Dopo la flessibilità cosa? Riflessioni sulle politiche del lavoro di
Luigi Mariucci
1.
L’errore strategico
della recente legislazione sulla flessibilità del lavoro. Massimo D’Antona scriveva già nel 1993, in relazione alle misure sulla flessibilità del lavoro previste dal protocollo del 23 luglio: “è un programma che ha il limite evidente di ripercorrere sentieri battuti. L’idea che quote aggiuntive di flessibilità nelle tipologie dei rapporti di lavoro possano produrre occupazione è palesemente obsoleta. Il mercato del lavoro è ormai in Italia flessibilizzato in misura più che adeguata alle esigenze effettive delle imprese e non vi sono margini ulteriori per creare convenienze alle assunzioni”[1]. Dieci anni dopo invece sono entrati in vigore la legge delega n. 30 del 14 febbraio 2003 sulla “riforma del mercato lavoro” e il d. lgs. n. 276 del 10 settembre 2003, corretto dal successivo d. lgs. n. 251 del 6 ottobre 2004 e accompagnato da una miriade di decreti e circolari ministeriali. Si tratta di un materiale normativo imponente: il solo d. lgs. n. 276 del 2003 contiene 86 articoli, molti dei quali composti da decine di commi. In termini di semplificazione c’è di che rimpiangere i 41 articoli dello Statuto dei lavoratori del 1970 e le asciutte norme (artt. 2094-2134) del codice civile del 1942. Questo
complesso intervento legislativo si è fondato su un presupposto. Si
supponeva che il mondo occidentale fosse alle soglie di una nuova
crescita. La terapia, per l’Italia, era quindi conseguente: si
trattava di favorire l’aggancio a quella crescita, in particolare
liberalizzando il mercato del lavoro, nella doppia linea di ridurre le
protezioni per i lavoratori occupati e di allargare a dismisura le forme
flessibili di lavoro, sub specie di contratti c.d. atipici.
L’intervento legislativo si è quindi realizzato attraverso la
seguente sequenza: generalizzata liberalizzazione del collocamento,
moltiplicazione delle figure flessibili di contratto di lavoro
subordinato, dal part-time elasticizzato al lavoro a chiamata, dalla
somministrazione di lavoro a tempo indeterminato al lavoro occasionale,
quindi flessibilizzazione del rapporto tra le fonti mediante un insieme
di rinvii legislativi a una contrattazione collettiva indeterminata
sotto il profilo della dimensione degli stessi contratti, da stipularsi
da parte di “sindacati comparativamente più rappresentativi”,
essendo in genere considerati fungibili i diversi livelli, nazionali,
territoriali e aziendali di contrattazione; misure di liberalizzazione
dei trasferimenti di ramo d’azienda e delle diverse tecniche di
esternalizzazione, con particolare riferimento agli appalti, infine
flessibilizzazione della stessa fattispecie costitutiva del diritto del
lavoro, il lavoro subordinato, attraverso l’introduzione della ambigua
nozione di lavoro a progetto e delle insidiose procedure di c.d.
certificazione[2]. Tale
disegno era stato enunciato già dal “libro bianco del lavoro”
pubblicato dal governo nell’ottobre 2001. Basti ricordare alcune
formulazioni di quel documento: “continuare ad accrescere la
flessibilità del mercato del lavoro”, necessità del “passaggio da
una politica dei redditi a una politica della competitività”,
“dalla concertazione al dialogo sociale”, “rimodulazione delle
tutele” sono le parole chiave[3].
Il successivo d.d.l. n. 848 presentato dal governo il 15 novembre 2001
dimostrava poi che il cuore di quel progetto riguardava essenzialmente
due obiettivi: la flessibilizzazione del rapporto “tipico” di
lavoro, per un verso, essendo evidente che l’insieme di deroghe
proposte alla disciplina di cui all’art. 18 dello Statuto dei
lavoratori comportava una sua sostanziale e progressiva sterilizzazione[4]
e la destabilizzazione del sistema sindacale, per l’altro, attraverso
la messa in mora delle pratiche di concertazione, considerate bloccanti
e comunque disfunzionali, e la stessa esplicita teorizzazione
dell’accordo “con chi ci sta”, di cui è stata emblematica
espressione il “patto per l’Italia” del 5 luglio 2002[5].
Entrambi gli obiettivi sono stati mancati. Infatti
il disegno di legge originario è stato poi scorporato in due parti. Una
sezione di quel testo è entrata in vigore con la legge n. 30 e il d.
lgs. n. 276 del 2003. Invece la seconda parte (d. d. l. n. 848 bis)
relativa alle modifiche dell’art.18 e alla riforma degli
ammortizzatori sociali giace ancora in Parlamento. Cosicché della
disciplina dei licenziamenti, la cui riforma era invocata a gran voce
come strumento essenziale per promuovere nuova occupazione, non si sono
neppure modificate le parti che invece meritavano di esserlo, quali
l’accelerazione delle procedure per le controversie giudiziarie. Nel
corso di una recente audizione al Senato i rappresentanti della stessa
Confindustria hanno dichiarato di non essere più interessati al tema.
Si è ingaggiata quindi una vana battaglia, che tuttavia ha occupato la
scena politica e sociale per circa due anni: un pomo della discordia
alla resa dei conti inutile. Assieme alla invocata modifica
dell’art.18 dello Statuto sono rimaste al palo le nuove norme
sull’arbitrato e soprattutto sugli ammortizzatori sociali, per i quali
non sono disponibili risorse, mentre proseguono imperterriti gli
interventi straordinari sulle crisi aziendali anche mediante
prepensionamenti ovvero mobilità c.d. lunga, sulla falsariga delle
vecchie normative di cassa integrazione[6].
Quanto ai rapporti sindacali si è aperta una nuova fase descrivibile in
termini di unità d’azione, comunque lontana dalle contrapposizioni
verificatesi al tempo dell’effimero, quanto ridondante nel titolo,
“patto per l’Italia”, ed emblematizzata dalla proclamazione di
scioperi generali unitari contro il progetto di legge finanziaria per il
2005. Il
disegno qui descritto si è rivelato inefficace perché fondato su un
presupposto errato. Non era vero infatti che all’inizio del nuovo
millennio il mondo capitalistico-occidentale avesse di fronte a sé una
nuova e lineare fase di crescita, nella prospettiva di una irenica e
felice globalizzazione. Dopo l’attentato dell’11 settembre alle due
torri, e gli interventi in Afghanistan e in Irak, il mondo si è
avventurato invece in una micidiale spirale di guerra-terrorismo. Le
economie occidentali sono entrate in una fase di depressione, alimentata
anche da clamorosi scandali finanziari che hanno svelato i caratteri di
una vera e propria “economia della truffa”[7].
In Italia poi si è avviata una tendenza generalmente definita dalle più
diverse e autorevoli fonti in termini di perdita di competitività del
sistema, basso tasso di innovazione tecnologica, caduta del potere
d’acquisto delle retribuzioni e conseguente riduzione dei consumi,
rinnovata crisi della finanza pubblica: nessuna delle analisi serie dei
fattori del “declino italiano” indica nella rigidità dell’uso
della forza lavoro la radice dei problemi, e nelle misure di
flessibilizzazione del lavoro la terapia. Basta questo per concludere
che è meglio concentrarsi sul modo in cui rettificare gli errori
concettuali di fondo di quel disegno, piuttosto che occuparsi della
modesta dimensione attuativa dei provvedimenti in oggetto. Tuttavia
si può osservare che quanto alla concreta attuazione della normativa,
nonostante l’enfasi ministeriale[8]
i dati empirici risultano alquanto scarni: del lavoro a chiamata non si
hanno tracce, se non per qualche clausola di contratti collettivi in
settori marginali e per un decreto ministeriale il quale ha disposto che
il lavoro intermittente possa essere svolto niente meno che per le
attività discontinue di cui alla tabella allegata al regio decreto del
1923 sull’orario di lavoro; quanto alla somministrazione del lavoro a
tempo indeterminato sembra si debba registrare un solo e isolato caso;
sul piano dei soggetti legittimati alla intermediazione del lavoro si
registra una situazione confusa, mentre nessun esito concreto ha avuto
la scelta di individuare negli enti bilaterali “la sede privilegiata
per la regolazione del mercato del lavoro” secondo la dizione di cui
alla lett.h), art.2 d. lgs. n. 276/2003; modesto e ambiguo risulta
l’effetto della trasformazione dei cococo (collaborazioni coordinate e
continuative) in cocopro (lavori a progetto), tra cococo che rimangono
sulla base delle ampie eccezioni previste dal d. lgs. n. 276,
trasformazione dei cococo nella incerta e altrettanto precaria figura
dei cocopro, trasformazione dei cococo in partite Iva e altre forme di
aggiramento della legge; della certificazione dei contratti di lavoro
non si hanno tracce concrete, salvo l’emanazione di decreti e
circolari che incrementano il crescere geometrico della produzione
cartacea, senza alcuna vera interlocuzione con i processi sociali
concreti. Vi sarà tempo in ogni caso di procedere a una puntuale
verifica da svolgersi con metodo empirico scevro da ogni pregiudiziale. La
debolezza del disegno legislativo in oggetto, al di là della esiguità
del suo profilo attuativo, sta comunque in un punto di fondo. Quel
disegno, come si è detto, in nessun modo ha interagito con i processi
di crisi industriale e sociale verificatisi negli ultimi anni. La
controprova viene da una sommaria osservazione dei più rilevanti
conflitti sociali accaduti in questo periodo. Se si guarda alla crisi
Fiat, al crack Cirio e Parmalat, alla crisi Alitalia, ai conflitti
aperti in tutti i più rilevanti settori pubblici è facile rilevare che
nessuno, in questi casi, ha indicato nella rigidità del lavoro e nella
adozione di misure di flessibilizzazione la questione di fondo. Il
problema è evidentemente un altro. Si prenda il caso Fiat: la
flessibilità del lavoro in alcun modo è stata evocata come rimedio
alla crisi strutturale di quella storica industria nazionale. Oppure il
caso Alitalia: la crisi della compagnia di bandiera è stata affrontata
con la stipulazione di un accordo di carattere concessivo, in ordine non
solo alle procedure di riduzione di oltre 3000 unità di lavoro ma anche
alla ridefinizione degli assetti retributivi e dei contenuti della
prestazione di lavoro per i dipendenti la cui occupazione viene
salvaguardata. Ma non risulta che sia stato impiegato nessuno degli
strumenti previsti dal complesso armamentario della legge n. 30, salvo
un marginale riferimento alle normative sul distacco. Che dire poi degli
altri punti forti del conflitto sociale: lo sciopero degli
autoferrotranviari di Milano che in violazione delle regole di legge ha
bloccato quella città per una intera giornata, la lotta degli operai di
Melfi, l’agitazione nel pubblico impiego, dalla sanità alla scuola.
In conclusione: la legge n. 30 del 2003 non ha “parlato” con nessuno
dei più significativi conflitti sociali degli ultimi anni. Basta questo
a dire che si è trattato di una legge più che sbagliata “sfasata”,
la cui entrata in vigore è coincisa con una diffusa consapevolezza del
suo essere fuori contesto. Per
meglio spiegare l’affermazione si può fare un parallelo con
l’entrata in vigore di un’altra legge, in un diverso periodo
storico: lo Statuto dei lavoratori del 1970. Anche quella legge aveva
alcuni punti deboli e fu sottoposta a una valutazione critica da parte
della dottrina giuslavoristica: si parlò infatti di una “legge
malfatta”[9].
Ma essa, nonostante i suoi limiti, aveva dalla sua parte una virtù: fu
l’espressione autentica di una fase di evoluzione sociale e politica,
comunicò con i conflitti sociali e con la politica di allora. Perciò,
nonostante le sue “rughe”[10]
resta tutt’oggi attuale e consiste in un prodotto normativo duraturo.
Al contrario la congerie di norme introdotte dalla legge n. 30 del 2003
e dai successivi provvedimenti attuativi sembra costruita sulla sabbia,
in attesa di una piccola marea destinata a cancellarla. La
terapia si è rivelata dunque inefficace perché era sbagliata la
diagnosi. Il problema dell’Italia non è quello di destabilizzare il
sistema di garanzie del lavoro dipendente attraverso politiche di
flessibilizzazione estrema dell’uso della forza-lavoro, inseguendo una
tardiva e irrealistica imitazione del modello americano o affrontando la
competizione globale sulla base di una impraticabile gara alla riduzione
dei costi e delle tutele del lavoro[11].
Al contrario: il paese deve puntare sulla qualificazione del suo tessuto
produttivo e professionale. E’ lo stesso problema che ha l’Europa.
Non ha caso il “libro bianco del lavoro” del 2001 invocava a
sostegno della sua strategia una accezione di politiche del lavoro
europeo del tutto parziale: leggendo quel testo sembrava che l’Europa
ci chiedesse a gran voce l’abrogazione della tutela reale contro i
licenziamenti illegittimi, l’introduzione del part time elasticizzato,
il lavoro a chiamata, la somministrazione di manodopera, la
destrutturazione dell’intervento pubblico sul mercato del lavoro. Era
una visione più che iper-liberista scolastica[12].
Al contrario l’Europa chiede oggi a se stessa, specie dopo
l’allargamento[13],
un’altra cosa: un aggiornamento dei modelli di protezione sociale e di
Welfare coerente con la sua tradizione. Questa del resto è l’unica
via attraverso cui sia possibile pensare l’Europa come un soggetto
della scena globale, capace di promuovere nuove regole della
competizione, specie dopo le sfide costituite dall’allargamento della
Unione europea e dalla firma della nuova Costituzione europea effettuata
a Roma nell’ottobre 2004[14].
Azzardo
qui una valutazione, rischiosa come tutte le indicazioni “sul
futuro”, secondo quanto ha ricordato Giuliano Amato nel presentare una
antologia postuma degli scritti di Federico Mancini[15].
L’epoca della ideologia della flessibilità, intesa come valore in sé,
come criterio discretivo dirimente, quasi fosse una dimensione
necessaria del pensiero è in via di esaurimento. Va elaborato un nuovo
orientamento il quale non può essere di segno nostalgico all’insegna
di una sia pure involontaria laudatio
temporis acti. A questo fine non basta una impostazione di tipo
semplicemente correttivo, come quella pure meritoriamente proposta da
chi ha suggerito la formula di una flessibilità “mite” ovvero
“temperata”[16].
Occorre qualcosa di più. Una
prima ipotesi è stata individuata nell’ambito di una cosiddetta
“strategia dei diritti”. E’ questa l’impostazione che ha
caratterizzato l’iniziativa della Cgil nei primi anni 2000. E’
sembrato in quel periodo che affermazioni quali “diritti del lavoro
uguale diritti di libertà” ovvero “i diritti del lavoro sono la
radice più profonda dei diritti di libertà” tornassero ad avere un
senso comune, che fossero capaci di una efficace comunicazione sociale e
politica, e che quindi il tema dei diritti del lavoro assumesse di nuovo
un significato forte, orientativo delle politiche pubbliche. Che su
quella base si potesse fondare perciò una nuova piattaforma di politica
del diritto in cui al lavoro veniva restituito un rilievo essenziale.
Non è stato così. Il lavoro è tornato nel silenzio e ha perso di
nuovo la capacità di determinare l’agenda politica, nonostante il
persistere e anzi il diffondersi di rilevanti conflitti sociali. Bisogna
quindi prendere atto che i temi del lavoro non sono considerati dalla
politica ufficiale come temi cardinali, ma solo accessori. Quella
strategia si è rivelata quindi utile sul piano difensivo ma inefficace
su quello propositivo, come ha rivelato la successiva e perdente
iniziativa del referendum svolto nella primavera del 2003 sullo stesso
art. 18 dello Statuto dei lavoratori, mirata alla estensione alle
piccole imprese della tutela reale contro i licenziamenti illegittimi e
risultata sconfitta per mancato raggiungimento del quorum[17].
C’è
bisogno di una nuova elaborazione in ordine al significato e al valore
dei diritti/doveri del lavoro subordinato nelle società contemporanee.
Poiché di questo in effetti si tratta: del modo in cui la cultura e il
pensiero giuridico-politico affrontano nel mondo di oggi la gigantesca
espansione su scala globale del classico lavoro subordinato, con buona
pace delle dissertazioni sull’esaurimento del criterio della
subordinazione come discrimine giuridico tra le diverse forme di lavoro
a favore di un lavoro c.d. “senza aggettivi”, ritagliato su una
analisi riferita a un piccolo e privilegiato specchio di mondo, quello
dei paesi occidentali. Non basta proclamare l’esistenza dei diritti
umani, dei diritti fondamentali, dei diritti di cittadinanza e
non-discriminazione dichiarati già ai tempi della grandi rivoluzioni
del ‘700[18].
Questo non basta in ogni caso al diritto del lavoro, il quale non può
che vivere nella realtà. Non può essere una disciplina in cui si
discetta di diritti tanto sacrosanti quanto astratti perchè sganciati
da ogni verifica di effettività. E’
lungi da chi scrive l’idea che la proclamazione dei diritti
consista in un esercizio retorico, e alla resa dei conti inutile. E’
ben chiaro infatti che anche la semplice acquisizione formale dei
diritti consiste di per sé in un progresso della civiltà giuridica.
Anche se i diritti proclamati sulla carta non sono realizzati è
necessario che restino scritti, per mantenere viva la tensione tra
diritti e realtà. In altri termini, il fatto che non tutti gli italiani
abbiano un buon lavoro e non tutti gli americani siano effettivamente
felici non comporta l’inutilità dell’art.4 della costituzione
italiana o della norma della costituzione americana sul “diritto alla
felicità”. Tra norma e fatti è bene infatti che sia mantenuta viva
una dialettica, purchè si sia consapevoli della tensione
contraddittoria tra i due termini, e
non si confonda qualche buona sentenza delle corti
internazionali, a partire da quelle della corte di giustizia europea,
con la dimensione effettiva delle condizioni concrete di lavoro e di
vita. Quei diritti si tratta infatti di inverarli nelle società di
oggi, il che è tutt’altro paio di maniche. Ciò vale in particolare
per il diritto del lavoro, il quale vive come disciplina proprio in
ragione della necessaria e particolare interazione tra diritti
individuali, poteri collettivi e norme imperative di legge. Infatti il
diritto del lavoro più di altri rami del diritto è condannato alla
concretezza. Essendo esposto sulla frontiera più avanzata dei rapporti
tra economia, società e diritto, ad esso non tocca mai una condizione
di stabilità e di equilibrio. In questo consiste la fragilità della
materia, ma anche il suo fascino[19].
2.
Dopo la flessibilità cosa?
Gli orientamenti di fondo. E’ quindi aperto un grande interrogativo, anzitutto sul piano concettuale e teorico. Appunto, dopo la flessibilità cosa? La flessibilità ha ispirato con diversi accenti la legislazione lavoristica da trent’anni a questa parte. Si provi a fare un passo indietro. Immaginiamo di tornare agli anni ’70. Era appena entrato in vigore lo statuto dei lavoratori, che nel suo intreccio tra garanzia dei diritti individuali e promozione dei diritti sindacali aveva cambiato radicalmente la struttura dei rapporti di lavoro e le relazioni sociali. Qualche anno dopo (nel 1975) fu sottoscritto un accordo sindacale dal significato epocale, l’accordo c. d. Lama - Agnelli sul “punto unico di contingenza”. A quel tempo la struttura retributiva del lavoro dipendente era fatta così: ogni tre mesi l’Istat rilevava l’indice di incremento dei prezzi, e di seguito venivano automaticamente adeguate le retribuzioni di tutti i lavoratori dipendenti; gli scatti di contingenza si applicavano poi sugli istituti della retribuzione differita, quindi rivalutavano gli scatti di anzianità già maturati e l’indennità di anzianità che allora si conteggiava moltiplicando l’ultima retribuzione per ogni anno di lavoro; in alcuni settori esistevano persino scale c.d. anomale, che comportavano aumenti in percentuale della retribuzione determinando così, con i vari ricalcoli, incrementi reali di salari e stipendi. Quel mondo era sottoposto a forti contestazioni, ma visto oggi, a trent’anni di distanza, sembra il paese di Bengodi. Come si può descrivere altrimenti un assetto retributivo del lavoro dipendente che essendo fondato sulla indicizzazione di salari e stipendi impediva di scaricare sul lavoro produttivo i costi della inflazione? Questo era infatti esattamente il senso di quell’accordo, sottoscritto non da dilettanti ma dai più autorevoli rappresentanti del mondo del lavoro e dell’industria del tempo: un “patto tra produttori”, diretto a mettere al riparo dall’inflazione la retribuzione del lavoro appunto produttivo. Quel sistema non poteva reggere: infatti a fronte di tassi di inflazione arrivati rapidamente a percentuali sudamericane si avviò una lunga fase di interventi legislativi mirati a ridurre le rigidità retributive: così prima furono sterilizzati gli effetti della contingenza sugli altri elementi retributivi, in particolare scorporando la scala mobile dal calcolo della indennità di anzianità, poi furono progressivamente eliminati, per via legislativa e contrattuale, i vari automatismi composti[20], infine si aggredì il nucleo di quel sistema ridimensionando e infine abolendo la stessa scala mobile: il tragitto di tali interventi va dal 1977 al 1992. Si trattò di una lunga “legislazione dell’emergenza”, dato che il provvedimento conclusivo sul superamento della scala mobile, definitivamente sancito dal protocollo del 23 luglio 1993, fu adottato a ridosso di una fase drammatica, caratterizzata dal crollo della prima Repubblica e dalla presentazione dei suoi disastrosi conti finanziari: dal 1980 al 1992 il debito pubblico era cresciuto infatti di ben otto volte. Guardata a ritroso quella fase può quindi essere descritta in termini di un massiccio ricorso a interventi di flessibilità sul punto cruciale del rapporto di lavoro: l’assetto retributivo. Cosicché oggi non c’è più la scala mobile, ma un sistema di adeguamento ex post delle retribuzioni al costo della vita, definito come “scala mobile carsica”e fondato sulla c.d. indennità di vacanza contrattuale, a seguito del quale specie dopo l’adozione dell’euro, che ha determinato una svalutazione di fatto della vecchia lira a fronte della nuova moneta particolarmente accentuato in Italia rispetto agli altri paesi europei, si è registrata una erosione di salari, stipendi e pensioni ben superiore alle cifre dichiarate ufficialmente dall’Istat. Con ciò si vuol dire che per ragionare seriamente di flessibilità del lavoro oggi occorre avere ben presenti gli strumenti di flessibilità già adottati in passato. Non si tratta evidentemente di restaurare quei meccanismi, ma di concettualizzare il fatto che non si può svolgere una riflessione sul futuro senza una adeguata metabolizzazione dell’esperienza passata. Si
può fare un altro esempio. Sempre nell’anno sopra richiamato, il 1975,
si stipulò un altro accordo interconfederale sul salario garantito poi
tradotto nella legge n. 164 del 1975 di riforma della Cassa integrazione
guadagni. Anche quello fu un intervento di rilevanza cruciale. Lì si
introdusse infatti una tutela molto rilevante, tramite garanzia salariale,
per i lavoratori dell’industria occupati in aziende in crisi o in
ristrutturazione. Quell’intervento contrattual-legislativo ha segnato un
preciso indirizzo dell’intervento pubblico sul mercato del lavoro: la
priorità era individuata anzitutto nella salvaguardia dei lavoratori già
occupati a rischio di perdita del posto di lavoro. Da lì seguii poi una
lunga serie di misure successive, tra cui spiccano le discipline sulla
mobilità interaziendale introdotte dalla legge n. 675 del 1977, che chi
scrive definì in termini di “licenziamenti impossibili” fino alla
regolamentazione introdotta dalla legge n. 223 del 1991. La scelta nella
sostanza era chiara: si trattava di una tutela forte (si può dire
corporativa?) a favore di lavoratori già entrati nel mercato del lavoro,
mentre nessuno strumento di promozione dell’impiego veniva assicurato a
chi nel mercato doveva ancora entrare. A quel tempo infatti l’indennità
di disoccupazione ammontava a una cifra esigua, per l’esattezza si
trattava di 800 lire al giorno nel 1988[21].
Essa peraltro, pure essendo stata incrementata fino al 60% della
retribuzione media precedente, è disposta tutt’oggi appunto a favore
dei di-soccupati, cioè di chi ha perso un posto di lavoro e può quindi
vantare una anzianità di lavoro, non di chi il lavoro non l’ha mai
avuto, gli in-occupati. Per questi è stata introdotta una sola misura: il
c.d. reddito di inserimento, delegato ai comuni, una misura che dal
diritto al lavoro sconfina nella pura assistenza sociale essendo correlata
alla individuazione di una “fascia di povertà”, il cui parametro fu
individuato nel 1998 nella cifra di 500.000 lire mensili[22].
Perciò, in parallelo, cominciarono a introdursi legislazioni orientate a
flessibilizzare i meccanismi di accesso al mercato del lavoro: interventi
di promozione della occupazione giovanile, contratti di formazione-lavoro,
part - time[23],
liberalizzazione dei contratti a termine, consentendo alla contrattazione
collettiva di derogare all’elenco tassativo stabilito per legge, fino
alla deroga parziale al divieto di interposizione nei rapporti di lavoro
introdotto con il lavoro temporaneo o interinale dalla legge n. 196 del
1997[24],
sono i passaggi di una lunga legislazione sulla flessibilità del lavoro.
In questo senso il “libro bianco” del governo del 2001 e i successivi
provvedimenti legislativi non inventano nulla di nuovo: estremizzano una
tendenza, trasformandola in un archetipo, e facendo della
flessibilizzazione la chiave di volta di una ampia ri-disciplina del
diritto del lavoro[25].
Gli interventi in oggetto fotografano la situazione data, quindi la
istituzionalizzano, infine legittimandola perciò stesso la incentivano.
Per questo è necessario disporre di una visione più ampia, capace di
guardare oltre il presente e il futuro prossimo, per immaginare una
diversa dimensione delle politiche del lavoro che vada al di là di una
semplice azione di contrasto alle politiche in atto. A
quanto detto fin qui va aggiunto un ulteriore richiamo. Tra le molte cose
che sono cambiate una, essenziale, riguarda l’identità e la funzione
dello Stato. Lo Stato-nazione ancora in qualche misura isolato in sé
stesso e che poteva guardare con sufficienza alle direttive comunitarie
non esiste più[26].
In particolare non esiste più un diritto del lavoro nazionale esclusivo[27].
Basti dire che molti dei provvedimenti legislativi adottati in materia
lavoristica in Italia da vari anni a questa parte sono stati disposti con
decretazione legislativa in attuazione di direttive comunitarie (così in
materia di trasferimenti di azienda, contratti a termine, lavoro a part
time, orario di lavoro). Il futuro scenario della Unione Europea, tra
allargamento e nuova Costituzione, indurrà altri e rilevanti cambiamenti,
il cui esito concreto non è al momento decifrabile. Ciononostante
oggi molti segnali indicano che il pendolo del ciclo sociale accenna a
muoversi ancora una volta in un’altra direzione. Tende a riaffermarsi il
valore della stabilità dei rapporti di lavoro. Sembra una impresa
impossibile. Come appariva impossibile l’iniziativa di quegli operai a
cui l’iconografia attribuisce il primo atto diretto alla costituzione di
un sindacato nell’epoca proto-capitalistica, i quali affissero di notte
sulla porta di casa del loro padrone un minaccioso manifesto che recitava
più o meno così: “mr. Johns se non dai una ghinea in più ai tuoi
operai finirai all’inferno, come è vero che esiste Dio”[28].
La citazione, un po’ cruda, serve a dire che la storia non è finita, e
che essa in qualche misura sta nelle nostre mani. Per
affrontare seriamente la questione occorre andare con ordine e provare a
ragionare anzitutto in termini generali. Se
si guarda al tema del lavoro e dell’impresa nello scenario della
competizione globale è sempre più evidente l’alternatività tra due
diverse direzioni. La prima assume il mercato come regola dirimente. La
seconda individua il punto di partenza nei diritti e nella dignità delle
persone che lavorano. Nel primo caso competitività e flessibilità
diventano valori in sé, il mercato è la variabile indipendente, e il
resto, come l’intendenza, segue. Nel secondo caso i diritti delle
persone che lavorano vengono prima, e il mercato è assunto come un
vincolo di cui tenere conto. E’ bene chiarire subito che questa seconda
prospettiva non si muove in una dimensione utopica, ma realistica. Un
compromesso e una mediazione alla fine comunque vanno stipulati, in
relazione alle condizioni materiali. La differenza sta nel fatto che nel
primo ordine di pensiero il negoziato si svolge inevitabilmente al
ribasso, cedevolmente; nell’altro ordine di ragionamento l’esito del
negoziato non è scontato, perché il conflitto può svolgersi in maniera
aperta e quindi utile. Se si volesse dirlo con più enfasi si potrebbe
affermare che secondo la prima via l’esito è comunque determinato,
perché le ragioni della economia inevitabilmente prevarranno, mentre per
l’altra via la partita resta in qualche misura da giocare poiché la
politica mantiene una sua autonomia, di modo che l’evoluzione storica
non risulta determinata a senso unico. E’
utile chiarire che l’alternatività qui descritta non è una invenzione
dell’oggi. Essa percorre la vicenda politica e sociale degli ultimi
secoli, a partire da quello spartiacque costituito nella storia
dell’occidente dalle grandi rivoluzioni del ‘700. Naturalmente
cambiano le forme e le circostanze, ma in termini concettuali il problema
in fondo è sempre lo stesso. La
principale variante della nostra epoca è costituita appunto dalla
globalizzazione[29].
La competizione diretta sui mercati globali fa apparire irrilevanti i
contrasti che si possono frapporre in singoli sistemi locali o addirittura
nazionali. La stessa dimensione europea appare inadeguata, e da qui
trovano origine le tensioni che percorrono la revisione del modello
sociale europeo. Ma, a ben vedere, anche in questo caso gioca più la
crescita di scala della dimensione che la natura sostanziale del problema.
Le possibilità di successo di una azione per la conquista dei diritti
sociali sembrano maggiori nell’ambito di mercati chiusi, come poteva
accadere agli inizi del ‘900 per le lotte bracciantili. Se i braccianti
si rifiutavano di accudire le stalle gli agrari non erano certo in
condizione di disporre tempestivamente misure alternative, se non quella
di cercare “crumiri” da sostituire agli scioperanti. Essi avevano
tuttavia altri strumenti di pressione, alquanto efficaci: la forza
dell’apparato repressivo statuale in primo luogo e poi soprattutto la
fame delle famiglie contadine. Ma
c’è un altro esempio, che spesso propongo ai miei studenti, che meglio
indica come nonostante il mutare delle forme la sostanza concettuale del
problema resti in fondo la medesima. Nell’Inghilterra della prima
rivoluzione industriale, nel 1833, fu approvata una delle prime leggi sul
lavoro di cui si abbia memoria, il Factory
Act. Questa legge disponeva la seguente limitazione dell’orario
massimo di lavoro dei minori: “48 ore settimanali e 9 giornaliere, per i
fanciulli fra i 9-13 anni; 69 ore settimanali e 12 giornaliere, per gli
adolescenti tra i 13-18 anni”. E’ bene chiedersi perché nel lontano
1833 inglese si fece una legge siffatta. La prima risposta che viene
spontaneo dare è che in quel periodo evidentemente accadeva che
normalmente i bambini di 9 anni lavorassero più di 9 ore al giorno e più
di 48 ore settimanali. La seconda domanda allora è: ma come potevano
essere talmente crudeli gli imprenditori di quel tempo da costringere i
bambini a ritmi così massacranti di lavoro? La risposta è che non si
trattava di crudeltà, ma di un problema di competitività e di costi.
Infatti i bambini, oltre a percepire un salario minore, consentivano un
notevole risparmio dei costi di produzione, specialmente nelle miniere,
dove solo col lavoro dei piccoli si potevano usare per scavare il carbone
cunicoli di dimensioni più ridotte. L’imprenditore che non avesse usato
quelle misure sarebbe semplicemente fallito, perché soggetto alla
concorrenza degli altri imprenditori: si trattava quindi, già allora, di
una forma embrionale di globalizzazione. Non si prenda l’esempio come un
richiamo retrò, ma per la sua
valenza concettuale: se non si fissa un limite cogente e imperativo al
mercato, il mercato e la competizione economica per loro natura travolgono
ogni confine. Si pensi al lavoro degli schiavi, su cui si sono rette le
magnificenze della civiltà greco-romana. Si dice che nella biblioteca di
Alessandria, prima del suo incendio, fossero già contenute le intuizioni
tecniche che quasi duemila anni dopo avrebbero portato alla rivoluzione
industriale, a partire dalla scoperta della macchina a vapore. Poiché
esisteva il lavoro degli schiavi quelle invenzioni non avevano però
utilità pratica[30].
Perciò alla fine bruciò la biblioteca di Alessandria. Tutto ciò non è
poi tanto distante dall’oggi: che altro è il “contratto di
soggiorno” previsto dalle leggi vigenti sulla immigrazione
extracomunitaria se non una moderna forma di “contratto servile” in
base al quale il datore di lavoro oltre al controllo sulla prestazione di
lavoro assume quello di determinare il destino complessivo del dipendente,
a partire dalla possibilità di abitare un certo territorio?[31] Per
ragionare sugli orientamenti di fondo in termini realistici occorre
anzitutto una convincente tematizzazione. Inutile
dire qui delle trasformazioni del lavoro in senso sociologico. Si tratta
di cose note e su cui è disponibile un’ampia pubblicistica.
Sinteticamente i fenomeni prevalenti nei paesi c. d. occidentali sono
costituiti dal (parziale) superamento del modello fordista di
organizzazione del lavoro, dal suddividersi dell’impresa-madre in una
molteplicità di attività esternalizzate, dal diffondersi di forme
strutturalmente flessibili di impresa e di lavoro, dal crescere del lavoro
atipico, nel modo sia di rapporti di lavoro tecnicamente subordinati ma di
tipo precario (lavoro a termine, interinale, a part time, occasionale
ecc.) sia di rapporti di lavoro di tipo semiautonomo o semisubordinato,
oggi prevalentemente aggregati nella figura delle collaborazioni
coordinate e continuative[32].
Sul
piano della valutazione sociologica ci si può limitare a una osservazione
sintetica: il vero fenomeno caratteristico dell’epoca presente non è
costituito dal declino della natura subordinata dei rapporti di lavoro, di
cui molto si parla, quanto piuttosto dalla frammentazione, fino alla
atomizzazione individualistica, dei mercati del lavoro nei paesi
industriali maturi e nella moltiplicazione a scala geometrica delle forme
subordinate di rapporto di lavoro alla dimensione globale. Gli
orientamenti di fondo vanno quindi tradotti in una rigorosa selezione
tematica, tenendo conto dell’assetto nazionale e degli scenari globali,
come si proverà a fare qui di seguito. 3.
Ridurre la flessibilità.
Come. Per
ridurre gli eccessi delle politiche di flessibilizzazione del lavoro fin
qui adottate occorre in primo luogo svolgere una operazione culturale,
cominciando col dire agli imprenditori che con la precarietà e la
riduzione del costo del lavoro non si raggiunge alcun risultato. Un
importante dirigente della Confindustria, in un convegno tenuto a Venezia
nell’ottobre 2004, ha citato i seguenti dati: Italia, costo del lavoro
per ora 20 euro, Polonia 4 euro; prelievo fiscale sulle imprese: Italia
42%, Polonia 19%. E’ evidente che in questi termini non c’è gara
possibile. Non resta che scommettere sul fatto che l’allargamento della
Unione Europea determini reciprocità, favorendo l’innalzamento degli
standard sociali nei paesi dell’Est. Non può essere infatti che la
nuova Unione europea allargata si costituisca sul minimo comune
denominatore più basso determinando una regressione così vistosa degli
standard sociali. Si
tratta quindi di cambiare in primo luogo pedagogia[33].
A questo fine sarebbe utile approvare una legge, ad articolo unico, che
grosso modo recitasse così, sulla falsariga del vecchio e infelicemente
abrogato nel lontano 1962 art. 2097 c.c.: “il contratto di lavoro si
reputa a tempo indeterminato, salvo che…”. Di seguito occorrerebbe
procedere alla eliminazione degli strumenti più evidenti di una
flessibilità ai limiti dell’arbitrio e peraltro scarsamente
utilizzabili sul piano pratico. A questo fine è ragionevole usare il
filtro della diffusa contrattazione collettiva già svolta, a partire da
un rilevante insieme di contratti nazionali di categoria. Il lavoro a
chiamata, detto altrimenti intermittente, il part time elasticizzato, il
contratto a termine deregolato, la somministrazione di manodopera a tempo
indeterminato, un contratto di lavoro a progetto mal costruito, la
liberalizzazione indiscriminata e quindi disfunzionale del collocamento,
le normative di sostegno ai processi più estremi di esternalizzazione
produttiva (dal trasferimento di ramo di azienda all’appalto) vanno
strutturalmente rivisitati. Poi occorre un intervento in positivo: il
rafforzamento dei centri pubblici per l’impiego, gli incentivi alla
emersione del lavoro sommerso e alla stabilizzazione dei rapporti di
lavoro, la promozione di veri contratti formativi di accesso al lavoro, la
riforma del processo del lavoro con particolare riferimento alle
controversie in materia di licenziamenti sono alcuni dei titoli più
importanti di un nuovo intervento. Ma occorre soprattutto un nuovo disegno
strategico. Il
primo tema è quello della ridefinizione del campo di applicazione del
diritto del lavoro. In questo consiste la concretezza dell’annoso
dibattito sulla subordinazione che a differenza di quanto talora si
afferma merita di essere continuato fino a cercare, se possibile, un punto
di conclusione. Leggendo e rileggendo le varie formulazioni e proposte
elaborate da almeno un ventennio a questa parte[34],
chi scrive si è fatto la seguente opinione. Non occorre discettare di
nuovi e improbabili “statuti dei lavori”. Potrei dire, con Mario
Napoli, che la formula a me “non piace”. Il fatto è che
l’espressione “statuto dei lavori” è in sé fuorviante perché
allude a una diversificazione del mercato del lavoro simmetrica, e al
tempo stesso rovesciata, rispetto alle antiche corporazioni “delle arti
e dei mestieri”, nel senso che queste ultime muovevano da una disciplina
rigida della offerta di lavoro, regolando fino ai dettagli più minuti
l’accesso alla professione, mentre le attuali politiche di flessibilità
registrano, al contrario, le esigenze della domanda di lavoro e le
ritrascrivono sui lavoratori. Anche D’Antona nell’aderire sia pure
criticamente a tale impostazione avvertiva infatti che “ci sono dei
rischi” nella “grande sfida” di “ripassare dal lavoratore ai
lavori”[35].
E’ opinione di chi scrive che ora sugli improbabili vantaggi prevalgano
i rischi. E’ quindi più corretta la formula “statuto dei
lavoratori”. Questa espressione indica infatti che lo statuto del lavoro
parte intanto da una dimensione soggettiva, e non di mercato[36].
Si tratta poi di vedere naturalmente come la dimensione soggettiva delle
persone coinvolte nel processo lavorativo si deve coordinare con le
esigenze del mercato. L’essenziale è che si parta da un punto fermo: si
discute dello “statuto del lavoro”, dei problemi di chi lavora per
altri, vale a dire del lavoro subordinato/dipendente. Questo
è un punto cruciale. In proposito non sono convincenti le varie “carte
dei diritti dei lavoratori” prodotte negli ambienti della opposizione
nel corso della presente legislatura[37].
Quei testi paiono tutti, in diverso modo, una sorta di libro dei sogni. Si
tratta invece di ridefinire, più semplicemente, l’area del lavoro
subordinato, sottraendo il concetto di subordinazione alla matrice
fordista sancita dal vigente art. 2094 c. c., anche in ragione delle sue
prevalenti interpretazioni, e di ridefinire il catalogo dei lavori
subordinati c.d. atipici. A questo fine, come detto altrove, sarebbe utile
una innovazione tanto semplice nella forma quanto efficace negli esiti:
occorrerebbe eliminare dalla definizione del prestatore di lavoro
subordinato di cui all’art.2094 c.c. l’inciso “sotto la
direzione”. La norma risulterebbe riformulata così: “è prestatore di
lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare
nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle
dipendenze dell’imprenditore”. Tale riformulazione dell’art.2094
c.c. consentirebbe di realizzare un primo risultato: liberare i
commentatori dalla inutile fatica di raccontare in infinite varianti
quanto quella norma fosse disegnata su un archetipo di lavoro
subordinato/industriale/fordista che non c’è più. Tesi evidentemente
infondata, per la buona ragione che chi ha scritto quella norma con ogni
probabilità non aveva letto i manuali di Taylor sulla divisione
scientifica del lavoro né aveva visto il film di Chaplin sui “tempi
moderni”. Essi avevano però capito una cosa: che il diritto del lavoro
si fonda su un disequilibrio contrattuale che riguarda i modi della
prestazione di lavoro nella società industriale. Quella intuizione è del
tutto valida anche nella fase del c.d. post-industrialismo. Quanto
all’area intermedia, sempre esistita, oggi identificata per lo più
nelle collaborazioni coordinate e continuative, va svolta una operazione
in realtà alquanto elementare: da quella categoria, cresciuta a dismisura
essenzialmente in virtù di provvedimenti fiscali e previdenziali, a
partire dalla istituzione di una gestione speciale presso l’Inps,
occorre scorporare i rapporti di lavoro in effetti subordinati e
classificati come autonomi solo in ragione di intenti fraudolenti (gli
addetti ai call center, a imprese di pulizia, le commesse dei grandi
magazzini, tanto per fare qualche esempio)[38]
e introdurre tutele di welfare per quei rapporti di lavoro autonomo
caratterizzati da particolare debolezza contrattuale[39].
Non serve, anzi è del tutto fuorviante, introdurre nuove fattispecie
contrattuali, come il lavoro a progetto, o immaginare generici e illusori
statuti del c.d. lavoro “senza aggettivi” i quali inseguono,
inconsapevolmente, la vecchia ideologia del “diritto comune del
lavoro”. Il diritto del lavoro esiste come disciplina autonoma in quanto
esiste il lavoro subordinato. Quella che corre tra lavoro autonomo e
subordinato ”è una differenza reale, necessaria…non è possibile
infatti che chi lavora per altri non lavori in modo autonomo o
subordinato”, diceva Barassi[40].
“La distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo è in rerum
natura e concettualmente radicale; non può essere messa tra parentesi
nemmeno per un tratto iniziale della riflessione sul «lavoro che cambia»”,
ha scritto Luigi Mengoni in una delle sue ultime, lucidissime pagine[41].
Queste affermazioni apparentemente schematiche sintetizzano una
comprensione profonda delle dinamiche del lavoro nelle società
capitalistiche, che non può essere ridotta a ciò che è stata definita
la “ossessione della unitarietà”[42]
e meritano invece di essere ri-attualizzate, a dispetto dei nuovismi poco
sorvegliati. Infatti è attraverso la valorizzazione del lavoro
subordinato / dipendente che si sono definite le democrazie sociali di
tipo europeo. Senza una identificabilità del lavoro
subordinato/dipendente si smarrisce il senso stesso della fondazione
sociale delle costituzioni. Ogni forma di lavoro diverrebbe uguale, in un
mondo in cui, come diceva il filosofo, tutte le vacche sono grigie. Si
determinerebbe una regressione, forse inconsapevole, al corporativismo
secondo la formula dell’art. 2060 del codice civile: “il lavoro è
tutelato in tutte le sue forme organizzative ed esecutive, intellettuali,
tecniche e manuali”, diceva quella norma, non a caso seguita dalle
disposizioni sulle ordinanze corporative, ed inserita nel libro V del
codice del lavoro in cui appunto sono regolate tutte le forme di lavoro,
da quello dell’imprenditore, definito come “il capo dell’impresa”
da cui “dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori” (art. 2086 c.
c.) al lavoro subordinato di cui all’art. 2094 c. c., fino al lavoro
autonomo e alla disciplina delle società di persone e di capitali. Questo
era appunto il corporativismo: il lavoro “senza aggettivi” condito in
salsa autoritaria. Del tutto improprio appare quindi citare a sostegno di una definizione del campo di applicazione del diritto del lavoro a prescindere dalla subordinazione l’art. 35 della costituzione: quella norma non ha infatti alcun significato precettivo, ma solo descrittivo, come tutti i migliori commenti della Costituzione hanno evidenziato[43]. L’art. 35 cost. è il riflesso sul tit. III relativo ai “rapporti economici” della dichiarazione retorico-programmatica per eccellenza, quella dell’art. 1. Ci mancherebbe che una Repubblica “fondata sul lavoro” non tutelasse il lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni”. Ma che significa questo in concreto? Quale tutela si può disporre per l’avvocato che non ha clienti, per il bottegaio scacciato dal mercato dal grande centro commerciale, per l’artigiano travolto dalla crisi della impresa committente, per il consulente legale sopraffatto dal mega-studio professionale organizzato in termini neo-tayloristi? Al più si possono ipotizzare interventi di Welfare, ma non tutele nel rapporto di lavoro, perché nel lavoro autonomo, per quanto debole, non c’è una relazione intersoggettiva esclusiva o quanto meno prevalente su cui intervenire. Se invece accade che il lavoro c.d. autonomo consista in realtà nella quasi esclusiva dipendenza da un committente, è evidente che si è di fronte a un lavoro pseudo-autonomo,, vale a dire a un lavoro dipendente nei termini sopra descritti. In ogni caso tertium non datur .Qui sta il confine del diritto del lavoro: su questo punto il diritto del lavoro si deve fermare, se non vuole diventare una materia pigliatutto a cui tocchi il destino della rana di Esopo. Non a caso gli interventi relativi all’area dei c. d. lavori parasubordinati[44] sono fin qui consistiti nell’accesso al rito speciale del lavoro (cfr. art. 409 c. p. c.) e in provvedimenti di Welfare (del genere della estensione dei trattamenti di maternità alle lavoratrici autonome e parasubordinate[45]), oltre che nelle modeste misure di tutela disposte dal d. lgs. n. 276 del 2003 per il c. d. lavoro a progetto. Così come, per altro verso, si sono introdotte misure di tutela del contraente più debole nei contratti di sub-fornitura di cui alla legge n. 192 del 1998 e interventi estensivi della cassa integrazione straordinaria alle imprese artigiane nelle ipotesi di c.d. influsso gestionale prevalente[46]: ma queste sono appunto disposizioni di diritto commerciale, certo rilevanti per il diritto del lavoro, ma non norme giuslavoristiche. Sul
punto la costituzione vigente dice due cose chiare: la prima è che, nel
concreto, il carattere sociale della Repubblica consiste anzitutto nel
“rimuovere gli ostacoli di ordine economico che, limitando di fatto la
libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo
della persona umana, e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all’organizzazione politica, economica e sociale del paese” (art. 3,
comma 2°, cost.), direttiva come è noto tutt’altro che genericamente
programmatico - retorica, ed anzi all’origine di molti e concreti
interventi della Corte costituzionale, e che tutta la migliore dottrina
riferisce al lavoro subordinato - dipendente[47].
La seconda sta nella serie di precetti costituzionali univocamente
destinati al lavoro subordinato-dipendente: dalle disposizioni relative
alla retribuzione proporzionata e sufficiente, alla durata massima della
giornata lavorativa, al riposo settimanale e alle ferie retribuite (art.
36), al divieto di discriminazioni retributive per le donne e i minori
(art. 37), alla libertà sindacale e al diritto di sciopero (artt. 39 -
40). Non
si può quindi condividere la tesi di Ichino quando propone una relazione
meccanicista tra tutele degli insiders
e possibilità di accesso al mercato del lavoro degli outsiders[48]
o quando suggerisce un rapporto in sostanza ancillare del diritto del
lavoro verso l’economia[49],
anche perché, come è noto, tra le stesse scienze economiche non esiste
un pensiero unico, ma si confrontano varie tesi e linee di pensiero[50].
Non è mai accaduto infatti che la riduzione delle tutele nei settori
forti favorisse le condizioni dei lavoratori deboli. Ciò è dimostrato
nella evoluzione del diritto del lavoro italiano per così dire in atti:
basti ricordare che la generazione delle leggi a tutela della fasce
marginali del mercato del lavoro adottate a cavallo degli anni 1958-62
(lavoro a domicilio, appalti di manodopera, lavoro a termine) e la stessa
legge Vigorelli del 1959 furono emanate a seguito dei risultati di una
inchiesta parlamentare sulle condizioni dei lavoratori che aveva
dimostrato l’esistenza di vaste fasce di lavoro sommerso, sottosalariato
e sottotutelato all’epoca in cui si era ancora ben distanti dal primo
intervento legislativo sui licenziamenti e quindi il lavoro era largamente
flessibile nelle stesse aree forti del mercato. C’è solo un piano in
cui gli argomenti sui dualismi inaccettabili del diritto del lavoro sono
fondati, quello del rapporto tra impiego privato e pubblico impiego in cui
al di là dei molteplici e persino ridondanti interventi legislativi[51]
risulta evidente una verità: il crescere delle distanze sostanziali, a
partire dal regime di stabilità, come Sabino Cassese continua
solitariamente a denunciare evocando la “doppia forbice” tra improprie
forme di spoil system esercitate dal potere politico per le fasce
professionali medio-alte ai diversi livelli istituzionali (dai ministeri a
regioni, province e comuni) e sindacalizzazione dei livelli medio-bassi[52],
distanza peraltro accresciuta dalla esplicita sottrazione alla pubblica
amministrazione dei dispositivi della legge n. 30 e del d. lgs. n. 276 del
2003[53].
Così come non è condivisibile la tesi sostenuta da Marco Biagi quando
dichiarava che una generalizzata liberalizzazione del mercato del lavoro
avrebbe favorito la buona occupazione[54],
tesi che, con critica succinta, sono state ritenute tali da “mettere
radicalmente in discussione, in diversi punti oltre misura, i pilastri del
corrente diritto del lavoro”[55].
L’elaborazione più equilibrata da assumere a riferimento, sia pure
segnata da qualche oscillazione opinabile, resta quella di Massimo
D’Antona quando affermava che “una nozione indisponibile e al tempo
stesso aperta della subordinazione va difesa con tutte le risorse teoriche
in questa particolare fase storica”. Un autentico paradigma riformista nel diritto del lavoro è invece in fondo abbastanza semplice: esso consiste intanto e anzitutto in una radicale semplificazione delle normative. Va rilanciato quindi il risalente tema della elaborazione di un Testo unico anzi di un vero e proprio Codice del lavoro, anche al fine di rendere comprensibili normative ormai illeggibili e persino inspiegabili, come sa chiunque prova davvero a insegnare il diritto del lavoro agli studenti[56]. L’asse centrale di quel nuovo testo va fissato attorno a un punto cardinale: la ridefinizione delle tutele dei lavoratori occupati e delle persone in cerca di occupazione. Si tratta in altri termini di rideterminare il rapporto tra tutele dei lavoratori già occupati e promozione dell’impiego attraverso politiche di Welfare attivo. Facile a dirsi, difficile a farsi, considerando la carenza di risorse pubbliche disponibili, come ha dimostrato l’incapacità anche nella presente legislatura di mettere mano a una organica riforma degli ammortizzatori sociali da tempo annunciata[57]. Ragionando
sul futuro si pone poi in prima evidenza il tema della regolazione della
rappresentanza sindacale. Per
evitare il rischio di avvolgersi nei tornanti ripetitivi che da decenni su
questo argomento ciclicamente si alternano e poi si risolvono in nulla,
occorre seguire un percorso logico. Il primo passaggio consiste in una
storicizzazione del tema, a partire dall’interrogarsi sulla sua attualità.
Prima di rispondere a questa domanda occorre formularne un’altra, più
di fondo, sulla modernità ovvero sulla utilità della stessa
rappresentanza sindacale. La risposta non è scontata. Certo è che le
rappresentanze di interessi non declinano, ma si moltiplicano. Di recente
pare si siano costituite ben tre associazioni delle agenzie private di
lavoro; fioriscono le improbabili associazioni dei consumatori; ogni
micro-categoria dà vita a una propria rappresentanza. Una ricerca
effettuata sulla base delle delibere della commissione di garanzia per gli
scioperi nei servizi pubblici ha stimato in 335 le sigle sindacali lì
nominate[58].
Tempo fa chi scrive fu colpito dalla targa apposta in un ufficio a Roma:
associazione degli ex-dipendenti degli ex-enti pubblici disciolti. La
fantasia associativa in Italia, che resta pur sempre il paese delle
fazioni, non ha limiti. Infatti il ministro del lavoro in carica si vanta
spesso che il c.d. “patto per l’Italia” sia stato sottoscritto da
ben 39 associazioni, tranne una, la CGIL. Poco prima, del resto, nella
stipulazione del c.d. “patto di Natale” furono coinvolte circa 40
associazioni. Il quesito vero non consiste dunque nel dilemma tra modernità
o obsolescenza dei sindacati ma tra utilità democratica o declinazione
corporativa dei sindacati. L’oggetto del discorso riguarda quindi non i
sindacati in generale, ma una forma specifica di sindacato: il sindacato
confederale. Solo guardando a questa forma di sindacato che, essendo
appunto confederale, deve al suo interno cercare di produrre la sintesi
tra i diversi interessi categoriali e professionali e la dimensione
complessiva ha senso un discorso sulle regole sindacali e più in generale
un ragionamento sulla attualità della forma-sindacato. Si tratta di
immaginare qualcosa che abbia a che fare con l’antica formula del
rapporto privilegiato tra big
labour, big business e big governement. In
questa chiave è utile proporre ancora un ragionamento sulle regole
sindacali: nella prospettiva appunto di un accordo tra il big
labour, cioè tra i sindacati confederali, e nella sua proiezione
nell’ intesa con il big business,
cioè con le principali associazioni di impresa, e con il big
governement, espresso dal potere politico al suo massimo livello di
responsabilità, cioè dal governo. Chi scrive appartiene a una
generazione di giuslavoristi che ha cominciato a occuparsi di diritto del
lavoro nella fase della attuazione dello Statuto dei lavoratori e quindi
è cresciuta pensando che la seconda parte dell’articolo 39 della
Costituzione fosse un oggetto di archeologia giuridica, secondo la celebre
lezione di Federico Mancini[59].
Abbiamo scoperto poi che non era così, a ridosso di quell’avvenimento
che segnò la conclusione anche formale di un ciclo della vicenda unitaria
dei sindacati confederali, il famoso disaccordo di San Valentino del 1984.
È da lì che è ricominciato un diffuso dibattito sulle regole sindacali[60].
Il
bilancio di quella discussione è noto: si sono introdotti sistemi di
regole laddove si è determinata la coincidenza tra l’interesse pubblico
alla gestione efficiente dei servizi e l’ interesse delle stesse
maggiori organizzazioni sindacali a essere messe al riparo rispetto a
meccanismi di frantumazione della rappresentanza, con le ovvie conseguenze
in termini di conflittualità. Il riferimento va naturalmente alla legge
sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali e quindi alle regole sulla
rappresentanza introdotte nel pubblico impiego[61].
Nel settore privato invece la questione è irrisolta, e ciò continua a
determinare rilevanti problemi[62].
Basti fare riferimento al rinnovo non unitario, verificatosi nel 2003,
della stessa parte normativa del contratto nazionale degli addetti
all’industria metalmeccanica, che pur non essendo più il contratto -
pilota dei tempi andati riguarda comunque un milione e mezzo di lavoratori
e svariate migliaia di imprese[63].
Qui si pone una questione rilevante più che in ordine ai trattamenti
economici rispetto alla gestione complessiva del contratto, perché le
parti di quel testo contrattuale che contengono clausole di carattere
obbligatorio rinviano tutte, non a caso, a ulteriori iniziative e
confronti: così accade in tema di inquadramento professionale, di
revisione dei regimi di orario, di funzioni degli enti bilaterali. Ne
consegue che in tal modo il contratto collettivo nazionale di lavoro è
entrato nella sua stessa figura in una crisi di funzionalità. Si
lasci da parte al momento il fatto che anche il contratto nazionale di
lavoro merita di essere rivisitato. Il fenomeno si può riprodurre a
catena in termini diversi. Si è svolta una pratica, specie ma non solo in
Emilia-Romagna, di accordi separati per così dire alla rovescia. Sono
stati stipulati svariate centinaia di accordi aziendali in cui è scritta
una clausola di ultra-attività del contratto nazionale del 1999[64].
Qui si registra in un certo senso lo specchio della questione precedente.
Ma c’è qualcosa di più. La legge n. 30/2003 e il successivo d. lgs. n.
276/2003 affollano una quantità impressionante di richiami alla
contrattazione collettiva: rinvii meramente integrativi, derogatori, al
contratto collettivo rispetto al quale la fonte suppletiva diventa il
contratto individuale, alla contrattazione nazionale, ai contratti
territoriali ecc.[65]
È un processo che va sorvegliato, poichè è evidente il rischio di una
attuazione disordinata in via contrattuale di quella legge, tale da
incentivare il processo di destrutturazione del sistema delle relazioni di
lavoro. Il problema è dunque attuale. Non consiste in un assillo
formalistico dei giuristi. E’ invece un problema vero, che in Italia si
pone in più rispetto agli altri paesi europei, dove vigono in genere
regole chiare sulla efficacia dei contratti collettivi. Se
il problema è attuale e serio il metodo giusto con cui affrontarlo è
quello di guardare anzitutto all’unità sindacale. Non si tratta di
coltivare una visione mitica dell’unità sindacale né di pensare che
quando i sindacati sono divisi tutto si debba fermare. Ma empiricamente
occorre registrare che in questo paese si sono fatti significativi
progressi sul piano sociale, ovvero si sono contenuti sviluppi pericolosi
emersi in determinate fasi quando c’è stata l’unità sindacale. Basti
ricordare alcuni di questi passaggi: lo Statuto dei lavoratori del 1970;
la politica sindacale nella seconda metà degli anni ‘70, che fu
emergenza economica e finanziaria ma anche politica (erano gli “anni di
piombo”); gli accordi del 1993 mirati all’ingresso nell’Euro. Empiricamente
l’unità sindacale ha quindi un valore se non di principio quanto meno
funzionale, tanto più che la divisione o la competizione tra i sindacati
rischia di avere effetti autodistruttivi in un sistema politico di tipo
bipolare. Oggi siamo arrivati a una unità “di resistenza” su vari
temi, a fronte di un grave indebolimento del ruolo sindacale sulla scena
politica. Per questo l’unità sindacale e la stessa competizione tra le
organizzazioni hanno bisogno di un sistema di regole. Siamo così al
secondo passaggio. L’affermazione
secondo cui c’è bisogno di un sistema di regole contiene già in sé
l’indicazione che ha senso ragionare in questa direzione solo guardando
all’obiettivo prima evocato. Occorre quindi pensare a un meccanismo che
serva a processi di unità sindacale nelle varie forme possibili, a
partire dalla unità d’azione su singoli obiettivi fino a percorsi di
composizione delle differenze e delle contraddizioni tra i sindacati.
Bisogna quindi guardare all’ unità sindacale come a una forma del
pluralismo, e non in una prospettiva organicistica. Da
qui il terzo passaggio: se la questione delle regole sindacali è attuale
e va affrontata con l’atteggiamento metodologico appena descritto, è
evidente che lo strumento prioritario da auspicarsi è quello
dell’accordo intersindacale. Da questa ipotesi si partì infatti, non a
caso, dopo la rottura del 1984 nel discutere di nuove regole sindacali[66].
La scansione successiva è quindi la legge, esattamente come è accaduto
per lo sciopero nei servizi pubblici essenziali e per la contrattazione
collettiva nel pubblico impiego. Naturalmente non si evoca una legge
invasiva, ma lo stesso schema a suo tempo impiegato per l’intervento
legislativo in materia appunto di sciopero nei servizi pubblici
essenziali. In quell’occasione vi fu un lavoro delle tre confederazioni,
si costituì una commissione che istruì la materia, e quel lavoro consentì
poi di approdare a un risultato. Si può pensare insomma a un accordo fra
i sindacati, propedeutico a un intervento di legge, al di là della forma
che esso può assumere: un accordo intersindacale vero e proprio o più
semplicemente l’intesa su alcuni punti di sostanza. Sul
piano degli strumenti occorre quindi concepire un intervento legislativo
leggero, mentre il dettaglio regolamentare può essere svolto dalla
autoregolamentazione sindacale e dalla stessa contrattazione collettiva.
Tale intervento deve affrontare il problema della misurazione della
rappresentatività, non solo per le organizzazioni dei lavoratori ma anche
per quelle dei datori di lavoro. La concertazione in Italia è andata in
crisi per tanti motivi ma c’è anche una spiegazione, per così dire,
antropologica. Non si può fare una seria concertazione con circa quaranta
sigle associative. Sta qui, nella moltiplicazione dei soggetti che
partecipano al tavolo della concertazione, come si è detto sopra, una
radice della crisi funzionale di quel meccanismo che poi è sboccata in
una vera e propria crisi strutturale. Il che riguarda sia i sindacati dei
lavoratori che le associazioni di imprese. Si pone quindi un problema
anche in ordine alla verifica della rappresentatività delle associazioni
imprenditoriali. Basti ricordare che l’accordo interconfederale sui
contratti di reinserimento dell’11 febbraio 2004 è stato sottoscritto
da quattro confederazioni dei sindacati dei lavoratori (CGIL,CISL,UIL,UGL)
e da ben 22 associazioni di rappresentanza delle imprese. Occorre
quindi, anzitutto, una misurazione della rappresentatività. Nel settore
privato non è necessario esercitarsi in particolari invenzioni. Il
criterio è scritto nell’articolo 39 della Costituzione: è il criterio
associativo. E’ arrivato il momento di pensare a una legislazione di
sostegno all’organizzazione sindacale anche nel senso di restituire
valore al fenomeno associativo. Per fortuna ci si iscrive ancora a un
sindacato non solo per sbrigare una pratica pensionistica, o fare la
dichiarazione dei redditi, o beneficiare di altri servizi, ma anche per
motivazioni ideali. Il processo associativo, nella sua forma autentica, va
favorito. Va
poi affrontato il tema dell’efficacia del contratto collettivo. E’
stato certo un errore non avere colto l’occasione offerta dal protocollo
del luglio 1993, dove esso diceva, sul punto relativo alle regole in
materia di rappresentanze sindacali aziendali unitarie: “le parti
auspicano un intervento legislativo finalizzato, tra l’altro, ad una
generalizzazione dell’efficacia soggettiva dei contratti collettivi
aziendali che siano espressione della maggioranza dei lavoratori, nonché
alla eliminazione delle norme legislative in contrasto con tali principi.
Il Governo si impegna ad emanare un apposito provvedimento legislativo
inteso a garantire l’efficacia erga omnes nei settori produttivi dove
essa appaia necessaria al fine di normalizzare le condizioni
concorrenziali delle aziende” (lett. f dell’art.2 del protocollo). Si
era allora a ridosso del referendum sull’articolo 19 dello Statuto dei
lavoratori. In quella occasione chi scrive ebbe a dire che i sindacati non
avrebbero dovuto commettere un peccato di superbia, alla luce di quanto
era accaduto tra gli anni ottanta e novanta. Ricordiamolo: dieci anni
prima si proclamava l’estinzione della stessa forma sindacale. “Fine
dei sindacati” dicevano innumerevoli titoli di autori prestigiosi. E
invece negli anni ‘90 si è consumata la fine dei partiti della prima
Repubblica, mentre le confederazioni sindacali erano lì con il governo a
tenere in piedi il paese. Come i partiti, che sembravano così forti negli
anni ‘80, si sono poi rivelati dei giganti con i piedi di argilla,
allora bisognava stare attenti che questa cosa non succedesse poi ai
sindacati, una volta che il sistema politico si fosse riorganizzato[67].
Rispetto all’efficacia generale del contratto collettivo occorre infine
definire uno strumento risolutivo sul piano della certezza giuridica. Non
si può eludere la questione del rapporto tra dimensione associativa della
rappresentanza e dimensione generale degli interessi coinvolti. Sta qui
tutto il dilemma della seconda parte dell’articolo 39 della
Costituzione. Si deve applicare un principio democratico, di maggioranza,
tenendo conto tuttavia che qui non è in gioco un’arena politica dove
tutti sono uguali in quanto cittadini, cui si applica la regola di “una
testa, un voto”, ma un’arena di interessi. E nel campo degli interessi
non può valere allo stesso modo il criterio maggioritario, come insegnano
i classici[68].
Si tratta di stabilire un rapporto tra dimensione degli interessi
coinvolti nella rappresentanza e dimensione generale. Perciò non si può
ignorare il problema del rapporto fra democrazia rappresentativa e
democrazia diretta, e delle loro reciproche relazioni. Ciò andrebbe fatto
non stabilendo la necessità di un mandato referendario dal basso come
criterio di legittimazione costante dell’azione sindacale dal momento
della costruzione delle piattaforme al momento della stipulazione
dell’accordo. E’ più sensato prevedere che un ricorso sobrio a
meccanismi di democrazia diretta sia utile proprio per fare funzionare
meglio la democrazia rappresentativa. Con una formula si può dire così:
ricorso al referendum come extrema
ratio. Naturalmente
occorre poi distinguere tra contratto nazionale, contratto aziendale,
contratto territoriale. Ma qui basti indicare il concetto di fondo. Si
tratta di immaginare un referendum inteso come ultima istanza, di cui però
si conoscono prima la procedura e gli effetti. Ad esempio: se si sa che
una certa ipotesi di accordo non può ottenere la maggioranza dei
consensi, non è che intanto si prende quello che c’è e poi si va
avanti: non si prende niente, quell’accordo non c’è più, e bisogna
farne un altro. In altre parole, non può funzionare il gioco del “più
uno”. Non va dato spazio a quelle forme di opportunismo sindacale che
circolano in alcuni paesi europei, dove esistono sindacati, come ad
esempio in Francia, che non firmano quasi mai i contratti, perché
comunque questi si applicano a tutti; così ci si permette di dirne male,
dato che intanto essi vengono di fatto applicati. Da
questo punto di vista il ricorso eventuale alla democrazia diretta diventa
un deterrente rispetto a forme di utilizzo dei meccanismi della democrazia
rappresentativa poco efficaci o addirittura opportunistici. Anche perché
l’esperienza dice che non è vero che i referendum debbano essere sempre
una sorta di giudizio di Dio contro coloro che più si sono esposti nel
negoziato. La casistica è assai varia. Naturalmente molto dipende da come
si costruisce il referendum. Si può pensare a un meccanismo che
attribuisca efficacia generale ai contratti stipulati dai sindacati
rappresentativi secondo certe quote e misure, fatto salvo l’esercizio
del dissenso da parte di uno o più sindacati rappresentativi, il quale
determina la messa in mora di quell’accordo e la possibilità di un
ricorso al referendum come strumento eccezionale. Infine
si pone il tema della rappresentanza sindacale in azienda. Qui non si
dovrebbe mutuare il sistema in vigore nel pubblico impiego: sono mondi
diversi. Sulla rappresentanza sindacale aziendale esiste un lascito
negativo del referendum del 1995. Da quel momento in Italia vige un
sistema secondo il quale è la stipula del contratto collettivo che dà
diritto a istituire la rappresentanza. Da qui conseguono una serie di
rilevanti problemi, il principale dei quali è costituito dal fatto che in
tale modo si è messo nelle mani dei datori di lavoro l’esercizio dei
diritti sindacali. Le pronuncie fin qui effettuate dalla Corte
costituzionale non appaiono esaustive del problema[69].
Da ciò, a parte le questioni di principio, in sé significative, derivano
una serie di rilevanti problemi pratici. Ad esempio, i sindacati che hanno
stipulato il rinnovo del contratto nazionale di lavoro dei metalmeccanici
del 2003, relativo a parte economica e normativa, non sottoscritto dalla
Fiom-Cgil, si sono preoccupati di non trarre le drastiche conseguenze che
l’applicazione letterale di quel disposto avrebbe determinato, vale a
dire l’esclusione della Fiom-Cgil dai diritti sindacali in quanto non
stipulante del contratto nazionale di categoria. Infatti nella
dichiarazione in premessa all’accordo del 7 maggio 2003 è scritto che
“le parti stipulanti il presente contratto collettivo …convengono che
di tutti i diritti e istituti ….saranno destinatari altresì i sindacati
stipulanti …l’accordo per la costituzione delle r.s.u.”. L a formula
vale a dire che la Fiom-Cgil pur non avendo sottoscritto il rinnovo del
contratto nazionale di lavoro nella sua stessa parte normativa resta
tuttavia inclusa nella fruizione dei diritti sindacali, per volontà dei
soggetti stipulanti[70].
Da
ultimo non si possono ignorare i rischi di destrutturazione e
atomizzazione della rappresentanza sindacale. Va quindi considerata
necessaria una rivisitazione dell’articolo 19 dello Statuto dei
lavoratori nella prospettiva fin qui delineata, e non in quella di un
utilizzo meccanico di quella sede come luogo in cui misurare la
rappresentatività dei soggetti sindacali. I giuslavoristi si sono accorti finalmente che la modifica degli assetti istituzionali ha a che fare con l’oggetto della loro disciplina[71]. Chi scrive fece a suo tempo un richiamo con “l’ambizione di suscitare un dibattito”, come ebbe la cortesia di ricordare D’Antona[72]. Poi si sono diffusi i commenti sulle competenze concorrenti tra regioni e Stato in materia di “tutela e sicurezza del lavoro” introdotti nell’art.117 della costituzione dalla riforma costituzionale n. 3 del 2001[73]. Oltre alla interpretazione dei testi vigenti va tuttavia elaborato un pensiero, il quale deve muovere da una riflessione critica di fondo sugli assetti istituzionali di questo paese. Solo in questa chiave ha senso ragionare sul significato e sulla praticabilità della concertazione nella prospettiva futura. Per
porre su basi attendibili il ragionamento bisogna anzitutto osservare che
tra concertazione e unità sindacale corre un rapporto coessenziale. In
tema vale più la verifica storica che le tante possibili teorizzazioni. I
patti triangolari veri si sono stipulati solo con l’unità sindacale. La
divisione sindacale ha invece fatto da detonatore alle crisi della
concertazione, dal disaccordo di San Valentino del 1984 al patto per
l’Italia del 2002[74].
L’unità sindacale, nei termini almeno di una convergenza delle maggiori
confederazioni sulle scelte fondamentali, è dunque necessaria alla
concertazione. Essa, come sopra ricordato, non è necessaria in sé, se
esiste un sistema di regole. La divisione sindacale risulta devastante
rispetto allo stesso sistema delle relazioni contrattuali se si svolge
nella assenza di regole condivise. Per
altro verso si pone il tema dei rapporti tra sistema sindacale e sistema
politico[75].
Qui il punto cruciale consiste in una razionalizzazione, ancora del tutto
incompiuta, del rapporto tra sistemi politici maggioritari, fondati sulla
logica dell’alternanza, e politiche della concertazione, ovvero tra
sistema politico di tipo bipolare e sistema sindacale. E’ evidente che
questo passaggio costituisce per il sindacato un radicale rovesciamento di
scenario: una cosa infatti è svolgere politiche di concertazione in un
quadro di regole condivise, e persino di pratiche consociative a livello
politico, tutt’altra cosa è muoversi in una situazione di forte
contrapposizione tra maggioranza di governo e opposizione, così acuta da
investire lo stesso quadro istituzionale, vale a dire le regole del gioco,
come le cronache della anomalia italiana ogni giorno raccontano. Il tema
andrebbe analizzato a fondo. Basti
qui segnalare appena uno spunto. Uno dei risultati paradossali della
conversione in senso maggioritario del sistema politico italiano, i cui
esiti vanno ben oltre la classica eterogenesi dei fini dei propositi
riformatori, consiste in una del tutto atipica affermazione della c.d.
autonomia della politica. Ciò che veniva teorizzato quando esistevano
veri partiti di massa a radicamento ideal-ideologico, appunto la
“autonomia del politico”, a quel tempo non si è in realtà mai
realizzato, perché in concreto prevalevano pratiche di concertazione
sociale e persino di consociazione politica. L’autonomia della politica
si afferma invece nell’epoca del maggioritario, quando il leader dello
schieramento vincente afferma, giustamente dal suo punto di vista, di
sentirsi legato al patto direttamente stipulato con gli elettori e non
alla mediazione con i corpi intermedi ovvero con le associazioni di
rappresentanza degli interessi. L’errore, nel caso, sta nel fatto di
assumere che quel “patto con gli elettori” riguardi le stesse regole
costituzionali, secondo una visione semplificata e persino brutale della
democrazia, che in questa accezione si risolverebbe tout
court nel principio di maggioranza. Tanto è vero che la stessa
maggioranza di governo in carica promuove l’approvazione, appunto a
maggioranza, di una nuova riforma costituzionale, rendendo così recidivo
l’errore compiuto nella precedente legislatura dalla diversa maggioranza
di governo, quella volta di centrosinistra, che improvvidamente approvò,
con un risicato numero di voti, la legge cost. n. 3 del 2001 di riforma
del tit. V della parte seconda della costituzione. Riforma appunto
improvvida, sbagliata nel metodo e nel merito che ha alimentato la più
acuta conflittualità tra diversi livelli istituzionali (Stato, regioni,
province e comuni) che si sia mai conosciuta nella storia della
Repubblica, per ragioni altrove descritte. La maggioranza di governo in
carica insiste nell’errore, proponendo una ulteriore riforma della
costituzione, relativa non solo alla ripartizione di competenze tra Stato,
regioni e enti locali (forma di Stato), ma anche alle questioni relative
alla forma di governo[76].
Qualcosa
dunque nel meccanismo democratico si sta alterando nel profondo. Infatti
la democrazia non consiste, come insegnano i classici, nella attuazione
del puro e semplice principio di maggioranza. Il principio di maggioranza
va anzitutto contemperato con i diritti della minoranza a partire da
quello, essenziale, di riuscire a diventare un giorno maggioranza, e con
l’insieme dei diritti sociali, e quindi con l’interlocuzione con quei
soggetti che l’art.2 della costituzione chiama “formazioni
intermedie”[77].
Tuttavia, dal punto di vista delle pure e semplici politiche di governo il
ragionamento è coerente. E’ evidente che in questo nuovo contesto i
vecchi ragionamenti sulla autonomia sindacale intesa come pura e semplice
autonomia dai partiti sono del tutto spiazzati e che va quindi elaborata
una nuova visione dei rapporti tra sistema politico e sistema sindacale.
Al riguardo c’è stata una colpevole mancanza di riflessione dei
sindacati. Proprio quando si consumava la crisi della prima Repubblica,
con il crollo dei partiti, e si realizzava l’avvento dei sistemi
maggioritari sul piano elettorale sotto la spinta dei referendum del 1991
e del 1993 i sindacati svolgevano una classica funzione di supplenza
politica, con l’accordo del 23 luglio 1993. Si può dire che in quel
momento le maggiori confederazioni hanno svolto una funzione politica
sostanziale e di grande rilievo costituzionale. Il loro errore è stato
poi quello di non riuscire a tradurre quell’esperienza in un sistema di
regole consolidate, come sopra osservato. Oggi
siamo molto distanti dai vecchi dibattiti sul neo-corporativismo, relativi
alla necessità o meno per la concertazione di governi c.d. amici, ovvero pro-labour[78].
Le cose ora sono più semplici, e persino alquanto rozze. E’ evidente
che l’esistenza di un governo “amico” della concertazione aiuta,
anche se esso non può qualificarsi tout court come pro-labour,
ma purchè sia almeno predisposto alla concertazione come metodo. Mentre
sicuramente non favorisce le pratiche di concertazione un governo che
dichiari in partenza l’obsolescenza della stessa concertazione, come si
è fatto nel “libro bianco del lavoro” dell’ottobre 2001, dove si
afferma essere “del tutto evidente l’impossibilità del modello
concertativo degli anni novanta di affrontare la nuova dimensione dei
problemi economici e sociali”, si sancisce quindi la fine delle
politiche di concertazione a favore delle politiche di c.d. competitività,
e infine si dichiara la rinuncia del governo ad occuparsi della
regolazione della rappresentatività sindacale e l’intenzione, in
sostanza, di fare l’accordo con chi ci sta, come poi è avvenuto con il
c.d. “patto per l’Italia”[79].
Non c’è quindi una relazione univoca ma complessa tra sistema politico
bipolare e concertazione[80].
La concertazione si può fare anche in un assetto politico bipolare, se
c’è accordo sulle regole di fondo, se si condivide una idea complessa
della democrazia, se c’è chiara distinzione dei ruoli. Qui si sconta la
mancata metabolizzazione del passaggio in Italia dal sistema proporzionale
al sistema maggioritario, come la più generale sottovalutazione dei temi
relativi alla c.d. forma di Stato, generalmente riassunti nella formula
indifferenziata della “riforma federalista dello Stato”. Essenziale
alla concertazione è comunque una disponibilità di fondo e reciproca tra
le parti sociali, al di là dei motivi di conflitto specifici e
occasionali: se la parte imprenditoriale ritiene di privilegiare il
rapporto diretto con un governo considerato “amico” (pro-capital
invece che pro-labour) con
metodi non a caso giudicati neo-collaterali (si pensi al noto Manifesto di
Parma della Confindustria del 2001 che fu una premessa persino testuale
del programma del governo di centrodestra) il gioco è finito in partenza[81].
Se non si attiva, al fondo, un rapporto autentico, se non una vera e
propria alleanza, tra “produttori”, tra chi lavora nelle imprese e chi
conduce le imprese la concertazione è morta in partenza, per così dire in
apicibus La
concertazione funziona se c’è una selezione degli attori e se è
motivata da precise priorità economico - sociali. Ha bisogno in sostanza
di una missione, di un compito, non di una ideologia. Per lunghi anni tale
missione fu costituita dalla necessità di superare il meccanismo della
scala mobile e il sistema multiplo degli automatismi salariali,
nell’ambito delle politiche anti-inflattive. Si può dire che la vecchia
scala mobile ha finanziato generosamente la concertazione: basti ricordare
la sequenza che dalla seconda metà degli anni ’70 (con la legislazione
della emergenza e lo smantellamento degli automatismi c.d. composti) porta
all’inizio degli anni ’90 con il superamento definitivo della scala
mobile e l’accordo del luglio 1993, come sopra ricordato. Il protocollo
del 23 luglio 1993 si spiega così: dopo il crollo del sistema dei
partiti, dopo la legge finanziaria lacrime-sangue del governo presieduto
da Giuliano Amato del 1992 si pone l’obiettivo di riportare sotto
controllo il deficit, risanare i conti pubblici e riuscire a realizzare i
parametri per l’ingresso nell’Euro. Se non si fosse raggiunto questo
risultato l’Italia non sarebbe oggi il paese con i gravi problemi che
conosciamo, ma qualcosa di peggio, una specie di Argentina nel cuore
dell’Europa. E’ necessario ora un nuovo obiettivo. Il problema sta nel
come definirlo. Occorrerebbe
in primo luogo individuare un sistema di valori condiviso anzitutto dalle
parti sociali: una visione equilibrata della competizione, che non può
essere fondata sulla flessibilità del lavoro come valore in sè, ma
semmai sulla qualità del lavoro, su una nuova politica dei redditi, che
esclude l’utilità del rivendicazionismo salariale[82]
ma anche la pura e semplice subordinazione della condizione e dei redditi
di lavoro alle esigenze immediate di impresa. In questo senso la legge n.
30 del 2003 e il successivo d. lgs. n. 276 del 2203 appaiono del tutto
fuori fase, come sopra detto. I fatti hanno dimostrato che c’è invece
bisogno dell’esatto contrario: rilanciare le politiche di concertazione
e coesione sociale, rivalorizzare il senso e il significato del lavoro,
anzitutto garantendo a chi si cimenta nel lavoro nel settore privato, e
quindi soprattutto ai giovani, una prospettiva di vita e di sicurezza, e
poi sviluppando efficaci politiche di integrazione della nuova forza
lavoro extracomunitaria, di cui questo paese ha un bisogno vitale. Sono
quindi in gioco oggi politiche di stabilizzazione e valorizzazione del
lavoro, esattamente agli antipodi della filosofia che ha animato le leggi
in commento. L’obiettivo, la missione di una “nuova concertazione”
potrebbe essere quindi individuato nel rilancio della funzione produttiva,
del valore produttivo del lavoro e dell’impresa. La
concertazione è utile se fatta bene, alle condizioni sopra descritte.
Altrimenti è meglio lasciare campo libero alla competizione liberista.
Che altro è infatti il superamento della concertazione se non
l’affermazione della logica neo-liberista? Ogni attore sociale muove la
sua azione, conflittuale e negoziale, e alla fine si vedrà l’esito. Se
ciò accade c’è da dubitare che dal libero incrociarsi delle
rivendicazioni e dei conflitti sociali possa scaturire nelle condizioni
oggi date un esito, per così dire, progressivo. Appare più probabile lo
scatenarsi di corporativismi incontrollati. Già le nuove forme di
terziarizzazione del conflitto la dicono lunga. Non sono più solo gli
addetti ai servizi pubblici che usano il loro potere di condizionamento
verso gli utenti-cittadini (gli autoferrotranvieri, i controllori di volo,
i macchinisti delle ferrovie ecc.). Sono gli operai che per farsi sentire
terziarizzano il loro conflitto, colpendo gli utenti (così gli operai di
Termini Imerese bloccano l’aeroporto di Palermo e l’autostrada, gli
operai dell’Ilva di Terni la stazione, quelli di Melfi il flusso delle
merci, i forestali della Calabria i trasporti nord-sud ecc.). Le
intuizioni di Accornero degli anni ’80 sulla “terziarizzazione del
conflitto” sono andate, per così dire, ultra
vires[83].
Se non si trova un altro modo di governare il conflitto l’esito più
probabile è quello di una atomizzazione del conflitto sociale come
premessa, in parallelo alla crescente frantumazione istituzionale del
paese, di un esito plebiscitario della lunga transizione italiana. Una
volta affermato che la concertazione è ancora utile si tratta di
ragionare sulla sua concreta praticabilità. Ammesso che tutte le premesse
sopra descritte siano soddisfatte, si possono indicare i temi su cui una
“nuova concertazione”ovvero una “nuova politica dei redditi”
dovrebbe cimentarsi. Occorrerebbe intanto definire alcuni argomenti di
impegno per così dire unilaterale dei tre soggetti della concertazione.
Per il governo: politica delle tariffe, dei prezzi, di sostegno a una
politica economica e industriale fondata su ricerca/innovazione, sulla
valorizzazione, qualificazione e stabilizzazione del lavoro. Per le
imprese: rinuncia ad
affrontare la competitività sul versante della riduzione dei diritti e
del costo del lavoro e accettazione della sfida a misurarsi con la
competitività sul piano della qualità dei prodotti e del lavoro. Per i
sindacati: scelta decisa a
favore di un impegno sulla competizione di qualità, rinuncia a divisioni
entropiche e stipulazione di un nuovo “patto federativo” relativo a un
sistema coerente di regole sindacali. Di questi enunciati andrebbero poi
declinati i dettagli, in tema di nuovi schemi della concertazione
possibile, anzitutto per quanto riguarda la selezione degli attori, le
regole endo-sindacali in termini di procedimenti decisionali, le regole
pattizie in materia di sistema contrattuale e di conflitto, e infine le
essenziali regole legislative in ordine alla efficacia giuridica dei
contratti collettivi di lavoro. 6.
Conclusioni. In
conclusione qualcosa va detto in ordine alla vitalità ovvero alla
“crisi” del diritto del lavoro ciclicamente evocata. Sul punto chi
scrive è vaccinato. Quando ero impegnato nella mia prima monografia mi
imbattei in una serie imponente di definizioni del diritto del lavoro,
alcune di segno catastrofista, del tipo appunto “crisi” o addirittura
“morte” del diritto del lavoro. Per venirne a capo decisi di
raccogliere quelle definizioni in una introduzione[84].
Da allora mi sono convinto che il diritto del lavoro è una strana materia
che assomiglia all’Araba fenice, capace di rinascere quando se ne
dichiara la fine e di declinare quando se ne celebra il trionfo, e ho
deciso di non prendere mai più sul serio il tema della “crisi “ del
diritto del lavoro. I
cambiamenti in corso sono tuttavia davvero molto consistenti. Qui più che
la dottrina conta l’osservazione di ciò che accade nella realtà, che
si fa descrivere meglio per aneddoti che per astratte formulazioni. Mi
ha molto colpito, di recente, una breve ma efficace analisi formulata da
un ex operaio, ora in pensione, che si diletta di fotografia. Dice questa
persona: “una volta in fabbrica si producevano meccanismi di solidarietà;
si lavorava assieme, con lo stesso contratto, i più anziani insegnavano
ai giovani, si formava un collettivo. Anche a quel tempo c’erano i più
bravi e i meno capaci: c’erano operai che avevano dei numeri, non
avevano potuto frequentare le scuole, ma potevano insegnare agli altri;
molti di questi sono diventati capi-officina e poi a loro volta hanno
messo su imprese artigiane; i meno capaci venivano protetti. Ora non è più
così: nella stessa impresa convivono contratti e posizioni di lavoro
diverse: l’impresa è esternalizzata, c’è gente che va e viene e non
si forma più un collettivo. I più anziani non hanno niente da insegnare
ai giovani, perché magari i giovani sanno usare il computer e gli anziani
no”. Questo racconto, riferito alla condizione di lavoro di una media
impresa emiliana dice molto, quasi tutto, delle trasformazioni del lavoro.
Ciò che declina non è la subordinazione, il vecchio lavoro
subordinato/dipendente, che invece fiorisce come non mai. Ciò che
declina, e tende addirittura a dissolversi è invece l’identità
collettiva del lavoro. Il lavoro subordinato non è minoritario. E’
disperso, frantumato, privo della possibilità di autoriconoscersi come
soggetto collettivo[85].
In
queste condizioni anche nella legge n. 30 e nel d. lgs.n. 276 del 2003 si
possono riscontrare alcune normative utili, come l’idea della
costituzione di una borsa nazionale del lavoro a cui ogni interessato può
rivolgersi per cercare occasioni di lavoro, ammesso che sia possibile
tutelare la privacy (86).In questi provvedimenti non tutto è da
abrogare. Molto invece è da rivisitare. In
ogni caso avanzano vertiginosi processi di cambiamento economico-sociale.
Sulle pagine dell’inserto “corriere del Veneto” del Corriere della
Sera si legge che nel Veneto si svolgono forme diffuse di delocalizzazione
e di intra-localizzazione: una importante impresa di elettrodomestici
mette in cassa integrazione 700 dipendenti perché ha deciso di avviare
uno stabilimento di produzione in Cina; nell’area tessile del trevigiano
sono state chiuse una serie di aziende dell’indotto (stirerie, camicerie
ecc.) sostituite da nuove società con nomi fantasiosi, che occupano nelle
stesse mansioni lavoratrici cinesi, cosicché le operaie italiane
licenziate hanno organizzato una protesta, dicendo “noi lavoravano a
contratto otto ore al giorno, quelle lavorano anche la notte a
sottosalario”. Sembra di rileggere le pagine delle lotte bracciantili di
inizio ‘900 quando i braccianti in sciopero nelle campagne padane
affrontavano i “crumiri” portati sui camion dalle zone depresse del
polesine, ed erano ancora più poveri e disperati degli scioperanti. I
dirigenti della Confindustria lanciano appelli allarmati affermando che
l’Euro pesante comporta un aggravio di circa il 50% nella competizione
persino per le produzioni di lusso del made in Italy. Commentatori
economici autorevoli affermano che l’Italia è ferma, non si innova, non
si fa ricerca, gli imprenditori si dedicano ad operazioni finanziarie e
non ad investimenti produttivi. Per non dire di ciò che accade sul
versante istituzionale: una politica rissosa, impegnata esclusivamente
nella ricerca dei consensi elettorali nel breve periodo e non nella
costruzione di progetti per il futuro, un assetto istituzionale
disordinato, conflittuale, caotico. L’impressione
è infine che qualcosa di molto concreto sia avvenuto nel mondo nel
lavoro, piuttosto lontano dalle eleganti dissertazioni dei giuristi sui
lavori senza aggettivi, sui cerchi concentrici e così via. Qualcosa che
assomiglia più alla dissolvenza che all’idea razionale di un altro
assetto, che pure fin qui anche chi scrive si è sforzato di perseguire.
Verrebbe da dire, con il Faust ghoetiano: “Ahimè, ho studiato a fondo e
con ardente zelo, filosofia e giurisprudenza e medicina e, purtroppo,
anche teologia. Eccomi qua, e ne so quanto prima”. Se si aggiungesse
alla desolata affermazione di Faust l’inciso “e ahimè anche diritto
del lavoro” il richiamo risulterebbe perfetto. Tuttavia
accade talora di accorgersi, spesso involontariamente, che il diritto del
lavoro resta un modo utile di guardare al grande e anche al piccolo mondo
reale, che esso è davvero una finestra sulla realtà. Così di recente mi
è accaduto, passeggiando sulle Zattere a Venezia, di assistere al
seguente episodio. Pure essendo poco dopo l’alba c’era un grande
fervore di lavori, specialmente attorno ai rifornimenti di un grande
magazzino. Poiché stavo preparando mentalmente una lezione sulla
somministrazione di manodopera e sui processi di esternalizzazione ho
guardato con gli occhi del diritto del lavoro ciò che mi circondava. La
mia prima valutazione è stata: qui ci sono decine di persone che lavorano
sul serio. C’è chi ha portato il camion sulla chiatta attraccata al
molo, chi trasborda le merci dalla chiatta al magazzino, chi sistema le
merci negli scaffali. Non sono neppure le sette della mattina, eppure il
lavoro ferve. Dunque innanzi tutto il lavoro c’è. Avrà perso la sua
identità, la sua forza sociale e politica, eppure ancora esiste. Dopo una
breve digressione mentale sul tema delle eventuali maggiorazioni
retributive per quelle ore di lavoro svolte in orario così mattutino,
risolta negativamente dato il fatto che la notte era passata, e quindi non
erano più in gioco indennità di lavoro notturno, tranne un dubbio per
gli addetti ai trasporti che evidentemente avevano lavorato di notte, mi
sono interrogato sulla quantità di unità produttive ovvero contrattuali
entro cui si aggregavano i lavori che vedevo svolgersi. Ho dedotto che
sicuramente c’era un contratto di trasporto, poi un contratto di
facchinaggio e probabilmente di fornitura, quindi un contratto della
grande distribuzione commerciale. Mentre mi accingevo a proseguire nella
mia meditazione sulla lezione da svolgere, mi si è parato di fronte uno
strano avvenimento. Si è verificato un alterco tra una addetta al grande
magazzino e un operatore ecologico che stava svolgendo il suo lavoro di
raccolta dei rifiuti. Quest’ultimo si rifiuta di raccogliere i sacchetti
di spazzatura aperti e dal contenuto disperso, perché sostiene che le sue
mansioni consistono nel raccogliere i sacchetti chiusi, mentre la raccolta
della spazzatura disseminata spetta ad altri. La commessa afferma che non
sta a lei raccogliere quella spazzatura, perché lei chiude la sera i
sacchetti, li dispone all’esterno e non è colpa sua se di notte
arrivano –sostiene- gli “zingari” che aprono i sacchetti e ne
disperdono il contenuto. Perciò apostrofa duramente l’interlocutore,
chiamandolo tuttavia operatore ecologico e non con il più popolare e
obsoleto termine di “spazzino”. Il colloquio-alterco si svolge in
stretto veneziano, ed è concluso dalla irata conclusione dell’operatore
ecologico che, andandosene con il suo carretto, afferma “la ghe chiami i
carabinèr”. Guarda caso stava da lì passando una pattuglia di
poliziotti, anzi di operatori della sicurezza., a cui subito si rivolge la
commessa, sempre in stretto veneziano. Gli operatori della sicurezza,
essendo meridionali, per prima cosa dicono: “parli italiano”. Dopodichè,
udita la questione, dichiarano che il problema non li riguarda, avendo
chiesto tuttavia alla commessa se era sicura che i sacchetti della
spazzatura venissero aperti dagli zingari, domanda alla quale la commessa
ha risposto decisa, questa volta ancora in veneziano, “la ghe son
sicura, sì”. Mentre mi allontanavo ho riflettuto sulla quantità di
questioni di diritto del lavoro affollate nell’episodio a cui avevo
appena assistito. Intanto, un problema di mansioni. A chi tocca la
raccolta dei rifiuti dispersi? La commessa ha ragione: quel compito non
sta certo nel contenuto della sua obbligazione di lavoro. Ha ragione però
anche l’operatore ecologico, se è vero che a lui compete la raccolta
dei sacchetti chiusi, mentre ad altri spetta quella dei rifiuti dispersi.
E’ escluso inoltre un compito degli operatori della sicurezza, tranne la
questione del controllo degli “zingari”, peraltro improbabile, dato
che a Venezia di zingari non se ne vedono molti, mentre circolano non
pochi drop-out, di età variabile. Ma questa è la vecchia job
property, l’applicazione
pignola del mansionario tipica dell’antico sindacalismo anglosassone, mi
sono detto. Come andrà a finire la storia, dato il fatto che non può
essere tollerato più di tanto, per l’immagine dell’esercizio,
l’esistenza di rifiuti dispersi di fronte al grande magazzino.
Riassumendo: gli operatori della sicurezza non c’entrano, se non per gli
eventuali controlli notturni sugli “zingari”; l’operatore ecologico
si attiene al suo mansionario, e difficilmente potrà essere indotto ad
ampliarlo, né tanto meno sanzionato per il rifiuto di flessibilizzare i
suoi compiti, dato che si tratta di un dipendente formalmente privato ma
occupato in quel regime semi-pubblico degli addetti alle ex aziende
municipalizzate, ora trasformate in genere in società per azioni con il
pacchetto di maggioranza detenuto per lo più dai Comuni. Concludo che
alla fine il problema andrà risolto dalla commessa, quando il direttore
le chiederà di provvedere a rimuovere il disdoro costituito dalla
spazzatura davanti all’esercizio, specie se la commessa è assunta con
un contratto a termine, o altre forme di lavoro precario. L’episodio
appena descritto mi ha distratto dalla impostazione geometrica che
intendevo dare alla mia lezione sulle esternalizzazioni di impresa. Mi ha
richiamato alla realtà. Mi ha fatto intendere, una volta ancora, che il
diritto del lavoro è una materia umile, che per lo più riguarda attività
povere, tuttavia essenziali ai fini di una condizione decente di vita dei
cittadini, che sta a ridosso dei rapporti concreti di lavoro e di vita,
che poco si presta ad astrazioni, le quali per lo più risultano
sproporzionate rispetto alla ridotta natura dell’oggetto. Ma al tempo
stesso una materia straordinaria per la sua capacità di costituire un
filtro di osservazione della realtà e anche uno strumento in qualche
misura determinativo dei rapporti sociali concreti, se è vero, come ha
ricordato Gerard Lyon-Caen in una delle sue ultime lezioni, che esso
“organizza la vita delle persone nei suoi aspetti più quotidiani, e più
remoti da qualunque speculazione intellettuale; da lui dipende il loro
sostentamento; dalla sua portata esatta dipendono un congedo più o meno
lungo, un’indennità più o meno elevata” di modo che “dal fatto che
lo si applichi in un senso o in un altro dipenderà la sorte di milioni di
persone”[86].
Anche per questo il diritto del lavoro, una volta che lo si è incontrato
e compreso, è difficile abbandonarlo. [1]
D’Antona, Il
protocollo sul costo del lavoro e l’autunno freddo
dell’occupazione, RIDL,
1993, I, 411 ss. [2]
Cfr., anche per richiami, i saggi in Mercato
del lavoro. Alcune risposte a molti interrogativi, LD,
2004, 7 ss. [3]
Libro bianco sul mercato del
lavoro in Italia, Ministero del lavoro e delle politiche sociali,
2001. [4]
Alleva, Un
disegno autoritario nel metodo, eversivo nei contenuti, in Aa.
Vv., Lavoro:
ritorno al passato, Roma, 2002. [5]
Cfr. Dal Patto per Milano al
Patto per l’Italia, Interventi,
DRI, 2003, 3 ss. [6]
Cfr., tra gli altri, gli accordi Fiat del dicembre 2002 e Alitalia
dell’ottobre 2004. [7]
Galbraith, L’economia
della truffa, Milano, 2004. [8]
Basti visitare il sito del ministero del welfare. Cfr. anche Tiraboschi,
La riforma Biagi. Commentario
allo schema di decreto attuativo della legge delega sul mercato del
lavoro, GL, supplemento
al n. 4/2003, 2003.; Sacconi
– Reboani - Tiraboschi, La
società attiva, Venezia, 2004. [9]
Giugni, I
tecnici del diritto e la legge “malfatta”, PD, 1970, 479. [10]
G. F. Mancini, Terroristi e
riformisti, Bologna, 1981, 149. [11]
Per essenziali rilievi critici a tale strategia si vedano Gallino,
Globalizzazione e
disuguaglianze, Bari, 2000; Stigliz,
La globalizzazione e i suoi
oppositori, Torino, 2002; Rifkin,
Il sogno europeo, Milano,
2004. [12]
Roccella,
Una politica del lavoro a doppio fondo, LD, 2004, 43 ss.;
Bano, Diritto del lavoro e nuove tecniche di regolazione: il
soft law, LD, 2003, 49 ss.. [13]
Lettieri, L’allargamento
a Est e i destini incrociati dell’Europa, DML,
2004. [14]
Le migliori analisi della lunga fase preparatoria si ritrovano in Lo
Faro, Funzioni e
finzioni della contrattazione collettiva comunitaria, Milano,
1999; M Barbera,
Dopo Amsterdam, Italia,
2000. [15]
Amato, Presentazione,
in G. F. Mancini, Democrazia
e costituzionalismo nell’Unione europea, Bologna, 2004, 3. [16]
Caruso, Alla
ricerca della “flessibilità mite”: il terzo pilastro delle
politiche del lavoro, DRL,
2000, 141 ss. [17]
Ghezzi, Fatti
e misfatti: il diritto del lavoro nella “Repubblica dei
referendum”, RGL, 2003, I, 3. [18]
M. Barbera, L’eguaglianza
come spada e l’eguaglianza come scudo, in Eguaglianza
e libertà nel diritto del lavoro. Scritti
in memoria di Luciano Ventura, a cura di Chieco,
Bari, 2004; Chieco, Lavoratore
comparabile e modello sociale nella legislazione sulla flessibilità
del contratto e dell’impresa, in Eguaglianza
e libertà nel diritto del lavoro, cit. [19]
Cfr. le risposte di Ghezzi, Pera, Persiani, Suppiej, Giubboni,
Novella, Torelli, Trojsi, Voza, in Il
diritto del lavoro oggi, LD,
2000, 5 ss. [20]
Alleva, Il
tramonto degli automatismi salariali, PD,
1982, 423 ss. [21]
Persiani, Diritto
della previdenza sociale, Padova, 2002, 289. [22]
Gorrieri, Parti
uguali fra diseguali, Bologna, 2002. [23]
Brollo, Il
lavoro subordinato a tempo parziale, Napoli, 1991. [24]
M. T. Carinci, La
fornitura di lavoro altrui, Commentario
al Codice civile, diretto
da Schlesinger, Milano, 2000. [25]
Alleva, Ricerca
e analisi dei punti critici del decreto legislativo 276/2003 sul
mercato del lavoro, RGL,
2003, I, 887 ss. [26]
S. Cassese, La
crisi dello Stato, Bari, 2002. [27]
D’Antona, Diritto
del lavoro di fine secolo: una crisi di identità, RGL, 1998,
I, 311. [28]
Pelling, A
History of British Trade Unionism, London, 1976. [29]
Si vedano Wedderburn, Common
law, labour law, global law, DLRI,
2002, 1.; Hepple, Diritto
del lavoro, disuguaglianza e commercio globale, 2003, 27.; Perulli.,
Diritto del lavoro e
globalizzazione, Padova, 1999; Scarponi
(a cura di), Globalizzazione
e diritto del lavoro, Milano, 2001. [30]
Si veda la suggestiva ricostruzione di Ruffolo,
Quando l’Italia era una
superpotenza, Torino, 2004. [31]
In argomento cfr. Viscomi,
La legge italiana del 1998 sul
lavoro immigrato extracomunitario, in Cappelletti
- Gaeta L. (a cura di), Diritto
del lavoro. Alterità, Napoli, 1998; Gragnoli,
Area soggettiva di applicazione
e regime delle fonti, in Dondi
(a cura di), Il lavoro degli
immigrati, Milano, 2003, 56; Dondi,
La politica verso
l’immigrazione: dalla legge Turco-Napolitano alla legge Bossi-Fini,
in Dondi (a cura di), Il
lavoro degli immigrati, cit.;
Castelli, Politiche
dell’immigrazione e accesso al lavoro nella legge Bossi-Fini, LD,
2003, 289. [32]
Per tutti si vedano De Luca
Tamajo R., I processi di
esternalizzazione, Napoli, 2002; Ferraro,
Tipologie di lavoro flessibile,
Torino, 2002; Perulli (a cura
di), Impiego flessibile
e mercato del lavoro, Torino, 2004. [33]
Romagnoli, La
concertazione sociale in Europa: luci e ombre, LD,
2004; Id., L’uomo
flessibile e la metamorfosi del lavoro, Bologna, 2004, 426 ss.; Id.,
Radiografia di una riforma,
Bologna, 2004, 19. [34]
Pedrazzoli (a cura di), Lavoro
subordinato e dintorni, Bologna, 1989; Ghezzi (a cura di), La
disciplina del mercato del lavoro. Proposte per un Testo unico,
Roma, 1996; Impresa e nuovi
modi di organizzazione del lavoro, Atti
delle giornate di studio di diritto del lavoro, Salerno, 22-23
maggio 1998, Milano, 1999; Pedrazzoli,
Dai lavori autonomi ai lavori
subordinati, in Scritti in
onore di Gino Giugni, tomo I, Bari, 1999, 737 ss. [35]
D’Antona., La
grande sfida delle trasformazioni del lavoro: ricentrare le tutele
sulle esigenze del lavoratore come soggetto, in D’Antona, Il
lavoro delle riforme , Roma, 2000,297. [36]
Grandi, “Il
lavoro non è una merce”: una formula da ricordare, LD,
1997, 557. [37]
Per le proposte formulate dalla CGIL cfr. Aa.
Vv., La
riforma del mercato del lavoro, Roma, 2003, 125 ss.; per quelle
dei partiti di opposizione cfr. Lavoro
Welfare, Verso il programma
dell’Ulivo per il lavoro, Milano, 2002, 127 ss.; per un commento
cfr. Perulli, Lavoro
autonomo e dipendenza economica oggi, RGL,
2003, I, 221 ss. [38]
Persiani - Proia, Contratto
e rapporto di lavoro, Padova, 2003,9. [39]
Roccella, Manuale
di diritto del lavoro, Torino, 2004, 29 ss. [40]
Barassi, Il
contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, vol. I, Milano,
1915. [41]
Mengoni, Il
contratto di lavoro, a cura di M. Napoli,
Milano, 2004, 115; Napoli,
Ricordo di Luigi Mengoni, DLRI,
2002, 151. [42]
Mazzotta, Barassi,
Goethe e la tipologia dei rapporti, in La
nascita del diritto del lavoro, a cura di M. Napoli,
Milano, 2003. [43]
Treu, in Commentario
della costituzione a cura di Branca, Bologna-Roma, 1979. [44]
Santoro Passarelli, Il
lavoro “parasubordinato”, Milano, 1979; Ballestrero,
L’ambigua nozione di lavoro
subordinato, LD, 1987,
41 ss. [45]
Calafà, Congedi
e rapporto di lavoro, Padova, 2004. [46]
Cfr. art. 12 l. n. 223 del 1991. [47]
Si vedano, per tutti, Mortati,
Il lavoro nella costituzione,
DL, 1954, I, 154; Romagnoli,
in Commentario della
costituzione, a cura di Branca,
Bologna - Roma, 1975, 194; Mazzotta,
Diritto del lavoro, Milano,
2002,12. [48]
Ichino, Il
lavoro e il mercato, Milano, 1996. [49]
Ichino, Lezioni
di diritto del lavoro, Milano, 2004. [50]
Del Punta, L’economia
e le ragioni del diritto del lavoro, DLRI,
2001, 3; De Simone, Dai
principi alle regole, Torino, 2001, 20 ss. [51]
Zoppoli, Dieci
anni di riforma del lavoro pubblico, 1993-2003, LPA,
2003, 751. [52]
S. Cassese, La
tenaglia del pubblico impiego, in Corriere
della sera del 23 novembre 2004. [53]
Borgogelli F., La nuova
disciplina del mercato del lavoro e le pubbliche amministrazioni, LD,
2004, 69. [54]
Biagi, Competitività
e risorse umane: modernizzare la regolazione dei rapporti di lavoro,
RIDL, 2001, I, 257 ss.; Biagi,
Istituzioni di diritto del
lavoro, Milano, 2001. [55]
Pera, Noterelle.
Diario di un ventennio, Milano, 2004. [56]
Pedrazzoli, Codice
dei lavori, Milano, 1999; Pedrazzoli,
Logistica delle norme e
conoscenza del diritto del lavoro, LD,
2001, 599 ss.; E’ conoscibile
il diritto del lavoro?, Interventi, LD,
2001, 541 ss. [57]
Cfr. Commissione per
l’analisi delle compatibilità macroeconomiche della spesa sociale,
Relazione finale, Roma, 28 febbraio 1997; Treu,
Riforma o destrutturazione del welfare,
DLRI, 2002, 535; Balandi
- Renga, Presentazione
di La protezione sociale del lavoro non-standard,
LD, 2003, 361 ss. [58]
Accornero - Della
Ratta Rinaldi, La
conflittualità nei servizi pubblici, LD,
2004, 305. [59]
G. F. Mancini, Libertà
sindacale e contratto collettivo “erga
omnes”, RTDPC,
1963, 520 ss. [60]
Cfr. Le nuove regole sindacali.
Interventi, LD, 1987. [61]
Pascucci, Tecniche
regolative dello sciopero nei servizi essenziali, Torino, 1999; Santoni,
Lo sciopero, Napoli, 2001. [62]
Ghezzi, Modificare
l’art. 39 della Costituzione, PD,
1985, 219 ss., ora in Ghezzi,
Dinamiche sociali, riforma delle istituzioni e diritto sindacale,
Torino, 1996, 129 ss.; Ghezzi,
Dopo l’XI legislatura: la
rappresentatività sindacale tra iniziativa legislativa e referendum,
LD, 1994, 351 ss.,
ora in Ghezzi, Dinamiche
sociali, riforma delle istituzioni e diritto sindacale, cit.;
Rusciano M., Contratto
collettivo e autonomia sindacale, Torino, 2003; Tursi,
Autonomia contrattuale e
contratto collettivo, Torino, 1996; Nogler,
Saggio sull’efficacia
regolativa del contratto collettivo, Padova, 1997; Bellocchi, Libertà
e pluralismo sindacale, Padova, 1998; Campanella,
Rappresentatività sindacale:
fattispecie e effetti, Milano, 2000; Monaco,
Modelli di
rappresentanza e contratto collettivo, Milano, 2004; Zilio
Grandi, Enti bilaterali
e problemi di rappresentanza sindacale, LD,
2003, 185; Scarponi, Gli
enti bilaterali nel disegno di riforma, LD,
2003, 223; Gli enti bilaterali:
mercato del lavoro e rappresentanza sindacale, LD,
2003. [63]
Per un utile survey cfr. Damiano
- Pessa, Metalmeccanici,
Roma, 2000. [64]
Mariucci, Le
c. d. pre-intese contrattuali, RGL,
2004, I, 115 ss. [65]
Si veda la classificazione di F. Carinci,
Una svolta fra ideologia e
tecnica: continuità e discontinuità nel diritto del lavoro di inizio
secolo, Introduzione,
in Commentario al d. lgs. 10
settembre 2003, n. 276, Milano, 2004. [66]
Cfr. Le nuove regole sindacali.
Interventi, cit. [67]
Mariucci, Poteri
dell’imprenditore, rappresentanze sindacali unitarie e contratti
collettivi, in Poteri
dell’imprenditore, rappresentanze sindacali unitarie e contratti
collettivi, Atti delle
giornate di studio di diritto del lavoro, Pisa, 26-27 maggio 1995,
Milano, 1996. [68]
Weber, Economia
e società, Milano, 1981; Bobbio,
Rappresentanza e interessi,
in Rappresentanza e interessi,
a cura di Pasquini,
Bari, 1988. [69]
Ballestrero, Diritto
sindacale, Torino, 2004, 122ss. [70]
Lassandari, Considerazioni
a margine della “firma separata” del ccnl per i lavoratori
metalmeccanici, RGL,
2003, I, 709 ss. [71]
Cfr. Federalismo e diritti del
lavoro, Interventi, LD,
2001, 401 ss. [72]
D’Antona, La
grande sfida delle trasformazioni del lavoro: ricentrare le tutele
sulle esigenze del lavoratore come soggetto, cit.; Id.,
Diritto del lavoro di
fine secolo: una crisi di identità, cit. [73]
Per tutti v. F. Carinci, Riforma
costituzionale e diritto del lavoro, ADL,
2003, 1. [74]
Per una ricostruzione puntuale v. Bellardi,
Concertazione e contrattazione,
Bari, 1999; Veneziani, Concertazione
e occupazione: un dialogo interrotto?, LD,
2004. Per altri interventi cfr. Concertazione
e unità sindacale, LD,
2004, 267 ss. [75]
B. G. Mattarella, Sindacati
e pubblici poteri, Milano, 2003. [76]
Cfr. Costituzione. Una riforma
sbagliata, a cura di F. Bassanini,
Firenze, 2004. [77]
Utili in argomento sono le osservazioni sui limiti della costituzione
americana di Dahl, Quanto
è democratica la costituzione americana?, Roma - Bari, 2001. [78]
Per questa risalente letteratura si veda per tutti, Maraffi
(a cura di), La società
neocorporativa, Bologna, 1981. [79]
Libro bianco sul mercato del
lavoro in Italia, cit. [80]
Treu, Riforma
o destrutturazione del Welfare, cit. [81]
Giugni, La
lunga marcia della concertazione, Bologna, 2003; Mania - Sateriale, Relazioni
pericolose, Bologna, 2002. [82]
Ales, Paradigmi
giuridici dell’offerta di lavoro e moderazione rivendicativa
nell’esperienza sindacale italiana, DLRI,
2002, 181. [83]
Accornero, Conflitto
“terziario” e terzi, DLRI,
1985, 17 ss. [84]
Mariucci, Il
lavoro decentrato, Milano, 1979, Introduzione, 11ss.. [85]
Si vedano le preveggenti osservazioni di Vardaro,
Contratti collettivi e rapporto
individuale di lavoro, Milano, 1985. [86]
G. Lyon-Caen, Permanenza
e rinnovamento del diritto del lavoro in una economia globalizzata, LD,
2004, 257 ss.. |
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