Un caso di mobbing iniziato per compiacere i Sindacati aziendali
Trib.
Pisa, sez. lav. (giudice unico di 1° grado), 10 aprile 2002 – Est. Nisticò – RG
c. Telecom SpA.
Mobbing strutturato da trasferimenti illegittimi,
inottemperanza ad ordini giudiziali ed infine da licenziamento per asserita
ristrutturazione aziendale – Illegittimità – Danno esistenziale – Sussistenza –
Risarcibilità in via equitativa.
Il divieto di molestie morali -
codificato
nell’art. 2087
c.c. secondo cui “l’imprenditore è tenuto ad adottare
nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro,
l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e
la personalità morale del lavoratore”- appartiene alla struttura
di un obbligo legale, normativamente previsto ed immediatamente operante nella
fase genetica e funzionale del contratto di lavoro.
La norma in esame, ancorché collocata sistematicamente in un testo
risalente al 1942, appartiene alla definizione costituzionale che il nostro
ordinamento assegna al lavoro, inteso quale momento di personale realizzazione
ma contestualmente protetto dalle insidie ontologiche di uno schema
naturalmente verticistico, all’interno del quale è verisimile che le posizioni
più deboli subiscano condizionamenti od addirittura vessazioni da parte di chi
detiene la posizione dominante. In tal senso ad essa si affida il compito di
realizzare un impianto relazionale nel quale sia fatta salva sempre e comunque
la personalità del soggetto debole o la sua dignità individuale, al fine di
elidere ogni tentativo di asservimento od ogni forma di pressione che non
consenta la piena affermazione della persona del lavoratore o che ne riduca la
capacità di gestire correttamente il suo rapporto.
Provenendo tale disposizione normativa da un impianto anteriore
alla nostra Costituzione, rimane rafforzato il convincimento che la regola del
necessario rispetto della personalità morale del lavoratore origini dalla
nostra cultura ordinamentale e dalla nostra tradizione giuridica e che quindi
l’obbligo di rispetto appartenga al nostro ordinamento in quanto ispirato ad un
criterio condiviso di umanesimo del lavoro.
E’ opinione di questo giudice (e non solo, v. Trib. Forlì 15 marzo
2001, Riv. Crit. Lav., 2001, 441) che il danno derivante dalla lesione alla
personalità morale del lavoratore, come costruito dall’art. 2087 c.c., abbia
rilevanza autonoma rispetto al danno patrimoniale ed al c.d. danno biologico
(ed anche rispetto al danno morale). La disposizione in esame, infatti, vieta
ex se la molestia morale, indipendentemente dall’eventuale (e concorrente)
pregiudizio che possa altrimenti derivare per il lavoratore (sia alla sua
dimensione patrimoniale che a quella riferibile alla vita di relazione), per
configurare un obbligo risarcitorio determinato dal comportamento tipizzato che
non presuppone alcuna lesione comportante una deminutio materiale o psicologica. Il mobbing (così chiamiamo
per comodità il comportamento vietato dall’art. 2087 c.c.) può anche cagionare
una diversa lesione patrimoniale od alla vita di relazione e così scemare la
capacità reddituale o quella relazionale, ma può anche esaurirsi in sé stesso,
provocando (come nella gran parte dei casi già sottoposti all’attenzione dei
giudici) il solo disagio derivante dalla “pressione” (indebita) del datore di
lavoro e dunque la compromissione oggettiva della personalità del lavoratore.
La legge, infatti, non tutela (solo) l’integrità psicologica del lavoratore, ma
la sua personalità morale, che è cosa diversa e di diversi contenuti. Il
mancato rispetto di tale obbligo di tutela, dunque, comporta il risarcimento
del danno al solo verificarsi della fattispecie vietata. La voce di danno,
così, apparterrà alla tipologia che oggi la dottrina configura come danno
esistenziale.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato in Cancelleria in data 26.1.2001, l’ing. RG,
dipendente con funzioni dirigenziali di Telecom Italia s.p.a. e con sede di
lavoro a Pisa , esponeva:
- nell’ambito delle sue funzioni di responsabile dell’Area
Esercizio Toscana Marittima ed in attuazione di direttive ricevute rivolte
a contenere il lavoro straordinario, egli aveva emesso una istruzione di lavoro
in base alle quali, per gli interventi in reperibilità, occorresse operare
alcune valutazioni preventive all’intervento medesimo (perché questo non
risultasse “a vuoto”);
- la cosa aveva provocato una decisa reazione sindacale, con
attribuzione di responsabilità, al punto che il ricorrente si era visto
costretto a sporgere querela per le affermazioni contenute in un comunicato
sindacale ed a richiedere il datore di lavoro la tutela personale ex art. 15
CCNL;
- per tutta risposta l’ing. RG veniva invitato presso la sede
romana e sollecitato a ritirare la querela ed egli replicava con una lettera di
doglianza;
- seguiva una contestazione disciplinare sostanzialmente
consistente nella attribuzione della responsabilità di aver creato una
situazione di “tensione sul piano dei rapporti con le OO.SS.”, cui non seguiva
alcun provvedimento sanzionatorio;
- il 7 giugno del 1999 il ricorrente veniva trasferito con
effetto immediato a Firenze, ricevendone come spiegazione informale (dal
superiore ing. Taggiasco) la necessità di offrire un tributo alle oo.ss.,
opinione sostanzialmente confermata in occasione di una pubblica
manifestazione, richiesta dalle oo.ss. medesime, durante la quale era stato
detto che il suo trasferimento era stato determinato dai “noti fatti accaduti
sul territorio”;
- al ricorrente veniva anche
negato un aumento di stipendio (ordinariamente erogato nel mese di maggio)
contrariamente a quanto era stato fatto in favore di altri colleghi;
- l’ing. RG reagiva con una
richiesta ex art. 700 c.p.c. accolta dal Tribunale di Firenze e confermata dal
Collegio di reclamo, risultando vittorioso anche nel giudizio di merito
conclusosi con la sentenza 30 gennaio 2001;
- il 29 luglio 1999 il
ricorrente veniva reintegrato a Pisa;
- l’11.1.2000, con ordine di
servizio n. 6, la Telecom comunicava la costituzione dell’Area Operativa Rete
Toscana Alta assegnata all’ing. Bettini e nella riunione del 19.1.2000 l’ing.
Bettini specificava ai convenuti della Toscana Marittima che avrebbero dovuto
fare riferimento a lui stesso: di fatto il ricorrente veniva spogliato di ogni
funzione;
- il 27 gennaio l’ing. RG presentava un esposto alla Procura
della Repubblica evidenziando la sostanziale inosservanza dell’ordine
giudiziale di reintegra a Pisa;
- il 9 fabbraio 2000 l’ing.
RG veniva licenziato e quindi il ricorrente, in esito ad un nuovo procedimento
ex art. 700 c.p.c. davanti al Tribunale di Pisa veniva reintegrato nel posto di
lavoro ed il provvedimento veniva confermato dal Tribunale di Pisa in sede
collegiale di reclamo;
- venivano intavolate delle
trattative per trovare una collocazione per l’ing. RG, il quale non era stato
riammesso al lavoro, se non in data 22 novembre 2000, allorché contestualmente
veniva nuovamente trasferito a Firenze; il 28 successivo Telecom depositava
davanti al Tribunale di Torino un ricorso per l’accertamento della legittimità
del trasferimento .
Su questi presupposti
l’ing. RG chiedeva al giudice il risarcimento del danno alla professionalità,
il risarcimento per danno alla dignità personale e l’accertamento del diritto a
rifiutare il trasferimento perché discriminatorio ed illegittimo, avanzando una
ennesima richiesta cautelare in corso di causa.
Rigettata la domanda
cautelare con provvedimento 18.4.2002, nel giudizio di merito il datore di
lavoro si costituiva in giudizio eccependo preliminarmente la litispendenza con
il procedimento instaurato a Torino e contestando nel merito tutte le
allegazioni e le deduzioni in punto di danno del ricorrente.
Senza l’assunzione di mezzi
istruttori, all’udienza del 10.4.2002, sulle conclusioni delle parti, la causa
veniva discussa e decisa come da dispositivo del quale veniva data pubblica
lettura.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1) Ai sensi del disposto
dell’art. 2087 c.c. , “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio
dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e
la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità
morale del lavoratore” .
Il divieto di molestie
morali, dunque, appartiene alla struttura di un obbligo legale,
normativamente previsto ed immediatamente operante nella fase genetica e
funzionale del contratto di lavoro.
La norma in esame, ancorché
collocata sistematicamente in un testo risalente al 1942, appartiene alla
definizione costituzionale che il nostro ordinamento assegna al lavoro,
inteso quale momento di personale realizzazione ma contestualmente protetto
dalle insidie ontologiche di uno schema naturalmente verticistico, all’interno
del quale è verisimile che le posizioni più deboli subiscano condizionamenti od
addirittura vessazioni da parte di chi detiene la posizione dominante. In tal
senso ad essa si affida il compito di realizzare un impianto relazionale nel
quale sia fatta salva sempre e comunque la personalità del soggetto debole o la
sua dignità individuale, al fine di elidere ogni tentativo di asservimento od
ogni forma di pressione che non consenta la piena affermazione della persona
del lavoratore o che ne riduca la capacità di gestire correttamente il suo
rapporto.
Provenendo tale
disposizione normativa da un impianto anteriore alla nostra Costituzione,
rimane rafforzato il convincimento che la regola del necessario rispetto della
personalità morale del lavoratore origini dalla nostra cultura ordinamentale e
dalla nostra tradizione giuridica e che quindi l’obbligo di rispetto appartenga
al nostro ordinamento in quanto ispirato ad un criterio condiviso di umanesimo
del lavoro.
Il che vuole anche dire che,
nonostante le istanze attuali di segno contrario, la prospettiva nella quale si
pone da sempre il nostro legislatore non è una prospettiva di mercato,
dove il lavoratore assume il ruolo, come oggi si dice con espressioni proprie
della subcultura aziendalistica dominante, di capitale umano o di risorsa
umana, bensì quello di soggetto dotato, anche nel contratto di lavoro,
della sua personalità e della sua dignità, la cui affermazione si pone in senso
prioritario rispetto all’interesse imprenditoriale di utilizzare a piacimento
la forza lavoro.
Questo, poi, comporta, come
linea di tendenza interpretativa (come vedremo confermata dalla nostra
Costituzione e dalla normativa continentale) il primato dell’impianto
protettivo in favore della parte debole del rapporto rispetto alle regole
mercantili e l’autonomia ontologica del sistema lavoristico rispetto al
generale sistema dei rapporti contrattuali, pure mitigato, come sappiamo dalla
clausola generale di cui all’art. 1375 c.c. secondo cui “il contratto deve
essere eseguito secondo buona fede”.
Queste regole di civiltà
giuridica appaiono trasfuse e rafforzate nella Carta Costituzionale la quale,
come è noto, enuncia il fenomeno del lavoro addirittura in sede
definitoria del nostro ordinamento (art. 1), valorizza i criteri di solidarietà
(art. 2), di tutela del lavoro (art. 4), di eguaglianza sostanziale (art. 3, 2°
comma), di tutela in favore di soggetti debolissimi (art. 37), per prevedere,
infine, in una disposizione che riguarda l’esercizio dell’impresa (art. 41), il
limite attinente l’utile sociale ed il rispetto della dignità umana.
Trattandosi di principi
noti a tutti e dai contenuti univoci, qui si può solo dire di come la nostra
carta fondamentale realizzi un sistema di protezione in favore della parte debole
e quindi (anche) di tutela forte della personalità morale del lavoratore
nella sua dimensione individuale e nella sua dimensione collettiva (art. 39
Cost.), con ciò confermando che la prospettiva non è quella dell’impresa
bensì quella del lavoratore e contestualmente escludendo che questi
possa essere lasciato solo nel mercato del lavoro (e nel singolo rapporto).
Vero è che oggi circola,
sostenuta mediaticamente ma non scientificamente, l’opinione secondo la quale i
principi appena enunciati mostrerebbero la loro inadeguatezza rispetto alle
istanze europee, ma, come si vedrà, si tratta solo di slogans del tutto
privi di contenuti, supportati da esigenze di parte, mediante l’enfatizzazione
dei criteri di competitività e concorrenza secondo i quali i risultati di
protezione in favore delle parti deboli si otterrebbero comunque “per
ricaduta”. Chi afferma questo non conosce la Carta di Nizza, la quale, come è
noto, recepisce integralmente i criteri enunciati nella nostra Costituzione
approntando strumenti di tutela diretta (e non solo quali effetti della
competitività aziendale) in favore dei lavoratori, di tal che può senz’altro
affermarsi che il nostro ordinamento può ritenersi all’avanguardia (come in
altre occasioni) anche in sede europea. Né qui occorre riprodurre i testi del
documento comunitario, a tutti noto.
Ma vi è di più, perché alla
necessaria tutela della personalità morale del lavoratore le istituzioni
europee dedicano tutta la loro attenzione, evidenziando come il mobbing
annidi proprio dove c’è precarietà, o flessibilità, come oggi si dice.
Vale la pena, allora , riportare integralmente la risoluzione del Parlamento
Europeo A5-0283/2001.
“ Il Parlamento europeo,
- visti gli articoli 2, 3, 13, 125-129, 136-140 e 143 del trattato
CE,
- viste le sue risoluzioni del 13 aprile 1999 sulla comunicazione
della Commissione "Modernizzare l'organizzazione del lavoro - Un
atteggiamento positivo nei confronti dei cambiamenti", del 24 ottobre 2000
su "Orientamenti a favore dell'occupazione per il 2001 - Relazione
congiunta sull'occupazione 2000"e del 25 ottobre 2000 sull'Agenda per la
politica sociale,
- viste le parti pertinenti delle conclusioni del Consiglio europeo
in occasione dei vertici di Nizza e di Stoccolma,
- visto l'articolo 163 del suo regolamento,
- visti la relazione della commissione per l'occupazione e gli
affari sociali e il parere della commissione per i diritti della donna e le
pari opportunità (A5-0283/2000)
A. considerando che, secondo un sondaggio svolto tra 21.500
lavoratori dalla Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di
vita e di lavoro (Fondazione di Dublino), nel corso degli ultimi 12 mesi l'8%
dei lavoratori dell'Unione europea, pari a 12 milioni di persone, è stato
vittima di mobbing sul posto di lavoro, e che si può presupporre che il dato
sia notevolmente sottostimato,
B. considerando che l'incidenza di fenomeni di violenza e molestie
sul lavoro, tra cui la Fondazione include il mobbing, presenta sensibili
variazioni tra gli Stati membri e che ciò è dovuto, secondo la Fondazione, al
fatto che in alcuni paesi soltanto pochi casi vengono dichiarati, che in altri
la sensibilità verso il fenomeno è maggiore e che esistono differenze tra i
sistemi giuridici nonché differenze culturali; che la precarietà dell'impiego
costituisce una delle cause principali dell'aumento della frequenza di suddetti
fenomeni,
C. considerando che la Fondazione di Dublino rileva che le persone
esposte al mobbing subiscono uno stress notevolmente più elevato rispetto agli
altri lavoratori in generale e che le molestie costituiscono dei rischi
potenziali per la salute che spesso sfociano in patologie associate allo
stress; che i dati nazionali sul mobbing nella vita professionale, disaggregati
per generi, non offrono, secondo l'Agenzia, un quadro uniforme della
situazione;
D. considerando che dai dati provenienti da uno degli Stati membri
risulta che i casi di mobbing sono di gran lunga più frequenti nelle
professioni caratterizzate da un elevato livello di tensione, professioni
esercitate più comunemente da donne che da uomini e che hanno conosciuto una
grande espansione nel corso degli anni 90,
E. considerando che gli studi e l'esperienza empirica convergono
nel rilevare un chiaro nesso tra, da una parte, il fenomeno del mobbing nella
vita professionale e, dall'altra, lo stress o il lavoro ad elevato grado di
tensione, l'aumento della competizione, la riduzione della sicurezza
dell'impiego nonché l'incertezza dei compiti professionali,
F. considerando che tra le cause del mobbing vanno ad esempio
annoverate le carenze a livello di organizzazione lavorativa, di informazione
interna e di direzione; che problemi organizzativi irrisolti e di lunga durata
si traducono in pesanti pressioni sui gruppi di lavoro e possono condurre
all'adozione della logica del "capro espiatorio" e al mobbing; che le
conseguenze per l'individuo e per il gruppo di lavoro possono essere rilevanti,
così come i costi per i singoli, le imprese e la società;
1. ritiene che il mobbing, fenomeno di cui al momento non si
conosce la reale entità, costituisca un grave problema nel contesto della vita
professionale e che sia opportuno prestarvi maggiore attenzione e rafforzare le
misure per farvi fronte, inclusa la ricerca di nuovi strumenti per combattere
il fenomeno;
2. richiama l'attenzione sul fatto che il continuo aumento dei
contratti a termine e della precarietà del lavoro, in particolare tra le donne,
crea condizioni propizie alla pratica di varie forme di molestia;
3. richiama l'attenzione sugli effetti devastanti del mobbing sulla
salute fisica e psichica delle vittime, nonché delle loro famiglie, in quanto
essi impongono spesso il ricorso ad un trattamento medico e psicoterapeutico e
conducono generalmente a un congedo per malattia o alle dimissioni;
4. richiama l'attenzione sul fatto che, secondo alcune inchieste,
le donne sono più frequentemente vittime che non gli uomini dei fenomeni di
mobbing, che si tratti di molestie verticali: discendenti (dal superiore al
subordinato) o ascendenti (dal subordinato al superiore), di molestie
orizzontali (tra colleghi di pari livello) o di molestie miste;
5. richiama l'attenzione sul fatto che false accuse di mobbing
possono trasformarsi a loro volta in un temibile strumento di mobbing;
6. pone l'accento sul fatto che le misure contro il mobbing sul
luogo di lavoro vanno considerate una componente importante degli sforzi
finalizzati all'aumento della qualità del lavoro e al miglioramento delle
relazioni sociali nella vita lavorativa; ritiene che esse contribuiscano
altresì a combattere l'esclusione sociale, il che può giustificare l'adozione
di misure comunitarie e risulta in sintonia con l'Agenda sociale e gli
orientamenti in materia di occupazione dell'Unione europea;
7. rileva che i problemi di mobbing sul posto di lavoro vengono
probabilmente ancora sottovalutati in molti settori all'interno dell'UE e che
vi sono molti argomenti a favore di iniziative comuni a livello dell'Unione,
quali ad esempio la difficoltà di trovare strumenti efficaci per prevenire e
contrastare il fenomeno, il fatto che gli orientamenti sulle misure per
combattere il mobbing sul posto di lavoro possano produrre effetti normativi ed
influire sugli atteggiamenti e che l'adozione di tali orientamenti comuni sia
giustificata anche da ragioni di equità;
8. esorta la Commissione a prendere ugualmente in considerazione,
nelle sue comunicazioni relative a una strategia comune in materia di salute e
sicurezza sul lavoro e al rafforzamento della dimensione qualitativa della
politica occupazionale e sociale nonché nel libro verde sulla responsabilità
sociale delle imprese, fattori psichici, psicosociali e sociali connessi
all'ambiente lavorativo, inclusa l'organizzazione lavorativa, invitandola
pertanto ad attribuire importanza a misure di miglioramento dell'ambiente
lavorativo che siano lungimiranti, sistematiche e preventive, finalizzate tra
l'altro a combattere il mobbing sul posto di lavoro e a valutare l'esigenza di
iniziative legislative in tal senso;
9. esorta il Consiglio e la Commissione ad includere indicatori
quantitativi relativi al mobbing sul posto di lavoro negli indicatori relativi
alla qualità del lavoro, che dovranno essere definiti in vista del Consiglio
europeo di Laeken;
10. esorta gli Stati membri a rivedere e, se del caso, a completare
la propria legislazione vigente sotto il profilo della lotta contro il mobbing
e le molestie sessuali sul posto di lavoro, nonché a verificare e ad uniformare
la definizione della fattispecie del "mobbing" ;
11. sottolinea espressamente la responsabilità degli Stati membri e
dell'intera società per il mobbing e la violenza sul posto di lavoro,
ravvisando in tale responsabilità il punto centrale di una strategia di lotta a
tale fenomeno;
12. raccomanda agli Stati membri di imporre alle imprese, ai
pubblici poteri nonché alle parti sociali l'attuazione di politiche di
prevenzione efficaci, l'introduzione di un sistema di scambio di esperienze e
l'individuazione di procedure atte a risolvere il problema per le vittime e ad
evitare sue recrudescenze; raccomanda, in tale contesto, la messa a punto di
un'informazione e di una formazione dei lavoratori dipendenti, del personale di
inquadramento, delle parti sociali e dei medici del lavoro, sia nel settore
privato che nel settore pubblico; ricorda a tale proposito la possibilità di nominare
sul luogo di lavoro una persona di fiducia alla quale i lavoratori possono
eventualmente rivolgersi;
13. esorta la Commissione ad esaminare la possibilità di
chiarificare o estendere il campo di applicazione della direttiva quadro per la
salute e la sicurezza sul lavoro oppure di elaborare una nuova direttiva
quadro, come strumento giuridico per combattere il fenomeno delle molestie,
nonché come meccanismo di difesa del rispetto della dignità della persona del
lavoratore, della sua intimità e del suo onore; sottolinea pertanto che è
importante che la questione del miglioramento dell'ambiente di lavoro venga
affrontata in modo sistematico e con l'adozione di misure preventive;
14. sottolinea che una base statistica migliore può agevolare e
ampliare la conoscenza e la ricerca e segnala il ruolo che l'Eurostat e la
Fondazione di Dublino possono svolgere in tale contesto; esorta la Commissione,
la Fondazione di Dublino e l'Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul
lavoro a prendere iniziative affinché vengano condotti studi approfonditi in
materia di mobbing;
15. sottolinea l'importanza di studiare più da vicino il fenomeno
del mobbing sul posto di lavoro in relazione sia agli aspetti attinenti
all'organizzazione del lavoro sia a quelli legati a fattori quali genere, età,
settore e tipo di professione; chiede che lo studio in questione comprenda
un'analisi della situazione particolare delle donne vittime di mobbing;
16. constata che uno Stato membro ha già adottato una normativa
mirante a lottare contro il mobbing sul posto di lavoro e che altri Stati sono
impegnati nella ratifica di una legislazione volta a reprimere tale fenomeno,
richiamandosi il più delle volte alle legislazioni adottate per reprimere le
molestie sessuali; esorta gli Stati membri a prestare attenzione al problema
del mobbing sul luogo di lavoro e a tenerne conto nel contesto delle rispettive
legislazioni nazionali e di altre azioni;
17. esorta le istituzioni europee a fungere da modello sia per
quanto riguarda l'adozione di misure per prevenire e combattere il mobbing
all'interno delle loro stesse strutture che per quanto riguarda l'aiuto e
l'assistenza a individui o gruppi di lavoro, prevedendo eventualmente un
adeguamento dello statuto dei funzionari nonché un'adeguata politica di sanzioni;
18. constata che le persone esposte al mobbing nelle istituzioni
europee beneficiano attualmente di un aiuto insufficiente e si compiace al
riguardo con l'amministrazione per aver istituito da tempo un corso destinato
in particolare alle donne amministratrici intitolato "La gestione al
femminile" e, più recentemente, un comitato consultivo sul mobbing;
19. chiede che si esamini in quale misura la consultazione a
livello comunitario tra le parti sociali può contribuire a combattere il
mobbing sul posto di lavoro e ad associare a tale lotta le organizzazioni dei
lavoratori;
20. esorta le parti sociali negli Stati membri a elaborare, tra di
loro e a livello comunitario, strategie idonee di lotta contro il mobbing e la
violenza sul luogo di lavoro, procedendo altresì a uno scambio di esperienze in
merito secondo il principio delle "migliori pratiche" ;
21. ricorda che il mobbing comporta altresì conseguenze nefaste per
i datori di lavoro per quanto riguarda la redditività e l'efficienza economica
dell'impresa a causa dell'assenteismo che esso provoca, della riduzione della
produttività dei lavoratori indotta dal loro stato di confusione e di
difficoltà di concentrazione nonché dalla necessità di erogare indennità ai
lavoratori licenziati;
22. sottolinea l'importanza di ampliare e chiarire la
responsabilità del datore di lavoro per quanto concerne la messa in atto di
misure sistematiche atte a creare un ambiente di lavoro soddisfacente;
23. chiede che abbia luogo una discussione in merito alle modalità
di sostegno alle reti e organizzazioni di volontariato impegnate nella lotta al
mobbing;
24. invita la Commissione a presentare, entro il marzo 2002, un
libro verde recante un'analisi dettagliata della situazione relativa al mobbing
sul posto di lavoro in ogni Stato membro e, sulla base di detta analisi, a
presentare successivamente, entro l'ottobre 2002, un programma d'azione
concernente le misure comunitarie contro il mobbing sul posto di lavoro; chiede
che tale piano d'azione venga corredato di uno scadenzario;
25. incarica la sua Presidente di trasmettere la presente
risoluzione alla Commissione, al Consiglio, alla Fondazione europea per il
miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro ed all'Agenzia europea per
la sicurezza e la salute sul lavoro”
2) E’ opinione di questo giudice (e non solo, v. Trib. Forlì
15 marzo 2001, Riv. Crit. Lav., 2001, 441 ) che il danno derivante dalla
lesione alla personalità morale del lavoratore, come costruito dall’art. 2087
c.c., abbia rilevanza autonoma rispetto al danno patrimoniale ed al c.d. danno
biologico (ed anche rispetto al danno morale). La disposizione in esame,
infatti, vieta ex se la molestia morale, indipendentemente dall’
eventuale (e concorrente) pregiudizio che possa altrimenti derivare per il
lavoratore (sia alla sua dimensione patrimoniale che a quella riferibile alla
vita di relazione), per configurare un obbligo risarcitorio determinato dal
comportamento tipizzato che non presuppone alcuna lesione comportante una deminutio
materiale o psicologica. Il mobbing (così chiamiamo per comodità il
comportamento vietato dall’art. 2087 c.c.) può anche cagionare una diversa
lesione patrimoniale od alla vita di relazione e così scemare la capacità
reddituale o quella relazionale, ma può anche esaurirsi in sé stesso,
provocando (come nella gran parte dei casi già sottoposti all’attenzione dei
giudici) il solo disagio derivante dalla “pressione” (indebita) del datore di
lavoro e dunque la compromissione oggettiva della personalità del lavoratore.
La legge, infatti, non tutela (solo) l’integrità psicologica del lavoratore, ma
la sua personalità morale, che è cosa diversa e di diversi contenuti. Il
mancato rispetto di tale obbligo di tutela, dunque, comporta il risarcimento
del danno al solo verificarsi della fattispecie vietata. La voce di danno,
così, apparterrà alla tipologia che oggi la dottrina configura come danno
esistenziale.
L’obbligo risarcitorio a
evidente natura contrattuale, poiché, come si è visto, origina dal disposto
dell’art. 2087 c.c., conseguendo, sul piano dell’onere dalla prova, che grava
sul datore di lavoro provare che il comportamento descritto ed accertato non
abbia avuto alcuna potenzialità lesiva.
Ritenuta, poi, la
definizione fin qui offerta, i criteri di liquidazione dal danno saranno diversi
da quelli ordinariamente utilizzati per la liquidazione del danno biologico e
saranno affidati alla ricostruzione equitativa del giudice (art. 1226 c.c.) il
quale può utilizzare alcuni parametri di riferimento, non ultimo quello di cui
all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (così Tribunale di Pisa, 3.10.2001,
Fulceri c. Autogrill e Rigo).
3) Sul piano sistematico,
il disposto di cui all’art. 2087 c.c. si configura quale norma di chiusura (o,
se si vuole, quale clausola generale): il nostro ordinamento, infatti, conosce
già strumenti di tutela specifica rispetto a comportamenti tipizzati e questo
vale, per esempio, avuto riguardo ad alcune fattispecie dettate dallo Statuto
dei lavoratori in tema di divieto di indagini sulle opinioni, divieto di controlli
occulti o di atti di gestione discriminatori. In tali casi la fattispecie
risarcitoria concorrerà con quella tipica, trattandosi di forme diverse di
tutela ed operando la prima, come si è detto, quale clausola generale. Se così
è, allora, indipendentemente dalla sussistenza di un comportamento tipizzato,
il diritto al risarcimento potrà autonomamente configurarsi sulla base della
valutazione complessiva di una serie di atti tenuti insieme da un unico intento
vessatorio e quindi anche nelle ipotesi, non infrequenti, di atti singolarmente
leciti, ma non più tali se considerati nella loro evoluzione teleologica (è il
caso dello stillicidio di provvedimenti disciplinari “pignoli” o dell’abuso di
strumenti di controllo, come avviene nella immotivata reiterazione di
accertamenti sanitari, ritenuta lesiva da Cass. 475/1999). In buona sostanza
si tratta di mutuare correttamente la costruzione dell’abuso di diritto.
4) Fatte queste premesse,
sul piano della ricostruzione in punto di diritto, si può osservare come gli
elementi che sintomaticamente convergono verso l’affermazione di un
comportamento schiettamente vessatorio del datore di lavoro possono, in questa
controversia, ricavarsi da una serie di dati oggettivi, per pervenire alla
conclusione del pieno accoglimento della domanda risarcitoria (ancorché sotto
un’ unica voce di danno, ex art. 2087 c.c., senza poter distinguere fra danno
alla professionalità e danno alla dignità morale).
La complessa (ma non tanto)
vicenda che ci occupa origina da un comportamento tenuto dall’ing. RG (che qui
non importa ritenere se sia stato corretto o meno) nell’esercizio del suo
compito, poi risultato inviso alle organizzazioni sindacali. La circostanza è
nella sostanza assolutamente pacifica, al punto che non è in contestazione che
in tal senso siano state esposte le ragioni del conflitto fra il ricorrente ed
il datore di lavoro in un contesto di relativa pubblicità (ci si riferisce ai
“noti fatti accaduti sul territorio”).
Che il primo trasferimento
da Pisa a Firenze fosse illegittimo e che originasse dalla esigenza datoriale
di “offrire ai sindacati la testa del RG” lo hanno già affermato tre giudici
chiamati in sedi diverse (v. ord. Trib. Firenze 20 luglio 1999 e ord. Trib.
Firenze – giudice del reclamo - 6 ottobre 1999, sentenza 30.1.2002 del
Tribunale di Firenze, tutte prodotte dal ricorrente).
Dalla lettura dei
provvedimenti citati si coglie con certezza che il ricorrente sia stato
(illegittimamente) trasferito a Firenze al solo scopo di risolvere la questione
insorta con il dissenso del sindacato per l’operato del dirigente. In buona
sostanza un “lavarsene le mani” che non corrisponde ai doveri di correttezza di
cui all’art. 1375 c.c e che già denota una volontà “obliqua” di utilizzazione
degli strumenti datoriali di gestione del rapporto di lavoro.
Certo è che se la vicenda
fosse finita con questo maldestro tentativo di spostare il RG a Firenze, la
fattispecie dedotta in giudizio ai fini risarcitori denuncerebbe insufficienti
elementi sintomatici, ancorché per certi aspetti, la marcata illegittimità
deponesse già per un evidente intento di natura semipunitiva, perché quando un
problema sorge, nel rapporto di lavoro, si risolve, non si accantona, come qui
ha fatto il datore di lavoro trasferendo il RG.
Tuttavia, come è pacifico,
la questione ha un suo seguito ed abbastanza “pesante”, perché l’ing. RG, dopo
un periodo di “quiete” viene licenziato per asserite esigenze di
riorganizzazione del lavoro. Ancora una volta un giudice cautelare annulla il
provvedimento datoriale (Trib. Pisa ord. ex art. 700 c.p.c. 11 luglio 2000) sul
presupposto che il licenziamento fosse ritorsivo avendo accertato che il datore
di lavoro aveva soppresso 15 Aree ed aveva ricollocato 14 preposti, tutti, in
sostanza, ad eccezione del RG ed avendo ribadito come il precedente
annullamento per ragioni di legittimità (mancanza di preavviso) da parte di un
datore di lavoro tutt’altro che sprovveduto confermasse la volontà ritorsiva.
Anche questo provvedimento
cautelare è stato confermato dal Tribunale di Pisa in sede di reclamo (v. ord.
8 agosto 2000) che ha condiviso gli argomenti del giudice dell’urgenza.
Fatto sta che Telecom non
intende mantenere l’ing. RG in servizio ed il 24 novembre 2000 lo trasferisce
nuovamente a Firenze, in alternativa alla proposta di destinazione in diverse
sedi, tutte particolarmente distanti dal luogo di residenza.
Questo trasferimento è
oggetto accertamento preventivo presso il Tribunale di Torino ed anche presso
questo giudice in questa controversia (salva la litispendenza della quale infra).
Si ha, allora, in buona
sostanza che il datore di lavoro ha in concreto vanificato cinque pronunce
giudiziarie, impedendo al RG di svolgere la sua attività presso la sede di
Pisa, alla quale è stato reiteratamente assegnato dai provvedimenti giudiziari
a lui favorevoli.
Né deve sfuggire come, in
occasione dell’ultimo contenzioso, Telecom Italia abbia depositato il ricorso
di accertamento sulla legittimità del trasferimento (lontano dai giudici
fiorentini e pisani ai quali la vicenda era già abbastanza chiara) nello stesso
giorno nel quale si stavano svolgendo trattative per un idoneo collocamento del
RG: il che denuncia, se ce ne fosse ancora bisogno, i contenuti di pervicacia
con la quale il datore di lavoro si è letteralmente accanito nei confronti del
suo dirigente, alimentando una condizioni di precarietà e disagio gravissimo
protrattasi nel tempo.
In tale oggettivo contesto
(che il datore di lavoro avrebbe ben potuto evitare adoprandosi per rimuovere
le ragioni di dissenso sindacale, senza capri espiatori) la lesione della
personalità morale e dalla dignità del lavoratore appare addirittura
conclamata.
Ne consegue il risarcimento del danno ex art.
2087 c.c. (che questo giudice valuta complessivamente, tenuto conto che il
danno alla professionalità così come enunciato appare privo di contenuti
diversi rispetto al danno esistenziale) da liquidarsi sulla base dei parametri
enunciati in premessa, della particolare gravità del fatto, del lungo lasso di
tempo durante il quale si è protratta la lesione, della qualità professionale
del RG, sempre encomiato prima di questa vicenda. Tale danno può, allora, essere
quantificato in 80.000 €.
Va, invece, pronunciata la
litispendenza fra la controversia presso il Tribunale di Torino e la domanda
oggi formulata avente ad oggetto l’accertamento della legittimità a rifiutare
il trasferimento: entrambe vertono, sia per quanto concerne il petitum
che la causa petendi, sulla legittimità del trasferimento adottato dal
datore di lavoro ed il Giudice di Torino è stato investito prima di questa
della medesima questione.
Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la
sostanziale soccombenza.
P.Q.M.
Il Giudice dichiara la
litispendenza della causa avuto riguardo alla domanda di cui al punto c) del
ricorso.
Accoglie le altre domande e
per l’effetto condanna parte convenuta a risarcire il danno al ricorrente nella
misura di € 80.000.
Condanna parte convenuta al
pagamento delle spese di lite che liquida in € 7.500 oltre Iva e Cap di cui €
6.000 per onorari, € 1490 per diritti ed € 10 per spese.
Pisa li 10.4.2002
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