che non
può non determinare un giudizio di maggiore disvalore della condotta contestata
».
III/c. Tanto
precisato in merito alla posizione fattuale, si rileva – in merito alla
“violazione e falsa applicazione dell’art. 2105” (denunziate dal ricorrente) in
relazione al cui disposto il Tribunale di Ancona ha ritenuto legittimo il
licenziamento disciplinare de quo – che la cennata norma, sotto la
rubrica “obbligo di fedeltà”, ha previsto (a carico del lavoratore) il “divieto
di concorrenza” e il “divieto di divulgare notizie attinenti all’organizzazione
ed ai metodi di produzione dell’impresa o di farne uso in modo di poter recare
ad essa pregiudizio”.
In base ad una rigorosa interpretazione della disposizione
codicistica l’obbligo di fedeltà – pur nelle differenti ipotesi formalmente
previste dalla norma – atterrebbe comunque al divieto per il lavoratore di
svolgere attività concorrenziale con il proprio datore di lavoro e ciò di per
sé o anche attraverso la divulgazione (non di ogni notizia di pertinenza
dell’azienda, bensì solo) di quelle notizie “attinenti all’organizzazione e ai
metodi di produzione dell’impresa”.
Peraltro, in relazione al prevalente orientamento
giurisprudenziale, l’obbligo di fedeltà è venuto ad assumere un contenuto più
ampio di quello desumibile dal testo della norma essendo stato ricollegato ai
principi di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ. (cfr. ex plurimis, Cass.
n. 4952/1998).
In questo senso l’art. 2105 cod. civ., è stato fatto
rientrare nell’ambito delle cd. “norme elastiche” [e di quelle (ad esse connesse ma con le stesse non
confondibili) rientranti nella nozione di “clausola generale”], cioè delle
norme il cui contenuto, appunto, elastico richiede giudizi di valore in sede
applicativa, in quanto la gran parte delle espressioni giuridiche contenute in
norme di legge sono dotate di una certa genericità la quale necessita,
inevitabilmente, di un’opera di specificazione da parte del giudice che è
chiamato a darvi applicazione.
Al riguardo deve precisarsi che l’applicazione delle
disposizioni formulate in virtù dell’utilizzo di concetti giuridici
indeterminati non coinvolge un mero processo di identificazione dei caratteri
del caso singolo con gli elementi della fattispecie legale astratta e richiede, invece, da parte del
giudice l’esercizio di un notevole grado di discrezionalità al fine di
individuare nella specifica fattispecie concreta le ragioni che ne consentano
la riconduzione alle nozioni usate dalla norma. Entro siffatta valutazione il
giudice, oltre a risolvere la specifica controversia, partecipa in tal modo
alla formazione del concetto (e, cioè, alla sua progressiva definizione in
relazione al valore semantico del termine), con la precisazione che il significato
adottato non può prescindere dalle convenzioni semantiche sussistenti
all’interno di una data comunità in una certa epoca storica e, sotto
concorrente profilo, dagli “attuali” principi generali (specie di rango
costituzionale) propri dell’ordinamento positivo.
Applicando tali canoni interpretativi per precisare
l’attuale contenuto dell’«obbligo di fedeltà» nella specifica previsione
codicistica sostanzialmente integrata (come si è dinanzi constatato) in via
giurisprudenziale dai principi di “correttezza” e “buona fede” – in cui,
pertanto, all’espressione sicuramente generica di “obbligo di fedeltà” si
aggiungono le espressioni altrettanto generiche di “correttezza “ e “buona fede”, realizzandosi così l’ipotesi
paventata in dottrina di «spiegare il contenuto di una clausola generale per
mezzo di un’altra clausola generale» - si deve prioritariamente tener conto che
alla “solidarietà corporativa” caratterizzante l’art. 2105 cod. civ. (nella
definizione, appunto, dell’obbligo di fedeltà) si è sostituita quella
costituzionale nella proiezione economica e sociale ex art. 2 Cost.
In questa logica può considerarsi naturale, anzi dovuta, una
rilettura della norma che presupponga il mutato contesto sociale e
ordinamentale alla stregua di quanto indicato in dottrina, per analoga
questione, che la clausola generale della buona fede deve abilitare il giudice
a concedere spazi di effettività, più che a valori etici e morali collocati
fuori del “territorio positivo”, ai valori sui quali si fonda il sistema
giuridico e che per tale ragione vantano un titolo poziore per influenzare ed
ottenere l’adempimento dell’obbligazione.
Sempre in dottrina è stato ritenuto che la cennata questione
assume una speciale rilevanza nell’ambiente lavoristico, ove la normativa
codicistica sembra assicurare a priori la prevalenza dell’interesse del datore
di lavoro all’esercizio dei suoi poteri giuridici, con la conseguenza che anche
nei casi nei quali permane una sfera di
discrezionalità tecnica (e, dunque, sono ipotizzabili soluzioni diverse o
alternative) il controllo giudiziario finalizzato ad accertare il rispetto
della buona fede in executivis è stato in genere valutato negativamente.
Questo è stato ritenuto con riferimento specifico agli artt.
2094 e 2106 cod. civ. – relativo all’esercizio del potere disciplinare a
proposito del quale il potere datoriale è più sensibile ai limiti indotti dalla
buona fede che consente, appunto, al giudice di “governare” il procedimento
disciplinare di modo che la supremazia giuridica di una delle parti contrattuali
non trasmodi in forme di “ingiusto” esercizio dal potere (di per sé
“eccezionale”) di irrogare pene private ai danni della controparte -, ma anche
in relazione all’obbligo di fedeltà deve essere usata una chiave di lettura
dell’art. 2105 cod. civ. che tenga
conto, non soltanto della posizione del datore di lavoro, ma anche di quella
del prestatore di lavoro (e dei diritti ad esso connessi).
Conclusivamente, su questo punto, quanto ritenuto dalla
giurisprudenza in merito all’estensione dell’obbligo di fedeltà mediante i
principi di correttezza e buona fede ha da essere precisato nel senso che il
giudice non può statuire sulle conseguenze derivanti dal generico “rapporto di
fiducia” tra datore di lavoro e lavoratore nella considerazione unilaterale
della posizione delle parti contrattuali, ma deve riferirsi alla nozione di
“obbligo di fedeltà” nell’accezione semantica attualmente esistente nel
contesto sociale ed alla stregua degli attuali principi generali
dell’ordinamento (specie dell’art. 2 Cost.).
III/d. Tanto
rimarcato in linea generale, vale ribadire, al fine di inquadrare la
fattispecie nell’ambito dei cennati principi, che il Tribunale di Ancona ha
ritenuto che il comportamento del lavoratore – che aveva prodotto in copia
documenti aziendali nell’ambito di un giudizio dallo stesso instaurato – «è
stato idoneo a ledere in modo insanabile il rapporto di fiducia che deve
intercorrere fra datore di lavoro e dipendente e ciò sia in relazione alla
potenzialità dannosa del fatto (per il pericolo di diffusione di dati
concernenti la situazione economica di clienti della banca e l’esistenza di
eventuali posizioni in sofferenza), sia perla posizione rivestita dal Carotti,
il quale era il direttore della filiale di Ancona» e, di conseguenza, ha
considerato legittimo il licenziamento disciplinare irrogato per tale ragione
dalla Banca.
Per valutare l’esattezza di siffatta statuizione occorre,
pertanto, operare una comparazione tra l’«obbligo di fedeltà» a carico del
lavoratore (secondo l’accezione dinanzi precisata) e il «diritto di difesa» che deve essere
riconosciuto ad ogni cittadino e, quindi, anche al lavoratore.
A)
Anzitutto, per
affermare la violazione dell’obbligo di fedeltà, il Tribunale di Ancona sembra
riportarsi conclusivamente all’ipotesi di “sottrazione di documenti aziendali”,
mentre – come si è dinanzi evidenziato – nella descrizione della fattispecie
rileva «essere pacifico che il Carotti ha prodotto in giudizio copia di
documenti aziendali»: per cui l’infrazione asseritamente commessa dal Carotti
deve essere fatta rientrare nell’ipotesi sicuramente più attenuata di
allestimento di fotocopia e di successiva divulgazione (secondo modalità che
verranno infra precisate) di documenti aziendali dei quali il lavoratore
aveva normalmente la disponibilità, rispetto a quella di spossessamento e di
sottrazione di documenti di proprietà dell’azienda datrice di lavoro.
Che «la produzione in giudizio di fotocopie»
configuri una ipotesi di gran lunga più lieve rispetto a quella di «sottrazione
di documenti aziendali», oltre ad apparire ictu oculi evidente, viene
confermato proprio dal Tribunale di Ancona che, in motivazione, si riporta alle
sentenze di questa Corte nn. 2560/1993 e 6352/1998 riferite espressamente alle
ipotesi più gravi di impossessamento e di sottrazione di documenti aziendali
(e, nella seconda di tale decisione, con l’aggravante di successiva
divulgazione degli stessi presso enti pubblici esercitanti funzioni di
controllo sull’azienda).
Mentre
in tali casi è stata confermata la legittimità del licenziamento disciplinare
irrogato dal datore di lavoro, nell’ipotesi più lieve (analoga a quella
ricorrente nella specie) di produzione in giudizio di copia di documenti
aziendali questa Corte ha considerato, invece, illegittimo un provvedimento
disciplinare espulsivo (Cass. n. 1144/2000, Cass. n. 4328/1996).
In
particolare, con la prima delle cennate sentenze, dopo aver rilevato che « il
lavoratore non aveva sottratto documenti aziendali, ma si era limitato a trarne
copia nel periodo in cui aveva legittimamente accesso agli originali per
ragioni d’ufficio», viene statuito che «se il diritto del lavoratore a
difendersi in giudizio per la tutela della propria posizione lavorativa deve
avere un qualche contenuto » è difficilmente contestabile che lo stesso possa
prendere nota, e in modo sufficientemente puntuale, di quella documentazione di
cui abbia giustificata disponibilità [Cass. n. 1144/2000 cit., e, all’incirca
negli stessi termini, Cass. n. 4328/1996 per la fattispecie in cui «il
dipendente aveva tratto arbitrariamente dagli archivi aziendali e prodotta
mediante fotocopie (in numero di oltre quattrocento) in giudizio instaurato per
il riconoscimento di qualifica superiore, documentazione riservata »].
Anche
con la recente sentenza n. 13188/2000 questa Corte, pur qualificando “in tesi”
legittimo il licenziamento disciplinare nell’ipotesi più grave di «sottrazione
di documenti aziendali», ha confermato – sotto il profilo della congruità della
relativa motivazione – la decisione del giudice di merito «che aveva accertato
l’illegittimità del comportamento del lavoratore, ma in conseguenza
dell’assenza di conseguenze nocive del comportamento per il datore, aveva
ritenuto non proporzionata la sanzione espulsiva adottata, con conseguente
insussistenza di giusta causa o giustificato motivo soggettivo».
B)
Sempre per valutare
la consistenza dei termini in comparazione, deve rimarcarsi che
l’asserita divulgazione dei documenti aziendali è avvenuta mediante
l’inserimento degli stessi nel fascicolo di parte del ricorrente lavoratore in
una controversia individuale di lavoro, per cui valevano le seguenti modalità tassativamente previste dal codice
di rito: a) fascicolo depositato in cancelleria e consegnato al
cancelliere (art. 165 e 415 cod. proc. civ.e art. 36 e segg. disp. att.
c.p.c.), che poteva essere ritirato solo dalla stessa parte previa
autorizzazione del giudice (art. 169 cod. proc. civ.); b) documenti in
tal guisa prodotti, che dovevano essere “comunicati” esclusivamente a parte
convenuta (art. 165 e 414 n.5 cod. proc. civ. e art. 87 disp. att. c.p.c.).
Di conseguenza – in base ad una corretta applicazione della
normativa processuale valevole in materia, non può certo parlarsi, nella
specie, di divulgazione (idest, rendere noto a tutti, o ad una vasta
cerchia di persone, un fatto o un contenuto di uno scritto) dei documenti
aziendali in questione. Ciò a
prescindere dal rilevo che – per le concrete modalità in cui si svolge il
processo del lavoro (salvo diverse circostanze fattuali non indicate nella
sentenza impugnata o dalla parte interessata) per il limitato numero dei
soggetti che apprendono il contenuto dei documenti giudizialmente acquisiti (il
giudice, il cancelliere ed i difensori: tutti tenuti al segreto di ufficio) –
nell’ambito strettamente processuale è impossibile che la produzione di uno o
più documenti abbia a comportare una loro divulgazione in senso proprio (Cass.
n. 13188/2000, cit.)
C)
Sull’esigenza di
ritenere prevalente nella fattispecie considerata (nell’ambito delle
precisazioni testé evidenziate) “il diritto di difesa”, vale riportarsi –
significativamente a conferma della cennata prevalenza – all’orientamento
giurisprudenziale a mente del quale, a proposito dell’operatività di causa di
giustificazione idonea a rendere legittima la rivelazione in giudizio di
segreti di ufficio, è stata riconosciuta l’esigenza di riconoscere prevalente
il diritto alla difesa in giudizio
rispetto alle esigenze di segretezza e buon funzionamento della pubblica
amministrazione atteso che la stessa dizione dell’art. 24 Cost. rivela la
preminenza del diritto di difesa, «inviolabile in ogni stato e grado del
procedimento», sulla esigenza della riservatezza (Cass. pen. 24 gennaio 1989).
E’ stato rammentato
che la questione affrontata nella sentenza era stata sollevata fin dal
1876, in seno alla commissione ministeriale per la riforma dei codici,
dall’allora guardasigilli Pasquale Stanislao Mancini, il quale osservò che,
nell’ipotesi in cui il segreto di ufficio fosse stato violato «per necessità
della propria difesa in giudizio», non si poteva esigere che il funzionario sacrificasse se stesso ad un interesse pubblico; la commissione deliberò pertanto di integrare la
disposizione incriminatrice con la frase: «e fuori del caso di necessità di
difesa in giudizio»; ma i progetti successivi non conservarono tale riserva.
Riferimento storico che consente di rilevare che, specie
alla luce del principio sancito dall’art. 24 Cost., il menzionato orientamento
giurisprudenziale che, - valido per il «segreto di ufficio» nell’ambito del
rapporto di pubblico impiego, appare ancor più condivisibile per i limiti
dell’obbligo di fedeltà nell’ambito del rapporto di lavoro privatistico – non
possa certo essere considerato eccessivamente “di tendenza”.
E, passando dal “riferimento storico” alla più recente
normativa di legge in materia di tutela della privacy (recte: «tutela
delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali» )
l’art. 12 della legge n. 675/1996 prevede espressamente che il consenso
dell’interessato per il “trattamento” di dati personali da parte di privati o
di enti pubblici economici non è richiesto quando detto “trattamento” sia
necessario «per far valere o difendere un diritto in sede giudiziale sempre che
i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo
strettamente necessario al loro perseguimento». Ciò a definitiva convalida
della prevalenza del diritto di difesa in giudizio da riconoscersi al
prestatore di lavoro rispetto ad un’accezione
genericamente estesa dell’obbligo di fedeltà alla stregua del principio
costituzionale sancito dall’art. 24.
IV.E’, di
conseguenza, incorso in un decisivo errore il Tribunale di Ancona nel
circoscrivere illegittimamente il diritto di difesa nei confronti del Carotti
e, quindi, nel ritenere la produzione di copia dei documenti aziendali (da
questi effettuata nell’ambito della linea difensiva perseguita) passibile della
grave sanzione del licenziamento: decisone assunta in base ad un’errata
applicazione dell’art. 2119 cod. civ. e degli artt. 1 e 3 della legge n.
604/1966, poiché non sussistevano ab imis i presupposti per l’adozione
di un provvedimento disciplinare (in generale e specie) espulsivo.
Al riguardo la valutazione sulla gravità dell’infrazione –
in particolare quando si tratti di giudizio di merito applicativo di “norme
elastiche”- è soggetta sicuramente a controllo di legittimità al pari di ogni
altro giudizio fondato su qualsiasi norma di legge; in adesione così
all’orientamento giurisprudenziale di cui alle sentenze di questa Corte nn.
1514/1998 e 434/1999, non ritenendo condivisibile il contrario indirizzo
espresso nelle sentenze nn. 2616/1990 e 154/1997 in quanto, nell’esprimere il
giudizio di valore necessario per integrare una norma elastica (che, per la sua
stessa struttura, si limita ad indicare un parametro generale), il giudice di
merito compie un’attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale
della norma stessa, per cui dà concretezza a quella parte mobile (elastica)
della stessa che il legislatore ha voluto tale per adeguarla ad un determinato
contesto storico sociale, non diversamente da quando un determinato
comportamento viene giudicato conforme o meno a buona fede allorché la legge
richieda tale elemento: di conseguenza, la valutazione di conformità dei giudizi
di valore espressi dal giudice di merito per la funzione integrativa che essi
hanno delle regole giuridiche spetta al giudice di legittimità nell’ambito
della funzione nomofilattica che l’ordinamento ad esso affida.
Nella conclusione di cui al presente giudizio trova
ulteriore conferma – vale aggiungere sul piano dell’inquadramento della
statuizione nell’ambito dei principi generali – l’orientamento delle Sezioni
Unite a mente del quale «la concezione puramente sinallagmatica del contratto
di lavoro può dirsi superata» (Cass. sez. un. n. 7755/1998, Cass. sez. un. n.
14020/2001), essendo stata riscontrata la insufficienza della concezione
sinallagmatica a rappresentare l’intera realtà del lavoro nell’impresa,
attraverso cui il prestatore di lavoro non consegue soltanto il compenso per
l’utilità economica resa al datore, ma realizza i valori indicati negli
artt.2,4, e 36 Cost.
V.
In definitiva, si
deve concludere per l’illegittimità
della sanzione disciplinare della “dispensa dal servizio” comminata a Walter
Carotti dalla CARIFANO s.p.a. mediante la lettera datata 26 giugno 1997 e,
quindi, per la reintegra del Carotti nel suo posto di lavoro, con ogni relativa
conseguenza.
Debbono, pertanto, essere accolti il secondo, il terzo ed il
quarto motivo di ricorso (con la conferma del rigetto del primo motivo), sicché
la sentenza del Tribunale di Ancona va cassata,
A)
decidendo “nel merito”
ex art. 384, secondo alinea del primo comma, cod. proc. civ. (non essendo
necessari sul punto ulteriori accertamenti di fatto) in ordine al capo
dell’originaria domanda giudiziale dello odierno ricorrente concernente la
declaratoria di illegittimità dell’impugnata “dispensa dal servizio” e la
reintegra nel posto di lavoro per cui deve essere dichiarata l’illegittimità
del provvedimento disciplinare della dispensa dal servizio irrogata dalla
s.p.a. CARIFANO, con lettera in data 26 giugno 1997, nei confronti di Carotti
Walter e deve essere disposta l’immediata reintegrazione (ex art. 18 della
legge n. 300/1970) dello stesso nel suo posto di lavoro presso detta società e
B)
rimettendo la causa ad altro giudice ex art. 384, primo alinea del primo comma,
cod. proc. civ. limitatamente al “capo” dell’originaria domanda giudiziale
concernente la richiesta di risarcimento del danno derivante dall’illegittima
estinzione del rapporto lavorativo per cui deve essere demandato al designato
Giudice di rinvio di quantificare il risarcimento del danno (ai sensi della
summenzionata normativa) derivato dalla statuita illegittimità del
provvedimento disciplinare di “dispensa dal servizio”.
Il giudice di rinvio – che si designa nella Corte di appello
di Bologna – provvederà, inoltre, alla liquidazione delle spese dell’intero
processo.
P. Q. M.
La Corte accoglie il secondo, il terzo ed il quarto motivo di ricorso; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e, decidendo “nel merito”, dichiara illegittimo il provvedimento disciplinare di “dispensa dal servizio” comminato a Carotti Walter dalla CARIFANO s.p.a. con lettera in data 26 giugno 1997 e dispone l’immediata reintegrazione del Carotti nel suo posto di lavoro; rinvia la causa - limitatamente alla domanda relativa alle questioni economiche conseguenti alla statuizione di illegittimità di detto provvedimento disciplinare alla Corte di appello di Bologna.
*****
Conforme, più recentemente, Cass. 7 dicembre 2004, n. 22923 http://www.rassegna.it/2005/dirittolavoro/articoli/01.htm
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