La moda del ricorso
all’outsourcing
Sommario:
Nozione di outsourcing
Problematiche
giuridiche dell’outsourcing
Outsourcing
tramite ricorso all’appalto
Outsourcing tramite scorporo di ramo
d’azienda
L'outsourcing
nell’accordo di rinnovo dei ccnl del settore credito dell’11 luglio 1999
*********
1.
Nozione di outsourcing
Con il vocabolo anglosassone “outsourcing” – traducibile in italiano con “esternalizzazione” o
“terziarizzazione”, nel senso di affidamento a terzi dell’incarico di fornitura
di un servizio aziendale – si usa designare l’attuale, intensificata, pratica
delle imprese di estromettere dall’interno dell’azienda una o più attività che
vengono fornite, dopo la dismissione, da parte di un soggetto terzo esterno
all’azienda stessa.
Il soggetto terzo può essere una nuova mini - azienda costituita ad hoc e, quindi, giuridicamente
distinta dall’azienda committente (più spesso sotto il suo controllo azionario)
ovvero un’azienda terza già operante da tempo sul mercato tramite una propria
specializzazione – distinta non solo giuridicamente ma anche autonoma sotto il
profilo finanziario e gestionale
dall’azienda committente – che si obbliga a fornire per il futuro i
servizi dismessi dall’azienda committente. Normalmente ciò avviene dopo
l’incorporazione del ramo di azienda da quest’ultima scorporato per vari
motivi, quali la contrazione d’organico (onde traguardare un maggiore
flessibilità gestionale) e la riduzione del costo del lavoro.
Non è una novità il fatto che le aziende,
eminentemente per i motivi sopra riferiti, abbiano tentato di enucleare dal “core business” – o nucleo centrale
d’attività – tutta una serie di operazioni di supporto, complementari,
collaterali e sussidiarie all’attività strategica onde farle, possibilmente,
effettuare all’esterno sia da ditte specializzate sia da aziende create
appositamente allo specifico scopo. Per tal via è stata favorita la creazione
del c.d. “indotto” (tipico quello Fiat, costituito da mini-aziende satelliti) e
la parcellizzazione o frammentazione delle grandi e medie imprese in imprese
minori, talora anche nell’ottica non disinteressata di dimensionarle al disotto
dei limiti numerici di organico fissati dalla legge per l’applicazione
garantista ai prestatori di lavoro della legge sulla “giusta causa” nei
licenziamenti individuali (35 dip., ex
lege n. 604/’66) e dello statuto dei lavoratori (15 dip., ex art. 35 della
L. n. 300/’70).
Ora, strumentalizzando anche il dato reale
della globalizzazione dei mercati e della più accentuata competitività, i
manager delle nostre imprese si scoprono impegnati in operazioni, da un lato,
di fusione e di concentrazione (fonte dei noti esuberi) e, dall’altro, di “outsourcing”, ovverosia di scorporo di
attività e di interi rami d’azienda o di ricorso ad appalti esterni. Per parte
sua il legislatore nostrano – con la L. n. 196/’97 (cd. “pacchetto Treu” per il
lavoro) – è venuto incontro, sia pure con le necessarie cautele, alle
insistenti richieste di “insourcing”
provenienti dai datori di lavoro. “Insourcing”
consistente nella legittimazione di prestito o inserimento funzionale di
lavoratori temporanei, dipendenti da agenzie esterne, all’interno dell’azienda,
attraverso la “fornitura di lavoratori interinali”. Fornitura che, qualora
senza i vincoli attualmente apposti dalla legge italiana e praticata con la
diffusione e la liberalizzazione tipica dei
paesi anglosassoni, taluno
(1)
non ha esitato a qualificare come “un
tipo evoluto di outsourcing”, precisando tuttavia, tanto correttamente
quanto a malincuore, che “in questo caso
davvero si può parlare di ‘lavoro in
affitto’, e che… in Italia il quadro normativo preclude ora questa possibilità,
così importante appunto in altri contesti”.
2.
Problematiche
giuridiche dell’outsourcing
Dal lato giuridico, due sono gli istituti che
vengono in rilievo quando s’intende dar corso ad un’iniziativa di “outsourcing”:
a) l’art. 1655 c.c., afferente all’appalto di
servizi, che definisce l’appalto come “…il
contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e
con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio,
verso un corrispettivo in danaro”. Appalto che risulta legittimo quando il
fornitore del servizio, in possesso dei requisiti soprariferiti, rivesta almeno
le caratteristiche del piccolo imprenditore (di cui all’art. 2083 c.c.) se non
della media impresa;
b) l’art. 2112 c.c., quale novellato dall’art.
47 della legge comunitaria del 29.12.1990, n. 428, che disciplina sia lo scorporo di un ramo di azienda
destinato alla costituzione ex novo
di distinta azienda di servizi sia l’incorporazione da parte di preesistente
azienda di un ramo d’impresa dismesso dall’azienda alienante.
3.
Outsourcing
tramite ricorso all’appalto
Una volta assodato che l’idea di rivolgersi al mercato
esterno per soddisfare in modo più efficace ed efficiente esigenze interne, non
è affatto nuova e che a renderla innovativa non vale certo la parola di nuovo
conio anglosassone “outsourcing”, va
rilevato che con le degenerazioni di questa pratica o stategia
organizzativo-gestionale s’imbattè il legislatore nel 1960 quando, sentite le
risultanze della Commissione Rubinacci sulle condizioni dei lavoratori in
Italia, varò la L. n. 1369 del 23.12.1960, titolata “Divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di
lavoro e nuova disciplina dell’impiego della manodopera negli appalti di opere
e servizi”.
La legge – con l’art. 1 – colpì la “ mera somministrazione
di manodopera” alle imprese da parte del c.d. “imprenditore apparente”(in
quanto non dotato di organizzazione, capitali e mezzi propri né soggetto a
rischio d’impresa) tramite la sanzione della costituzione, in capo all’impresa
realmente utilizzatrice delle prestazioni, di effettivi rapporti di lavoro con
i prestatori d’opera somministrati dal terzo. Divieto e sanzione che la L. n.
196/’97 (c.d. “pacchetto Treu”) -
introduttiva nell’ordinamento del c.d. lavoro interinale - ha mitigato e delimitato, legittimando
esclusivamente:
a)
la fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo per
attività espletabili da “qualifiche di
non esiguo contenuto professionale, individuate come tali dai contratti
collettivi nazionali della categoria di appartenenza dell’impresa utilizzatrice”
(art.4, lett.a, L. n. 196/’97);
b)
nonché recependo un principio cardine della L. n. 1369/’60,
cioè a dire quello della parificazione nel trattamento economico/normativo fra
i dipendenti dell’impresa committente e dipendenti somministrati
temporaneamente ad essa, con previsione esplicita di garanzia solidale in caso
di inadempienza.
Non è superfluo riaffermare, su questa parte della L. n.
196/’97 afferente l’introduzione del lavoro interinale – quantunque con
opportune garanzie e cautele – un giudizio di “incondivisibilità”, per la
carenza di un portante sostrato ideologico, per l’assimilazione della persona
del lavoratore ad una merce di scambio e per l’istituzionalizzazione di
posizioni lavorative di indiscussa consistenza precaria, suscettibili di
occasionare la fattispecie del lavoro “a saltimbanco” tra un’impresa ed
un’altra, privo di sbocchi di carriera e carente di stimoli motivanti.
Tornando alla legge
n. 1369/’60, va detto che essa statuì poi – tramite l’art. 3 – che gli
imprenditori che “appaltano opere o
servizi – compresi i lavori di facchinaggio, di pulizia e di manutenzione
ordinaria degli impianti – da eseguirsi all’interno delle aziende, con
organizzazione e gestione propria dell’appaltatore, sono tenuti in solido con
quest’ultimo a corrispondere ai lavoratori da esso dipendenti un trattamento
minimo inderogabile retributivo e ad assicurare un trattamento normativo non inferiore
a quelli spettanti ai lavoratori da loro dipendenti”. Stabilì, cioè, la
parificazione tra i lavoratori del trattamento contrattuale, nazionale o
aziendale. Il tutto in omaggio alle condivise considerazioni della Relazione
della Commissione Rubinacci sulle condizioni dei lavoratori in Italia, secondo
la quale:”Il perimetro dell’azienda non
costituisce soltanto una delimitazione territoriale, ma il confine entro il
quale una comunità di uomini si raccoglie ed opera, con la stessa vocazione,
con un’intensità di rapporti umani, con una identità di ansie e di speranze,
nelle quali i problemi, gli ideali, i sentimenti, le aspirazioni, i bisogni di
ognuno, sia pure in parte si esprimono. E da tutti non può non essere avvertita l’esigenza che unica
sia la legge nella stessa comunità"(2).
Correttamente poi giurisprudenza e dottrina rilevarono che lo stesso
trattamento contrattuale collettivo doveva riguardare non tanto tutti i
lavoratori che operavano “fianco a
fianco” all’interno del perimetro dell’azienda committente ma indistintamente
tutti coloro che, dipendenti dell’appaltatrice, erano impegnati nella fornitura
in appalto di un servizio strutturalmente finalizzato a realizzare il (o ad
inserirsi nel ) ciclo produttivo dell’azienda appaltante. A riprova di questo
convincimento militava l’art. 5 tramite il quale il legislatore aveva escluso
dal regime equiparativo o di uniformità contrattuale, i soli dipendenti
dell’impresa appaltatrice impiegati:
a)
in appalti afferenti attività accessorie al ciclo produttivo
della committente, individuati con la formula “appalti per l’esecuzione di prestazioni saltuarie ed occasionali, di
breve durata, non ricorrenti abitualmente nel ciclo produttivo dell’impresa”;
b)
nonché quelli impiegati in altre attività similmente estranee
al ciclo produttivo aziendale o del tutto specialistiche, quali tassativamente:
le costruzioni edilizie all’interno degli stabilimenti; l’installazione o
montaggio di impianti e macchinari; la manutenzione straordinaria; i trasporti
esterni; gli appalti per particolari
attività produttive le quali richiedano, in più fasi successive di lavorazione,
l’impiego di manodopera diversa per specializzazione da quella normalmente
impiegata nell’impresa, semprechè tale impiego non abbia carattere
continuativo; gli appalti per lavori di facchinaggio, di pulizia e di
manutenzione ordinaria, conclusi con imprese che impieghino il proprio
personale presso più aziende contemporaneamente (e dietro autorizzazione
dell’ispettorato del lavoro).
Ed infatti una consolidata dottrina e giurisprudenza
interpretò la dizione “appalti da
eseguirsi all’interno dell’azienda” (di cui all’art. 3 L.n. 1369/’60) non
già in senso restrittivo perimetrale o topografico, ma in senso estensivo di
inerenza degli appalti al ciclo produttivo dell’impresa committente. Secondo la
Cassazione (di cui si riporta, per tutte, il pensiero della decisione n.
814/1993) la dizione “interno delle
aziende non va intesa come mero riferimento topografico, nel senso che
l’attività dell’appaltatore debba svolgersi all’interno dello stabilimento o
stabilimenti ove ha sede l’attività produttiva dell’appaltante, bensì nel senso
che l’attività dell’appaltatore riguardi un settore dell’organizzazione tecnica
o amministrativa dell’impresa concedente l’appalto, ossia uno dei servizi
principali o ausiliari predisposti ai fini della realizzazione del suo ciclo
produttivo”.
Come si può agevolmente
comprendere, l’outsourcing che
abbia, nel nostro Paese, come oggetto l’esternalizzazione di attività
essenziali o strumentali alla realizzazione del ciclo produttivo aziendale
- e non già attività meramente
accessorie o di carattere saltuario (quali quelle identificate tassativamente
nell’art. 5 L. n. 1369) - non potrà
beneficiare degli effetti correlati al
movente del risparmio sul costo del lavoro, conseguibile per effetto delle differenze contrattuali
tra trattamento dei dipendenti dell’impresa gestente il “core business” e dell’impresa gestente, in appalto, le attività
collaterali ma ad esso strumentalmente e finalisticamente collegate.
A poco, anzi a niente, vale – fintanto che tale normativa
esiste e la si ritiene, come chi scrive, tutoria delle condizioni dei
lavoratori - dire che si tratta di “un precetto davvero superato, almeno nella
sua perentorietà, al punto da indurre le imprese a ‘saltarlo’ completamente”
(3).
4.
Outsourcing tramite scorporo di ramo d’azienda
La modalità più innovativa e diffusa di spiegamento dell'outsourcing è quella
dell’esternalizzazione delle attività non strategiche per l’azienda (es:
informatizzazione dei dati, servizi generali - incluso magazzino e
approvvigionamenti -, amministrazione delle paghe e stipendi del personale,
contabilità generale, consulenza fisco-previdenziale e giuslavoristica,
contenzioso, recupero crediti, ecc.) attraverso l’enucleazione delle stesse,
unitamente ai dipendenti addetti al disimpegno di tali attività, per la loro
riallocazione in distinte società costituite ad hoc (normalmente sotto il controllo azionario della scorporante
i vari rami d’azienda) ovvero la loro cessione ad altre società specializzate,
da tempo operanti proficuamente sul mercato, che provvederanno
all’incorporazione dei ceduti rami d’azienda.
In entrambi i casi ipotizzati, l’azienda alienante dovrà –
ex art. 2112 c.c., in tema di trasferimento d’azienda – seguire le procedure di
informativa e di confronto sindacale di cui all’art. 47 L. n. 428/1990, mentre
la nuova azienda (o l’acquirente) dovrà garantire la continuità dei rapporti di
lavoro ed applicare nella nuova società “i
trattamenti economico-normativi previsti da contratti collettivi, anche
aziendali, vigenti alla data del
trasferimento fino alla loro scadenza, salvo che non siano sostituiti da altri
contratti collettivi applicabili all’impresa dell’acquirente medesimo”.
Solo con l’intervento delle OO.SS. e attraverso atti inimpugnabili costituiti
da verbali di conciliazione sindacale o amministrativa (realizzati ex art. 410
e 411 c.p.c.) l’alienante può essere liberato dalle obbligazioni derivanti dal
rapporto di lavoro pregresso; è tuttavia pacifico che affinchè il consenso
sindacale non si attualizzi in una inimmaginabile svendita dei diritti dei
lavoratori, gli effetti liberatori dovranno essere ampiamente compensati da
altri benefici certi, consistenti ed apprezzabili, eminentemente in ordine al
futuro assetto contrattuale dei lavoratori incorporati.
Con questa tecnica di “outsourcing”,
l’azienda madre realizza indubitabilmente una contrazione di organico e
risparmi retributivi indiretti ma sarà difficile che consegua una consistente e
diretta contrazione del costo del lavoro anche perché nella procedura di
confronto sindacale (che peraltro non si traduce in un obbligo datoriale a
negoziare), nessuna seria Organizzazione sindacale acconsentirà, supportata dal
disposto normativo dell’art. 3 L. n. 1369/’60, che la nuova società costituita
per la fornitura di attività o servizi inerenti al ciclo produttivo aziendale
(in quanto non rientranti tra quelli tassativamente elencati nell’art. 5 della
legge citata) applichi contratti collettivi nazionali o aziendali diversi da
quelli adottati dalla società alienante, trasformatasi in committente.
Allo stesso obbligo equiparativo nell’applicazione dei
contratti collettivi nazionali ed aziendali – quantunque limitato alla durata
del contratto di fornitura dei servizi inerenti
al ciclo produttivo aziendale –
soggiace l’azienda (terza) incorporante il ramo d’azienda dismesso,
relativamente al nucleo di personale impiegato nella fornitura dei servizi
all’azienda committente, nucleo che, non necessariamente ma molto verosimilmente, coinciderà con quello dei
dipendenti trasferiti con il ramo di azienda dismesso.
5.
L'outsourcing nell’accordo di rinnovo dei
ccnl del settore credito dell’11 luglio 1999
Quanto abbiamo affermato – sotto l'aspetto della
vincolatività giuridica del principio della uniformità economico normativa,
realizzabile solo attraverso
l'uniformità di applicazione contrattuale,
sancita dall'art. 3 L. n. 1369/'60 per i lavoratori addetti (in organico
o in aziende esterne) ad attività inerenti al ciclo produttivo dell'impresa
principale committente – è stato indubbiamente tenuto presente nella
sostanza dagli agenti negoziali in
rappresentanza delle OO.SS. stipulanti l' accordo dell'11 luglio 1999 di
rinnovo degli scaduti ccnl del credito. Anche se dobbiamo sottolineare che la
tassatività delle ipotesi codificate all'art. 5 della L. n. 1369/1960 (quali
fattispecie di deroga all'applicazione del principio di uniformita di
trattamento (id est, contrattuale) è
stata abilmente – e con dubbia legittimità – riconfezionata ad hoc per il nostro settore e degradata
ad "esemplificazione" ("indicativamente", nel testo
dell'accordo), con il certo rischio di dilatazione ad altre ipotesi di
"attività accessorie e/o complementari", con presumibile pregiudizio
per i lavoratori (così Cap. 1, "area contrattuale", punto 3).
Tuttavia è fatto significativo ed importante che il principio dell'uniformità di
trattamento contrattuale – per lavoratori in organico e lavoratori
scorporati ed allocati in altre aziende
(incorporanti) anche non bancarie, impiegati in attività facenti parte del
ciclo produttivo aziendale dell'azienda di credito (o ad essa
organizzativamente connesse) – sia stato mantenuto fermo, e ciò lo si desume
dal tenore letterale dell'intero Cap.1 della predetta ipotesi di accordo.
Al 2°, 3° e 4° comma
del predetto Cap. 1 è stato, infatti, specificato, con intenti
garantistici per i lavoratori, che – per "alcune attività o processi e fasi lavorative, o raggruppamenti di
attività organizzativamente connesse" (a quelle dell'azienda di
credito), in caso di allocazione del personale e delle attività (mediante
eminentemente scorporo di ramo d'azienda)
presso aziende non controllate (e quindi non applicanti il ccnl del
credito) - "è garantita al personale interessato in tali processi ed a quello di
nuova assunzione, impiegato nelle attività di cui al punto 1 del Cap. 1, l'applicazione del ccnl del credito, con le
relative specificità". A tal fine
"l'azienda alienante potrà cedere le attività in questione a condizione
che l'acquirente si impegni ad applicare il contratto collettivo del credito
con le relative specificità e demandi e a far assumere, in caso di successiva
cessione, il medesimo impegno al nuovo acquirente".
Le attività "organizzativamente
connesse" al credito – per le quali, ferma restando l'applicazione al
personale addetto del ccnl del credito (anche in caso di
esternalizzazione),quantunque temperata da "specifiche
regolamentazioni" in tema di orario ed inquadramenti al "fine di addivenire, con la necessaria gradualità
temporale, ad una disciplina coerente con il mercato di riferimento"
(Cap. 1, 2° comma) – sono tassativamente individuate al punto 1) della
precitata ipotesi d'accordo.
Esse consistono nelle attività di:
A)
Intermediazione mobiliare.
B)
Leasing e factoring.
C)
Credito al consumo.
D)
Gestione delle carte di credito e sistemi di pagamento.
E)
Servizi o reparti centrali o periferici, di elaborazione
dati, anche di tipo consortile.
F)
Centri servizi, relativamente alle attività di tipo
amministrativo contabile, non di sportello, svolte in maniera accentrata
(strutture centrali o periferiche), di supporto operativo alle seguenti
specifiche attività creditizie:
-
nell'area sistemi di pagamento: bonifici Italia da/verso
clienti; utenze; portafoglio cartaceo ed elettronico da clienti e
corrispondenti; carte di credito e di debito; imposte e tasse; Inps; assegni
circolari/bancari;
-
nell'area estero: crediti documentari e portafoglio estero;
bonifici estero; girofondi finanziari;
-
nell'area finanza. amministrazione e regolamento titoli
italiani in portafoglio non residenti; prodotti derivati trattati su mercati
regolamentati; prodotti derivati OTC; forex/money market; depositi;
-
nell'area titoli: custodia titoli; amministrazione azioni e
obbligazioni; regolamenti c/cifra e franco valuta; banca depositaria; fondi di
gestione; GPM/risparmio gestito; informativa societaria;
-
nell'area supporto: anagrafe; conti correnti;
-
nell'area servizi generali: contabilità, ivi compresa quella
fornitori.
G)
Gestione amministrativa degli immobili d'uso.
Per quanto riguarda l'attività dei CED, va detto che viene a
scomparire la qualificazione (rinvenibile in entrambi i precedenti, scaduti,
contratti) secondo la quale essa era "parte
costitutiva essenziale del ciclo produttivo" aziendale, declassata ora
nell'ambito delle "attività
organizzativamente connesse" al core
business della banca, anche se le conseguenze in ordine all'applicazione
del ccnl del credito - con specifici
adattamenti o regolamentazioni (definiti nei precedenti contratti "norme di modulazioni e flessibilità")
- restano del tutto immutate.
Sostanziosi cambiamenti sono invece rinvenibili in ordine
alla previsione – in precedenza inespressa e pertanto ora del tutto nuova –
delle "attività complementari e/o
accessorie appaltabili" senza alcun vincolo di applicazione integrale
del ccnl del credito (anzi destinatarie di contratti complementari
contemplanti, per gli assumendi dopo la stipula del ccnl, una riduzione delle
tabelle salariali del 15%). Attività che, peraltro vengono individuate non già "tassativamente"
ma "indicativamente", tramite esemplificazioni dilatabili ad altre
imprecisate fattispecie.
Come sopraccennato, lo scadimento dalla fissazione
"tassativa" – di cui all'art.
5 della L. n. 1369/1960 (invero con riferimento a realtà eminentemente
industriali) – nella fissazione "esemplificativa" presenta
indubitabili aspetti di pericolosità (oltre a sospetti di illegittimità della
difforme previsione contrattuale in deroga alla legale caratterizzata da
vistose analogie di ratio) per i lavoratori adibii a tali operazioni
appaltabili senza soverchie garanzie dal lato del trattamento
economico-normativo dei prestatori d'opera. Tali attività, che gli agenti
negoziali hanno convenuto come liberamente appaltabili e destinatarie di
contratti con regolamentazioni difformi da quello del credito per taluni
istituti economico/normativi – invero,
dopo 40 anni circa dalla formulazione legislativa, con spirito di maggiore
aderenza alla realtà di oggi (e del settore) rispetto alle ipotesi (di
marca prettamente industriale)
dell'art. 5 della legge del 1960, che comunque permane fino ad originare il
dubbio che con essa si pongano in contrasto le odierne pattuizioni contrattuali
del rinnovato ccnl del credito, in mancanza di una modifica specifica del
legislatore alla legge de qua– sono
identificate "indicativamente"come
segue:
1.
Servizio portafoglio (escluse quelle di cui al punto 1,
lett. F) e cassa/trattazione assegni; lavorazioni di data entry relative ad
attività di back office.
2.
Trattamento delle banconote (ammazzettamento, contazione,
cernita, etc.); trattamento della corrisposndenza e del materiale contabile;
trasporto valori.
3.
Attività di supporto tecnico/funzionale per self-banking,
POS, electronic banking e banca telefonica.
4.
Gestione di archivi, magazzini, economato
(approvvigionamento di materiali
d'uso); servizi centralizzati di sicurezza; vigilanza.
A conclusione della disamina, possiamo dire che la
"moda dell'outsourcing" –
praticabile in maniera indiscriminata e selvaggia, nelle intenzioni
aziendali e dell'associazione datoriale
– ha ricevuto, almeno per ora, tramite l'accordo di rinnovo, pesanti freni e
condivisibili condizionamenti in linea con la riaffermazione della centralità e
dell'applicabilità del contratto del credito per le attività intrinsecamente
e/o strumentalmente connesse al ciclo produttivo dell'azienda bancaria, secondo
i capisaldi di principio solidamente fissati dalla L. n. 1369/1960 che dei
condizionamenti contrattuali é stata – indiscutibilmente – l'ispiratrice palese
od occulta. Sono tuttavia
condizionamenti e freni che, da quanto traspare dalla stessa ipotesi di
accordo, la parte datoriale si ripromette di sottoporre a futura e graduale
erosione – a meno di una capacità di resistenza ad oltranza del Sindacato al
riguardo – sollecitata dalla legge del "profitto" e del
"mercato" cui è indifferente ed estranea qualsiasi remora solidaristica e di rispetto dell'individuo e
delle sue esigenze di dignità, alla cui difesa è invece deputato
istituzionalmente il Sindacato, senza che gli sia consentito – pena un pesante giudizio di inadeguatezza o, peggio,
di collusione con la controparte - deflettere o venire meno al proprio compito.
Mario Meucci
(pubblicato in Incontri n. 4/1999)
NOTE
(1) Biagi, L’outsourcing: rischio od opportunità?, in Guida al lavoro del 7.10.’97, n.3, p. 10 e ss
(2) Così dalla Relazione cit., in Rass. lav., febbr. 1958,p.220.
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