Alcuni punti fermi in
tema di oneri probatori del demansionamento e del mobbing
Sommario:
1.
Premessa
2.
L’attuale corretto regime probatorio del mobbing e del demansionamento
professionale
2.1. I diritti di cui sono creditori il lavoratore e il datore di lavoro nel
rapporto
2.2. Il riparto probatorio nelle obbligazioni sinallagmatiche
2.3. Applicazione in concreto e nel rapporto di lavoro dei principi sanciti
dalle sezioni unite e riconferme dottrinarie e giurisprudenziali (Cass. n.
12445 del 2006)
2.4. Irrilevanza nel giudizio civile del riscontro dell’elemento soggettivo:
sufficienza dell’idoneità lesiva della condotta
3.
La non brillante e poco decifrabile opinione di Cass. n. 4774 del 2006
1. Premessa
La sentenza di Trib. Roma 8.4.2006 – pubblicata in questa Rivista,
di indubbio pregio giuridico, già meritevole della pubblicazione nella
scarna Sezione Mobbing del sito della Corte d’Appello di Roma, ove l’abbiamo
reperita con ritardo ma con piacevole sorpresa - ci fornisce l’occasione per
sintetizzare il nostro pensiero (altrove e diffusamente esplicitato[1])
sulla distribuzione degli oneri probatori in caso di dequalificazione e
sottoposizione a mobbing.
Va
premesso, per entrare in tema, che in data 6 marzo 2006 la Corte di
cassazione, sezione lavoro, ha emesso due sentenze, la n. 4766 (est.
Nobile)[2], in tema di oneri probatori a carico del datore di lavoro per la
dequalificazione, sottoposta al vaglio della magistratura dal dipendente, e
la n. 4774 (est. Miani Canevari), in tema di mobbing.
Cassando la Corte di appello di Milano che aveva disconosciuto la
dequalificazione addotta dal lavoratore, la Cassazione - nella sentenza n.
4766/2006
- ha così affermato, in maniera condivisibilmente argomentata: «Sulla
autonoma domanda risarcitoria per asserita dequalificazione avanzata dal
ricorrente, la Corte di Appello ha ritenuto semplicemente "non raggiunta
la prova circa l'avvenuta dequalificazione", rilevando un “contrasto
non ragionevolmente risolvibile” tra le testimonianze Parodi e Cavalera,
e concludendo che “deve quindi trovare applicazione la regola residuale
di giudizio dell'onere della prova, che gioca a danno dell'attore ai sensi
dell'art. 2697, comma 1°, cod civ.”.
«In
tal modo la Corte territoriale ha sostanzialmente ignorato l'obbligo che
specificamente incombe sul datore di lavoro ex art. 2103 c.c. (come
novellato dall'art. 13 dello Statuto dei lavoratori) ed ha, altresì,
disatteso il principio generale affermato in materia di prova
dell'inadempimento e di riparto dell'onere probatorio anche in ipotesi di
obbligazioni corrispettive.
«La
questione in esame, ovviamente, precede la successiva questione riguardante
la prova del danno conseguente a dequalificazione o demansionamento (sulla
quale è sorto anche un contrasto in sede di legittimità), prescindendo dalla
stessa ed investendo una problematica diversa
(problematica affrontata dalla S. corte, a sezioni unite, nella successiva
sentenza 24.3.2006 n. 6572[3],
da noi commentata).
«Orbene in particolare, come affermato da questa Corte con la sentenza
3.6.1995 n. 6265,
“il lavoratore (cui l'art. 13 della legge n. 300 del 1970 riconosce
esplicitamente il diritto a svolgere le mansioni per le quali è stato
assunto ovvero quelle equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza
diminuzione della retribuzione) ha altresì diritto, a maggior ragione, a non
essere allontanato da ogni mansione, cioè il diritto all'esecuzione della
prestazione lavorativa, cui il datore di lavoro (tradizionalmente creditore
esclusivo della medesima) ha il correlativo obbligo di applicarlo,
restandogli consentita la possibilità dì trasferirlo solo per comprovate
ragioni tecniche, organizzative e produttive. La violazione di tale diritto
del lavoratore all’esecuzione della propria prestazione è fonte di
responsabilità risarcitoria del datore di lavoro, salvo che l'inattività del
lavoratore sia riconducibile ad un lecito comportamento del datore dì lavoro
medesimo, in quanto giustificata dall'esercizio dei poteri imprenditoriali,
garantiti dall'art. 41 Cost., o dall'esercizio dei poteri disciplinari”.
«Così
configurato un diritto del lavoratore ed un corrispettivo obbligo del datore
di lavoro, anche in materia di dequalificazione deve, quindi, affermarsi la
applicabilità del principio affermato in generale dalle Sezioni Unite di
questa Corte (vedi Cass. S.U. 30.10.2001 n. 13533) secondo cui “in tema
di prova dell'inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per
la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per
l'adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo
diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera
allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre
il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo
dell'altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, ed uguale
criterio di riparto dell'onere della prova deve ritenersi applicabile al
caso in cui il debitore convenuto per l'adempimento, la risoluzione o il
risarcimento del danno si avvalga dell'eccezione di inadempimento ex art.
1460 cod. civ. (risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in
lite, perché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l'altrui
inadempimento, ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio
adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell'obbligazione).
Anche nel caso in cui sia dedotto non l'inadempimento dell'obbligazione, ma
il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera
allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per violazione di doveri
accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza
dell'obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei
beni), gravando ancora una volta sul debitore l'onere di dimostrare
l'avvenuto, esatto adempimento”.
«Pertanto,
allorquando da parte di un lavoratore sia allegata una dequalificazione o un
demansionamento o comunque un inesatto adempimento dell'obbligo del datore
di lavoro ex art. 2103 c.c. è su quest'ultimo che incombe l'onere di provare
l'esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza
in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero
attraverso la prova che l'una o l'altro siano state giustificate dal
legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari (ovvero, in
base al principio generale di cui all’art. 1218 c.c., comunque da una
impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile).
«Nella fattispecie la Corte territoriale, addossando sul lavoratore la
mancata prova della allegata dequalificazione, ha disatteso tali principi e
pertanto va cassata con rinvio alla stessa Corte d’Appello in diversa
composizione».
Nella
sentenza n. 4774/2006 dello stesso 6 marzo 2006 la Cassazione ha, invece,
convenuto con la Corte d’appello di Venezia, disconoscendo nelle
vicissitudini di un bancario il riscontro della fattispecie patologica del
mobbing, ed affermando in motivazione il seguente convincimento: «Si
qualifica come “mobbing” una condotta sistematica e protratta nel tempo, che
concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell'integrità
fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro, garantite
dall'art.2087 cod. civ.; tale illecito, che rappresenta una violazione
dell'obbligo di sicurezza posto da questa norma generale a carico del datore
di lavoro, si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimenti del
datore di lavoro indipendentemente dall'inadempimento di specifici obblighi
contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato.
La
sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze dannose
deve essere verificata considerando l'idoneità offensiva della condotta del
datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata
dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e
discriminazione, risultanti specialmente da una connotazione emulativa e
pretestuosa, anche in assenza di una violazione di specifiche norme di
tutela del lavoratore subordinato». Su
tale sentenza diremo più in dettaglio al par.3.
Ritornando alla decisione n. 4766/2006, va sottolineato come la S. corte
confermi letteralmente e con le stesse argomentazioni giuridiche di supporto
quanto avevamo sostenuto, nella rivista Lavoro e previdenza Oggi n.
12/2005, p. 1847 e ss., all’interno di alcuni paragrafi dell’articolo “Il
danno esistenziale nel rapporto di lavoro” ove avevamo esaminato la
problematica degli oneri probatori nell’ambito delle obbligazioni
corrispettive, che meritano di essere parzialmente riproposti con le
integrazioni nel frattempo resesi necessarie a seguito di interventi della
dottrina e della giurisprudenza.
2. L’attuale corretto regime probatorio del mobbing e del demansionamento
professionale
Il
rapporto di lavoro subordinato - intercorrente sia con datore di lavoro
privato che pubblico - è inquadrabile nella fattispecie civilistica del
contratto con obbligazioni corrispettive, in cui a fronte della prestazione
intellettuale o manuale del lavoratore (tutelato da norme di diritto
positivo e costituzionali) corrisponde una controprestazione retributiva da
parte del datore di lavoro che di essa fruisce. Il rapporto di lavoro dà
quindi vita ad un contratto caratterizzato da obbligazioni in capo alle due
parti, che si trovano, a secondo dei casi, in posizione di creditori e
debitori rispettivamente di determinati diritti ed obblighi.
2.1. I diritti di cui sono creditori il lavoratore e il datore di lavoro nel
rapporto
Il
lavoratore è, esemplificativamente, creditore oltreché del diritto alla
retribuzione quale compenso dell’opera prestata, del diritto al disimpegno
della prestazione, con pienezza ed effettività, secondo la qualifica e le
mansioni di assunzione o quelle successivamente acquisite (art. 2103 c.c.),
del diritto alla autorealizzazione della propria personalità nel lavoro che
svolge nell’impresa intesa come formazione sociale (art. 2 e 3, comma 2
Cost.), del diritto a non essere discriminato per sesso, razza, lingua,
religione, opinioni politiche e condizioni personali e sociali (artt. 3
Cost., comma 1, e 37 Cost., poi specificati in leggi ordinarie), del diritto
alla tutela della immagine professionale e della dignità (art. 2, 3, 41
Cost.), del diritto alla salvaguardia della integrità fisica e della
personalità morale, da parte del datore di lavoro (ex art. 2087 c.c.) che
versa in posizione di debitore, nonché del diritto, in un rapporto a tempo
indeterminato, alla continuità del medesimo (che può essere interrotta solo
da licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, ex art. 1, l. n.
604/66, con dimostrazione della ricorrenza delle causali rescissorie da
parte del datore di lavoro, ex art. 5 della stessa legge).
Il
datore di lavoro è invece creditore del diritto a comportamenti del
lavoratore improntati a diligenza (art. 2104 c.c.) – costituenti obblighi di
fare in positivo per il debitore – e ad obblighi di non fare del lavoratore
in veste di debitore, quali quelli codificati nell’art. 2105 c.c. afferente
all’obbligo di fedeltà (specificati nel “non trattare affari per conto
proprio o di terzi in concorrenza con l’imprenditore, non divulgare notizie
attinenti all’organizzazione o ai metodi di produzione dell’impresa, o farne
uso in modo da recare ad essa pregiudizio”).
Vi
sono comunque tutta una serie di altre obbligazioni intercorrenti tra le
parti, ma per l’esame che ci siamo ripromessi, quelle sopracitate ci
appaiono – seppur incomplete – del tutto necessarie e vengono quindi
riferite a titolo non esaustivo ma meramente esemplificativo.
Per la
tematica che andiamo ad approfondire, va focalizzata l’attenzione sulle
“obbligazioni di fare” del datore di lavoro, in forma di impegno/dovere di
garantire al lavoratore creditore:
a)
pienezza ed effettività della prestazione (salvo ricorrenza di causa non
imputabile al datore, da documentare ex art. 1218 c.c.);
b) il
disimpegno della prestazione secondo la qualifica e le mansioni d’assunzione
o quelle corrispondenti alla categoria superiore successivamente acquisita
(art. 2103 c.c.;
c) il
diritto ad un trattamento paritario con i suoi simili, non in senso
assoluto, ma indipendente dalle diversità di sesso, razza, lingua ecc.,
diritto che rifluisce nel corrispondente divieto, per il datore di lavoro in
veste di debitore, di discriminare per motivi c.d. “pravi” o “riprovevoli”
per la coscienza sociale (cfr. art. 15 Stat. lav. e d.lgs. 9.7.2003 nn. 215
e 216 in tema di parità di trattamento in materia di occupazione e di
condizioni di lavoro);
d) il
diritto di essere pienamente ed attivamente tutelato dal datore di lavoro
nella sfera dell’integrità della salute psico-fisica e dell’integrità della
propria personalità morale (ricomprendente, dignità, immagine, reputazione
e similari valori riconducibili nel novero degli inviolabili, di cui
all’art. 2 Cost. comma 1).
Tutti questi diritti concretizzano “obbligazioni di fare” di cui il
lavoratore è “creditore” nei confronti del datore di lavoro “debitore” e
solo una incondivisibile lettura nella forma del divieto – che è il rovescio
della medaglia di ogni diritto del creditore – può farle prospettare
piuttosto come frutto di un originario divieto, cioè a dire di una
“obbligazione di non fare” per il datore di lavoro debitore, per occasionare
la conseguenza di un accollo sul lavoratore dell’onere probatorio (così, per
il mobbing discendente, suppostamente individuandone la fonte in un
divieto e non già un obbligo datoriale in positivo discendente dall’art.
2087 c.c., Vallebona[4],
che a supporto non convincente richiama, R. Del Punta[5],
secondo cui sarebbe insito nell’art. 2087 c.c., norma statuente
un’obbligazione positiva, “un implicito divieto legislativo” di
vessare il lavoratore).
2.2. Il riparto probatorio nelle obbligazioni sinallagmatiche
La precisazione sopra effettuata è, secondo noi, importante giacché
l’individuazione di appartenenza al novero delle “obbligazioni di fare”
(positive) o di “non fare” (negative) influisce sul riparto dell’onere
probatorio sul creditore ed il debitore, come ha avuto modo di precisare
opportunamente Cass. sez. un. 30 ottobre 2001, n. 13533
[6].
La
massima di questa fondamentale decisione – che ha così risolto un contrasto
interno alla Cassazione tra un orientamento maggioritario ed uno
minoritario, aderendo a quest’ultimo – così recita: « Il creditore che
agisce in giudizio, sia per l’adempimento del contratto sia per la
risoluzione ed il risarcimento del danno, deve fornire la prova della fonte
negoziale o legale del suo diritto (ed eventualmente del termine di
scadenza), limitandosi ad allegare l’inadempimento della controparte, su cui
incombe l’onere della dimostrazione del fatto estintivo costituito
dall’adempimento». E nella motivazione, più diffusamente, si afferma:
«Dall’art. 2697 c.c., che richiede all’attore la prova del diritto fatto
valere ed al convenuto la prova della modificazione o dell’estinzione del
diritto stesso, si desume il principio della presunzione di persistenza del
diritto. Ed il principio - pacificamente applicabile all’ipotesi della
domanda di adempimento, in relazione alla quale il creditore deve provare
l’esistenza della fonte negoziale o legale del credito e, se previsto, del
termine di scadenza, in quanto si tratta di fatti costitutivi del diritto di
credito, ma non l’inadempimento, giacché è il debitore a dover provare
l’adempimento, fatto estintivo dell’obbligazione -, deve trovare
applicazione anche alle ipotesi in cui il creditore agisca per la
risoluzione o per il risarcimento del danno da inadempimento richiesto in
via autonoma (sent. n. 973/96; n. 3232/98; n. 11629/99). Siffatta estensione
trova giustificazione nella considerazione che, dovendo le norme essere
interpretate secondo un criterio di ragionevolezza, appare irrazionale che
di fronte ad una identica situazione probatoria della ragione del credito, e
cioè dell’esistenza dell’obbligazione contrattuale e del diritto ad
ottenerne l’adempimento, vi sia una diversa disciplina dell’onere
probatorio, solo perché il creditore sceglie di chiedere (la risoluzione o)
il risarcimento in denaro del danno determinato dall’inadempimento in luogo
dell’adempimento, se ancora possibile, o del risarcimento in forma specifica
(sent. n. 973/96).
«L’esenzione del creditore dall’onere di provare il fatto negativo
dell’inadempimento in tutte le ipotesi di cui all’art. 1453 c.c. (e non
soltanto nel caso di domanda di adempimento), con correlativo spostamento
sul debitore convenuto dell’onere di fornire la prova del fatto positivo
dell’avvenuto adempimento, è conforme al principio di riferibilità o di
vicinanza della prova. In virtù di tale principio, che muove dalla
considerazione che il creditore incontrerebbe difficoltà, spesso
insuperabili, se dovesse dimostrare di non aver ricevuto la prestazione,
l’onere della prova viene infatti ripartito tenuto conto, in concreto, della
possibilità per l’uno o per l’altro soggetto di provare fatti e circostanze
che ricadono nelle rispettive sfere di azione. Ed appare coerente alla
regola dettata dall’art. 2697 c.c., che distingue tra fatti costitutivi e
fatti estintivi, ritenere che la prova dell’adempimento, fatto estintivo del
diritto azionato dal creditore, spetti al debitore convenuto, che dovrà
quindi dare la prova diretta e positiva dell’adempimento, trattandosi di
fatto riferibile alla sua sfera di azione (sent. n. 973/96; n. 3232/98; n.
11629/99).
«L’orientamento minoritario riceve l’approvazione di larga parte della
dottrina, che svolge analoghe argomentazioni. Il contrasto va composto
aderendo all’indirizzo minoritario.
L’identità del regime probatorio, per i tre rimedi previsti dall’art. 1453,
merita di essere affermata anche per palesi esigenze di ordine pratico.
«La
difficoltà per il creditore di fornire la prova di non aver ricevuto la
prestazione, e cioè di fornire la prova di un fatto negativo (salvo che si
tratti di inadempimento di obbligazioni negative), è superata dai
sostenitori dell’orientamento maggioritario con l’affermazione che nel
vigente ordinamento non vige la regola secondo la quale "negativa non
sunt probanda", ma opera il principio secondo cui la prova dei fatti
negativi può essere data mediante la prova dei fatti positivi contrari. Si
tratta tuttavia di una tecnica probatoria non agevolmente praticabile: il
creditore che deduce di non essere stato pagato avrà serie difficoltà ad
individuare, come oggetto di prova, fatti positivi contrari idonei a
dimostrare tale fatto negativo; al contrario, la prova dell’adempimento, ove
sia avvenuto, sarà estremamente agevole per il debitore, che di regola sarà
in possesso di una quietanza (al rilascio della quale ha diritto: art. 1199
c.c.) o di altro documento relativo al mezzo di pagamento utilizzato.
«Si
rivela quindi conforme all’esigenza di non rendere eccessivamente difficile
l’esercizio del diritto del creditore a reagire all’inadempimento, senza
peraltro penalizzare il diritto di difesa del debitore adempiente, fare
applicazione del principio di riferibilità o di vicinanza della prova,
ponendo in ogni caso l’onere della prova a carico del soggetto nella cui
sfera si è prodotto l’inadempimento, e che è quindi in possesso degli
elementi utili per paralizzare la pretesa del creditore, sia questa diretta
all’adempimento, alla risoluzione o al risarcimento del danno, fornendo la
prova del fatto estintivo del diritto azionato, costituito dall’adempimento.
«In
conclusione, deve affermarsi che il creditore, sia che agisca per
l’adempimento, per la risoluzione o per il risarcimento del danno, deve dare
la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto e, se previsto, del
termine di scadenza, mentre può limitarsi ad allegare l’inadempimento della
controparte: sarà il debitore convenuto a dover fornire la prova del fatto
estintivo del diritto, costituito dall’avvenuto adempimento».
2.3. Applicazione in concreto e nel rapporto di lavoro dei principi sanciti
dalle sezioni unite e riconferme dottrinarie e giurisprudenziali (Cass. n.
12445 del 2006)
Nel
caso di violazione sia dell’art. 2103 c.c. - cioè di un “obbligazione di
fare” del debitore datore di lavoro, rifluente nel diritto del lavoratore
“creditore” ad una prestazione da essere resa con pienezza ed effettività e
conforme alle mansioni in suo possesso per contratto d’assunzione o
successivamente acquisite in relazione alla superiore categoria (senza
erosioni, sottrazioni non corrisposte da addizioni equivalenti né tantomeno
di essere confinato in forzata inattività), così come nel caso di violazione
dell’art. 2087 c.c. per effetto di inflizione di vessazioni persecutorie per
mobbing, implicante violazione dell’obbligazione datoriale di fare,
inteso come prevenzionale ed impeditivo dell’altrui sottoposizione a
vessazioni persecutorie, l’inadempimento datoriale è pacificamente attinente
ad obbligazioni contrattuali, con il regime di responsabilità per
inadempimento di cui all’art. 1218 c.c., nel senso specificato dalle sezioni
unite.
L’art. 1218 c.c. così dispone: « Il debitore che non esegue esattamente
la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che
l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della
prestazione derivante da causa a lui non imputabile». Per inciso va
ricordato come – per il mobbing e le sue iniziative vessatorie – la
natura contrattuale dell’inadempimento è stata recentemente confermata da
Cass. sez. un. civ. 4 maggio 2004 n. 8438[7].
Va
detto che risulta pacifico che con la natura contrattuale può concorrere la
responsabilità extracontrattuale da fatto illecito per violazione dell'art.
2043 c.c. per trasgressione del principio del neminem laedere e che,
pertanto, a seconda delle preferenze di linea legale, il difensore
del lavoratore demansionato o vessato per mobbing (di cui il demansionamento
ne costituisca un aspetto), può agire con ricorso per responsabilità
extracontrattuale, disgiuntamente o in forma concorrente nell'ambito dello
stesso ricorso, arbitro il giudice dell'individuazione di quella più
pertinente secondo il brocardo "iura novit curia".
Ne
indichiamo le differenze:
a)
l'azione di responsabilità contrattuale, esercitabile innanzi al giudice del
lavoro, ha il vantaggio di un onere probatorio meno pesante per il
lavoratore, stante il fatto che - una volta allegati i fatti costituenti
inadempienze e provato il nesso di causalità dei danni dalle inadempienze -
grava sul datore di lavoro fornire la prova liberatoria dell'aver posto in
essere tutte le misure idonee ad evitare il concretizzarsi delle
inadempienze stesse, prova che quest’ultimo può assolvere sia dimostrando di
aver ottemperato alle prescrizioni su di lui gravanti ex artt. 2103 e
2087 c.c. (assenza di dequalificazione e tutela della personalità morale del
prestatore) ovvero qualora dimostri che il comportamento del lavoratore è
stato improntato da comprovata inosservanza delle direttive impartite o che
il danno è conseguente a causa a lui non imputabile; inoltre il lavoratore
non deve dimostrare né la ricorrenza del dolo né della colpa datoriale, che
è presunta in assenza di prova liberatoria da parte del datore di lavoro;
l'azione per responsabilità contrattuale incontra, tra l'altro, il regime
più favorevole della prescrizione decennale ex art. 2496 c.c. e solo
quello (in tal caso, più sfavorevole) della risarcibilità dei soli danni che
siano prevedibili ex art. 1225 c.c. da parte datoriale (ma tale
limitazione è pacificamente insussistente secondo corretta giurisprudenza,
atteso che è fatto notorio che il demansionamento come il mobbing
sono pregiudizievoli sia per la professionalità sia per i danni alla salute
che normalmente arrecano per effetto di sindromi depressive indotte);
risarcibili in toto, oltre ai prevedibili, inoltre quelli di cui sia
riscontrato dal magistrato il carattere doloso;
b)
l'azione per responsabilità extracontrattuale da fatto ingiusto (cd.
aquiliana, ex art. 2043 c.c.), va azionata davanti al giudice
ordinario - non segue quindi la procedura delineata dalla l. n. 533/73 per
il rito del lavoro -, è soggetta al deteriore regime della prescrizione
quinquennale ex art. 2947 c.c. (per per i danni derivanti da fatto
illecito), ma il lavoratore per il risarcimento deve dimostrare la
sussistenza della colpa e/o del dolo datoriale o dei preposti (cd. elemento
psicologico o animus nocendi), peraltro pressoché sempre sussistente
nella fattispecie di mobbing verticale e strategico. Alla provata
ricorrenza della colpa o del dolo (prova di cui è onerato il lavoratore) i
danni risarcibili sono integrali e non soggetti alla limitazione della
prevedibilità ex art. 1225 c.c.
Una
volta inquadrati - come lo sono stati correttamente - sia il demansionamento
sia il mobbing, nell'alveo della responsabilità contrattuale, in
termini di oneri probatori spetterà, quindi, nell’ipotesi del
demansionamento (con sottrazione o avocazione di compiti a danno del
lavoratore e, solitamente, a favore di altri privilegiati o preferiti) sul
lavoratore ricorrente l’onere di allegare l’inadempimento del datore di
lavoro, documentare i fatti costitutivi dell’inadempimento (naturalmente
quelli costituiti da condotte attive datoriali, strutturanti le sottrazioni
di incombenze di pertinenza del ricorrente), mentre graverà
indiscutibilmente sul datore di lavoro debitore l’onere di dimostrare di non
aver demansionato o dequalificato tramite la sottrazione
qualitativo/quantitativa di sfere di competenza e relative funzioni,
documentando, in tale ottica, i lavori resi dal lavoratore, dimostrando per
converso la pienezza della prestazione, l’impegno desumibile da quanto da
egli prodotto e pacificamente in possesso datoriale, che, nel caso si tratti
eminentemente di produzione intellettuale (progetti, relazioni, pareri,
studi, e simili), è solitamente conservata in originale negli archivi
aziendali. Qualora poi il lavoratore sia stato confinato in forzata
inattività, al lavoratore creditore di una prestazione effettiva e piena
incomberà solo l’onere di allegare l’inadempimento (cioè, la non
assegnazione di lavoro) non già di provarlo (trattandosi di fatto negativo,
cioè di un “non fare” irragionevolmente non documentabile, secondo Cass.
sez. un. n. 13533/2001) mentre incomberà sul datore di lavoro la prova di
dimostrare, a contrario, di averlo impegnato con pienezza ed
assiduità, allegando e documentando in giudizio i prodotti dell’operato del
lavoratore creditore, essendo tale onere ragionevolmente assolvibile
dall’azienda che resta detentrice dell’intera produzione del lavoratore. Nel
caso in cui l’esibizione da parte aziendale dei prodotti atti a documentare
la pienezza e l’effettività della prestazione di un lavoratore che alleghi
la sostanziale inattività forzata, si riveli insufficiente o inconsistente,
il magistrato dovrà trarre le debite conclusioni in ordine all’insufficienza
o al non assolvimento dell’onere probatorio dell’azienda convenuta. Nello
stesso nostro senso, in ordine all’onere probatorio gravante sull’azienda
che eccepisca l’insussistenza della sottrazione di compiti al demansionato,
si è espressa Cass. 1 giugno 2002 n. 7967 (est. De Matteis) secondo cui: «Diversamente
da quanto opina l’azienda ricorrente incidentale, non solo una riduzione
qualitativa, ma anche quantitativa delle mansioni, in una misura
significativa il cui apprezzamento è rimesso al giudice del merito, può
comportare dequalificazione. E’ evidente poi che ove il lavoratore deduca
una dequalificazione per rilevante riduzione quantitativa delle mansioni,
l’onere processuale di dedurre e provare lo svolgimento di mansioni
significative di mancata dequalificazione compete al convenuto datore di
lavoro, che l’eccepisce, in base all’art. 2697, 2° comma, cod.civ., del
quale erroneamente la ricorrente incidentale deduce violazione»[8].
E in senso del tutto
conforme conforme, più recentemente, Cass. 9.2.2007, n. 2878[9]
(est. Panzani).
Come
abbiamo anticipato in premessa – riportando ivi la motivazione cui si rinvia
l’attento lettore - con maggiore ed inequivoca chiarezza si è espressa
Cass., sez. lav., 6 marzo 2006 n. 4766, (cit.) – opportunamente richiamata
anche da Trib. Roma 8.4.2006 (est. Buonassisi) - che ha rinviato alla Corte
d’appello di Milano, in diversa composizione, il riesame secondo corretti
principi di diritto, della prova della dequalificazione addotta e lamentata
da un giornalista, dequalificazione che, erroneamente, gli era stata negata
per asserita mancata dimostrazione da parte del ricorrente suppostamene di
essa onerato secondo il Collegio milanese, quando invece la Cassazione si è
premurata di far rilevare che l’onere della prova della dequalificazione,
nelle obbligazioni corrispettive, grava sul datore di lavoro, debitore di
una prestazione piena ed effettiva nei confronti del lavoratore creditore.
Con la conseguenza che eccepita (o allegata, come si usa dire in
giuridichese) la dequalificazione o l’inattività, incombe sul datore di
lavoro dimostrare il contrario, cioè a dire di aver esattamente adempiuto
all’obbligazione di impegnare il lavoratore-creditore in una prestazione
piena, assidua e rispondente alle mansioni contrattuali, in linea con i
precetti dell’art. 2103 c.c.
Merita spendere ancora qualche considerazione sugli oneri probatori in
vertenze per mobbing. Alcune decisioni di merito, sempre più relegate
nell’eccezione alla regola, sono giunte a negare il mobbing, non già
per la carenza del riscontro delle vessazioni reiterate in un arco temporale
consistente e comunque non inferiore ai 6 mesi (arco temporale considerato
dagli psicologi del lavoro pressoché indispensabile a caratterizzare la
fattispecie), quanto per il fatto che il ricorrente non aveva dimostrato
l’intento persecutorio del mobber, cioè a dire il c.d. “animus
nocendi” o elemento soggettivo intenzionale[10].
A parte la considerazione che si verte in materia civilistica e non
penalistica (ove si richiede la dimostrazione dell’elemento soggettivo del
reato), ed in particolare in tema di responsabilità contrattuale ex
art. 1218 c.c., va evidenziato nettamente che il lavoratore non può essere
onerato - se non errando da chi lo pretende - di tale dimostrazione, stante
l’impossibilità di provare un fatto o un intento che risiede nella sfera
volitiva altrui. Con la conseguenza ragionevole che tale intento – qualora
richiedibile, ma anticipiamo subito che non è affatto necessario per
strutturare la fattispecie vessatoria – deve essere desumibile dal
magistrato per effetto dell’oggettività dei fatti emersi in istruttoria,
secondo un ragionamento fondato su presunzioni gravi, precise e concordanti
ex art. 2729 c.c. Molti datori di lavoro, imputati direttamente o per
fatto della linea gerarchica aziendale, di mobbing verticale (o
discendente) pretendono nelle loro memorie difensive approntate dai loro
legali che il magistrato impronti l’istruttoria secondo gli schemi
penalistici, volti ad evidenziare il dolo specifico o generico, ma è
istruttivo portare a conoscenza come la pretesa sia stata giudicata del
tutto errata. Sul punto specifico - tra le diverse decisioni conformi – si è
pronunciato recentemente Tar del Lazio, III sez. bis, 12-1/5-4-2004 (est.
Arzillo)[11],
che ha opposto ad una simile pretesa tali condivisibili argomentazioni: «Al
riguardo va precisato che questo intento persecutorio non va configurato in
termini eccessivamente soggettivistici: il Tribunale, discostandosi da un
orientamento giurisprudenziale (Trib. Como, 22 febbraio 2003), ritiene che
non sia comunque necessario indagare nella loro interezza i motivi che sono
a base dell'intento persecutorio, essendo sufficiente attenersi ai caratteri
oggettivi della condotta (ripetitiva, emulativa, pretestuosa e quindi
oggettivamente vessatoria e discriminatoria), ai fini di poter considerare
dolosi i comportamenti lamentati (in questo senso cfr. Trib. Milano, 20
maggio 2000).
Risultano quindi inconferenti le deduzioni della difesa
dell'Amministrazione, secondo cui la vicenda presupporrebbe una
ricostruzione in chiave penalistica, con le connesse conseguenze sia in
ordine all’interruzione del cd. “nesso di occasionalità necessaria”, sia in
ordine alla necessità di rilevare la sussistenza di un disegno criminoso
puntualmente preordinato e coordinato in danno dell'odierna ricorrente.
Siffatto ordine di idee è del tutto improprio in questa sede ».
Vengono quindi tratte le seguenti conclusioni nel senso che: « Avendo la
fattispecie in esame natura al tempo stesso contrattuale (ed
extracontrattuale), ne deriva - sul piano processuale - l'applicabilità
della disciplina dell'onere probatorio più favorevole al lavoratore
ricorrente, ossia quello contrattuale; conseguentemente spetta al datore di
lavoro dimostrare di aver posto in essere tutte le misure necessarie per
tutelare l'integrità psico-fisica del dipendente (Trib. Forlì, 15 marzo
2001; cfr. altresì Trib. Tempio Pausania, 10 luglio 2003, n. 157): prova che
non è stata fornita in questo giudizio, in cui l'Amministrazione ha operato
solamente alcune controdeduzioni inidonee - lo si ripete - a scardinare il
complesso impianto ricostruttivo della precedente sentenza di questo
Tribunale, in relazione alla pluralità degli episodi di cui si compone la
fattispecie.
Circostanza, questa, che va valutata in relazione al combinato disposto
degli artt. 2087, 1218 e 1228 c.c. (ed altresì dell'art. 2049 c.c. per i
profili di responsabilità extracontrattuale);ciò anche ai fini della
configurazione dell'elemento soggettivo in capo all'Amministrazione di
appartenenza, che deve essere ritenuto sussistente, avuto riguardo, in
particolare, all'omessa predisposizione delle misure idonee ad evitare il
verificarsi dei danni».
Alla
tesi della irrilevanza del riscontro del cd. “elemento soggettivo” - per la
inequivoca preferenza verso la sufficienza dell’elemento oggettivo
costituito dal solo riscontro della “idoneità in se e per se” dei
comportamenti a risultare vessatori - aderisce anche Trib. Roma 8.4.2006
(cit.) laddove in motivazione afferma: «Giova
evidenziare come l'elemento finalistico che costituisce l'anello di
congiunzione dei singoli episodi non debba essere necessariamente ricondotto
all'elemento soggettivo del dolo, inteso quale elemento costitutivo della
fattispecie, da provarsi a carico del mobbizzato in analogia a quanto è
posto a carico del danneggiato dall'art. 2043 c.c. ma possa essere
sufficientemente riscontrato nell'obiettiva idoneità lesiva, rispetto ai
beni protetti, del comportamento posto in essere in modo consapevole e
volontario dal datore, purché emerga l'oggettiva concatenazione degli
episodi mobbizzanti, anche se posti in essere congiuntamente da diversi
soggetti appartenenti al contesto aziendale».
In senso analogo si era espressa in precedenza Cass. sez. lav. del 2 maggio
2000, n. 5491 (est. Stile)[12],
seguita – tra le tante - da Corte App. Torino 21 aprile 2004 (est.
Trafighet)[13],
la quale correttamente riconducendo una vicenda di mobbing nell’alveo
della responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c., conferma che
ricade sul lavoratore documentare le violazioni (sub specie di
inadempimento dell’obbligo di protezione), il danno ed il nesso causale tra
il secondo e le prime; al datore di lavoro spetta invece di provare di aver
garantito la protezione legislativamente richiesta ex art. 2087,
direttamente o mediante fattiva vigilanza ed intervento sull’operato dei
propri collaboratori. Nello stesso senso - ex plurimis - Trib. Tempio
Pausania 10.7.2004 (est. Ponassi)[14],
che ha affermato sul punto come: «L'art. 2087 è sicuramente una norma che
ben si attaglia alle fattispecie di mobbing, posto che essa, trasferendo in
ambito contrattuale il più generale principio del neminem laedere,
ripartisce l'onere della prova così che grava sul datore l'onere di provare
di aver ottemperato all'obbligo di protezione dell'integrità psico-fisica
del lavoratore, mentre grava su quest'ultimo il solo onere di provare la
lesione dell'integrità psico-fisica ed il nesso di causalità tra tale evento
dannoso e l'espletamento della prestazione lavorativa (in questo senso, tra
le altre: Cass. 12763/1998)».
Sull’onere probatorio a carico del datore di lavoro – di aver non solo
represso ma prevenuto il mobbing, con le iniziative innominate
desumibili dall’obbligo di sicurezza e di salvaguardia della personalità
morale del lavoratore fissate dall’art. 2087 c.c. - si è espressa,
recentemente, Cass. sez. lav. 25.5.2006, n. 12445[15]
(est. De Luca), la quale ha innanzi tutto concordato con la precedente
giurisprudenza che ha qualificato di natura “contrattuale” l’inadempimento
datoriale per danni da mobbing ed ha ritenuto gravare sul lavoratore,
da una parte, l’onere di provare il fatto materiale costituente
inadempimento datoriale (cioè le iniziative attive di mobbing e quelle
omissive) nonché il cd. “nesso di causalità” tra inadempimento e danni
subiti in conseguenza (es. danno biologico, esistenziale, ecc.), mentre
grava sul datore di lavoro, ex art. 1218 c.c., l’onere di fornire la
cd. prova liberatoria, cioè a dire la dimostrazione della non imputabilità
ad esso, ai propri preposti o ai colleghi mobber (di cui risponde per
“culpa in vigilando” o “in eligendo”, ovvero per responsabilità
oggettiva degli atti compiuti dai dipendenti, ex art. 2049 c.c.), dei
comportamenti mobbizzanti (attivi ed omissivi) allegati dal lavoratore[16].
Conseguentemente ha così argomentato e stabilito: «Dalla
prospettata natura contrattuale della responsabilità, la stessa
giurisprudenza ricava, per quel che qui interessa, significative
implicazioni sul piano della distribuzione degli oneri probatori relativi.
Come é già stato anticipato, infatti, la presunzione legale di colpa -
stabilita (dall'art. 1218 c.c., cit.) a carico del datore di lavoro
inadempiente all'obbligo di sicurezza (di cui all'art. 2087, cit.) - deroga,
parzialmente, il principio generale (art. 2697 c.c.), che impone - a “chi
vuoi fare valere un diritto in giudizio”- l'onere di provare i “fatti che ne
costituiscono il fondamento”.
Non
ne risulta, tuttavia, una ipotesi di responsabilità oggettiva, né la
dispensa, da qualsiasi onere probatorio, del lavoratore danneggiato.
Questi, infatti, resta gravato - in forza del ricordato principio generale
(art. 2697 c.c., cit., appunto) - dell'onere di provare il “fatto”
costituente inadempimento dell'obbligo di sicurezza nonché il nesso di
causalità materiale tra l'inadempimento stesso ed il danno da lui subito,
mentre esula dall'onere probatorio a carico del lavoratore - in deroga,
appunto, allo stesso principio generale - la prova della colpa del datore di
lavoro danneggiante, sebbene concorra ad integrare la fattispecie
costitutiva del diritto al risarcimento (come ad ogni altro rimedio contro
il medesimo inadempimento).
E'
lo stesso datore di lavoro, infatti, ad essere gravato (ai sensi dell'art.
1218 c.c.) - quale “debitore”, in relazione all'obbligo di sicurezza,
appunto - dell'onere di provare la non imputabilità dell'inadempimento.
Il
datore di lavoro é responsabile dei danni subiti dal proprio dipendente, non
solo quando ometta di adottare idonee misure protettive, ma anche quando
ometta di controllare e vigilare che di tali misure sia fatto effettivamente
uso (anche) da parte dello stesso dipendente, con la conseguenza che [...]
si può configurare un esonero totale di responsabilità, per il datore di
lavoro appunto, solo quando il comportamento del dipendente presenti i
caratteri dell'abnormità e dell'assoluta imprevedibilità.In altri termini, la prova sull'imputazione materiale e su quella
psicologica del danno (secondo una classica bipartizione dottrinaria) -
anziché essere concentrata sul lavoratore (come, in genere, sul creditore)
danneggiato, che agisca per ottenere il risarcimento - risulta ripartita, in
ipotesi di responsabilità contrattuale appunto, tra lo stesso lavoratore
(ed, in genere, creditore) e, rispettivamente, il datore di lavoro (ed, in
genere, il debitore)».
Quanto alla prova del nesso di causalità tra mortificazioni indotte e danno
biologico – di norma affidata alle relazioni del CTU – va evitato l’errore
in cui talora incorrono taluni magistrati che ne affermano il suo mancato,
inequivoco, riscontro, laddove si trovano in presenza di dizioni del medico
legale così formulate: «affetto dasindrome ansioso-depressiva
(disturbo dell’adattamento), patologia di natura psichiatrica la cui genesi
è compatibile con fattori legati al venir meno di gratificazioni lavorative
o alla condizione avversativa aziendale», o alla cd. “costrittività
organizzativa aziendale”. E’, infatti notorio che i medici legali quando
vogliono escludere il nesso eziologico lo affermano espressamente con
diagnosi di “incompatibilità”, mentre invece quando ne riscontrano la
sussistenza lo designano con la seguente stereotipata formula di stile: «patologia
compatibile con il mobbing o lo stress occupazionale ovvero la costrittività
organizzativa»[17].
Dizione, implicante un pacifico riconoscimento del nesso eziologico tra
stress occupazionale e danno biologico, ma che, al tempo stesso, possiede
quel minimo margine prudenziale immanente al fatto che tanto la psichiatria
quanto la medicina legale rientrano tra le cd. scienze sociali e non già in
quelle scientifiche caratterizzate da esattezza matematica di risultanze. A
chi ha dimestichezza di relazioni medico legali (come lo scrivente), è noto
– e lo dovrebbe essere anche per i magistrati che richiedono CTU – che esse
si articolano in vari paragrafi, intitolati alla
«diagnosi» alla «efficacia lesiva della situazione avversativa di lavoro»,
alla «compatibilità cronologica», alla «Pree-sistenza dei disturbi psichici
ed esclusione di altre cause», allo «stato di malattia con valutazione
comparativa tra il “prima” e il “dopo” » ed infine alla «compatibilità
clinica»
ove in tale ambito (pressoché con formulazione standardizzata) si legge, per
evidenziare il positivo riscontro del nesso di causalità, che: «i
disturbi psicopatologici riscontrati possono rappresentare una risposta
clinica a situazioni esogene di molestia morale sul lavoro e, nel caso
specifico, hanno caratteri di compatibilità con la patologia relativa a
stressors lavorativi da conflittualità interpersonale,in situazione
avversativa di lavoro»[18].
Secondo condivisibile dottrina[19],
nel caso del mobbing «si tratterà, quindi, per il lavoratore di
dimostrare gli elementi di fatto che caratterizzano di norma la condotta dei
mobbers – quali la durata, la reiterazione, la direzionalità, la
pretestuosità – nonchè il collegamento di causalità giuridica con le
conseguenze dannose. Lo schema da seguire è quello previsto per le condotte
discriminatorie dagli artt. 4, n. 3, d.lgs. 215/2003 e 4, n. 4, d.lgs.
216/2003 i quali prevedono in parallelo: “Il ricorrente, al fine di
dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio
danno, può dedurre in giudizio, anche sulla base di dati statistici,
elementi di fatto in termini gravi, precisi e concordanti”. Al datore di
lavoro spetterà di provare che gli elementi di fatto addotti non
costituiscono, singolarmente considerati, altrettante violazioni
dell’obbligo di protezione e, in ogni caso, che tali episodi non sono
collegati tra loro da un finalismo orientato a vessare, discriminare ed
accerchiare il lavoratore; o, ancora, che, ex art. 1218 c.c.,
l’inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione
dipendente da causa a lui non imputabile (es. factum principis). Dal quadro
così abbozzato, il giudice, in sede di prova critica, potrà maturare il
libero convincimento in ordine alla natura vessatoria, discriminatoria, se
non, addirittura, persecutoria della condotta».
Infine
sul punto si evidenzia come un’applicazione tanto coerente quanto
progressista dei principi espressi dalla Cassazione a sezioni unite in tema
di riparto degli oneri probatori nel nostro Paese, possa essere considerato
- nell’ordinamento francese, in tema di harcèlement moral (molestie
morali) - l’art. 122-52 del Code du Travail, secondo cui : «è
sufficiente che il lavoratore dipendente interessato adduca elementi di
fatto che lascino supporre l’esistenza di una molestia. A partire da tali
elementi, incombe alla parte convenuta di provare che il proprio
comportamento non è costitutivo di molestia morale e che le proprie
decisioni sono giustificate da ragioni obiettive, estranee a qualsiasi forma
di vessazione». Principio giuridico che costituisce la corretta
applicazione dell’art. 10 della Direttiva 2000/78/CE che prescriveva in tema
antidiscriminatorio che «gli Stati membri prendono le misure necessarie,
conformemente ai loro sistemi giudiziari nazionali, per assicurare che [...]
incomba alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del
principio della parità di trattamento»,
dal
quale si è invece discostato il d.lgs.n. 216/2003 - art. 4, co. 4- tramite
una applicazione edulcorata, non letteralmente aderente o se si preferisce
incompleta, la cui compiutezza è recuperabile sostanzialmente in sede
interpretativa, come la precitata dottrina suggerisce. Incompletezza
sanata, tramite l’inversione dell’onere probatorio sul convenuto,
limitatamente alle discriminazioni per sesso dall’art. 40 d.l.gs. n.198/2006
(Codice delle pari opportunità).
2.4. Irrilevanza nel giudizio civile del riscontro dell’elemento soggettivo:
sufficienza dell’idoneità lesiva della condotta
In ordine al riscontro dell’elemento soggettivo o teleologico della
finalizzazione degli atti persecutori o vessatori, riteniamo – in contrasto
con chi si ostina, anche in sede giudiziale, per tale riscontro con onere
probatorio a carico del mobbizzato e non già semmai per una emersione dagli
atti istruttori – che non sia affatto necessario, essendo sufficiente a
strutturare la fattispecie non già la finalizzazione quanto la “idoneità”
dei comportamenti a ledere oggettivamente la dignità, immagine e reputazione
professionale del lavoratore. Sul punto non può che convenirsi – non già in
generale, ma sullo specifico aspetto - con quella dottrina che al riguardo
ha evidenziato come: «L’idea di valorizzare l’elemento soggettivo della
condotta lesiva, non solo, come si vedrà, è incompatibile col diritto
vigente, ma condizionerebbe ogni tutela alla difficile prova di tale
elemento. Quello che conta, invece, è la oggettività della condotta, come è
stato già chiarito per le discriminazioni e per il comportamento
antisindacale»[20],
da Cass. sez. un.12.6.1997 n. 5295[21].
Tale
decisione aveva al riguardo risolto una divergenza di opinioni in seno alle
sezioni semplici della Cassazione – in tema di condotta antisindacale – in
questi termini: «Per integrare gli estremi della condotta antisindacale
di cui all’art. 28 dello statuto dei lavoratori (l. n. 300 del 1970) è
sufficiente che tale comportamento leda oggettivamente gli interessi
collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali, non essendo
necessario (ma neppure sufficiente) uno specifico intento lesivo da parte
del datore di lavoro né nel caso di condotte tipizzate perché consistenti
nell’illegittimo diniego di prerogative sindacali (quali il diritto di
assemblea, il diritto delle rappresentanze sindacali aziendali a locali
idonei allo svolgimento delle loro funzioni, il diritto ai permessi
sindacali), né nel caso di condotte non tipizzate ed in astratto lecite, ma
in concreto oggettivamente idonee, nel risultato, a limitare la libertà
sindacale, sicché ciò che il giudice deve accertare è l’obiettiva idoneità
della condotta denunciata a produrre l’effetto che la disposizione citata
intende impedire, ossia la lesione della libertà sindacale e del diritto di
sciopero».
Nello
stesso senso autorevolmente da altra dottrina, secondo cui:«Anche la
finalità di allontanare o escludere il lavoratore del posto di lavoro non
può considerarsi un requisito presente in ogni pratica di mobbing; non è, in
altri termini, necessario, o comunque rilevante, il “dolo specifico”»[22].
Del tutto confermativamente, Cardarello[23]
secondo cui:«Ancorare la sussistenza del
mobbing alla contemporanea esistenza dell'elemento doloso sembra
profondamente errato, giacché ciò che deve rilevare, pur in presenza di un
comportamento colposo, è l'oggettività del fatto, o dei fatti, costituenti
compressione della sfera professionale e personale del lavoratore, dovendosi
semmai ritenere che il profilo doloso possa, anzi debba, costituire un
elemento aggravante la responsabilità del mobber in termini risarcitori».
L’ alternativa tra concezione cd. “soggettiva” – per la quale verrebbe in
rilievo l’elemento psicologico, il dolo generico o specifico – e la cd.
concezione “oggettiva” (che noi sosteniamo), è stata esaminata anche da R.
Scognamiglio, che lo ha portato in due saggi ad una chiara opzione per la
tesi “oggettiva”, asserendo nell’ultimo articolo sul tema, che: « A mio
avviso, la teoria che attribuisce rilevanza all’elemento soggettivo si
espone all’obiezione, e fa correre il rischio di restringere l’ambito di
operatività del mobbing, implicando la difficile verifica della intenzione
del trasgressore. Laddove appare sufficiente per la ricorrenza, e la
rilevanza del fenomeno che la sequenza di atti e comportamenti contrastanti
con gli interessi e le esigenze del lavoratore assuma una valenza
persecutoria, in cui risulta implicito, per tagliare corto alla questione,
il perseguimento di una finalità illecita»[24].
Lo stesso accademico, nel precedente saggio, in senso conforme, affermava
con altre parole che: «a ben vedere l’alternativa tra le concezioni
soggettiva ed oggettiva del mobbing costituisce frutto di una considerazione
astratta del fenomeno, che poco contribuisce, seppure non risulta
fuorviante, alla sua corretta configurazione. In effetti la distinzione, che
si propone, tra motivo discriminatorio o vessatorio e l’aspetto soggettivo
della condotta individuato nel dolo o nella colpa, induce ad identificare
l’elemento soggettivo nella finalità illecita della condotta illegittima,
riconducibile piuttosto alla componente obiettiva della condotta medesima»[25].
Ed un’altra autrice, condivisibilmente, aggiunge che non ha alcuna rilevanza
– per sottrarre da responsabilità il mobber – la personalità della
vittima (sulla scorta della irrilevanza delle concause preesistenti a
costituire esimente per la responsabilità da danni), così esprimendosi:«…un
ultimo cenno sia consentito di fare al punto delle condizioni soggettive
della vittima, al fine di escluderne qualsiasi rilevanza ai fini del
riconoscimento del diritto al risarcimento del danno patito. A suoi
eventuali stati individuali di particolare fragilità e sensibilità emotiva,
ed a sue precedenti sofferenze, per alterazioni fisiche o psichiche, non
potrà mai farsi riferimento al momento di valutare la responsabilità del
datore di lavoro per comportamenti rivelatisi idonei a ledere l’integrità
psichica, ovvero altri beni insopprimibili costituzionalmente garantiti,
quali la dignità personale. Non troverà dunque applicazione la nozione di
“violenza” dettata dal codice quale presupposto per l’annullamento dei
contratti, previsto dagli artt. 1434 e 1435 c.c., per cui questa deve essere
di natura tale da fare impressione su di una persona sensata e da farle
temere di esporre sé o i suoi beni ad un male ingiusto e notevole, avuto
riguardo all’età, al sesso ed alla condizione della vittima»[26].
Anche
nei recentissimi lavori parlamentari per l’eventuale emanazione di una
disciplina legislativa del mobbing, si assiste a nutriti emendamenti
tesi a sostituire termini teleologici del d.d.l. unificato in discussione
quali “comportamenti finalizzati” o “tesi a”, con terminologia
oggettivizzante espressa dagli aggettivi “idonei” o “atti a” ledere la
personalità morale del lavoratore (in analogia con la formulazione
antidiscriminatoria dell’art. 15 stat. lav., in cui è reperibile la dizione
“diretto a”). Perché, come ha insegnato il precedente delle sezioni unite,
quello che rileva è l’idoneità oggettiva ad arrecare pregiudizio e non si
vede per quale ragione in tale tematica – caratterizzata da lesioni di
diritti maggiormente protetti in quanto riconducibili nell’ambito degli
“inviolabili” dell’individuo - ci si debba discostare, in omaggio a
incomprensibile tolleranza, suscettibile di risultare ostativa nei confronti
di una auspicabile deterrenza alla reiterazione di una forma patologica di
concepire ed affrontare i rapporti interpersonali nell’ambiente di lavoro.
3. La non brillante e poco decifrabile opinione di Cass. n. 4774 del 2006
Completando l’accenno fatto in premessa alla decisione n. 4774/2006[27]che si
è occupata di esprimere talune considerazioni sul mobbing – riferite nella
motivazione riportata in premessa cui ancora si rinvia il lettore - essa è
giunta a conclusioni negatrici per una fattispecie in cui un dipendente di
un’azienda di credito adduceva il riscontro della fattispecie vessatoria, in
presenza di comportamenti aziendali (cui la Corte d’appello di Venezia aveva
negato le caratteristiche della reiterazione e della sistematicità,
indiziarie o meglio idonee a far risaltare oggettivamente per il magistrato
un carattere persecutorio). Comportamenti aziendali consistiti: in un
trasferimento, poi annullato per vizio di forma costituito dalla mancata
comunicazione dei motivi; in visite di idoneità (nell’arco di 10 mesi) alla
mansione, legittimate dai giudicanti in ragione delle protratte assenze per
malattia del lavoratore, la cui consistenza (duecento giorni) giustificava
il ricorso aziendale alle verifiche di idoneità ex art. 5 Stat. lav.;
nella mancata abilitazione di accesso ai terminali, anch’essa ritenuta
giustificata dai magistrati da problemi di continuità di inserimento del
dipendente nell’attività di aggiornamento dei dati, che perciò sottraeva
all’iniziativa aziendale la configurazione del carattere persecutorio;
nell’assegnazione del giudizio di qualifica di “insufficiente” e
nell’irrogazione di una sanzione disciplinare poi annullata dal collegio
arbitrale.
Comportamenti, invero, dannosi per il ricorrente ma talora adottati sulla
base di una inesatta diligenza e/o cognizione legislativa da parte aziendale
- per cui, dietro impugnazione, erano stati annullati perchè affetti da vizi
di forma (caso del trasferimento) -, talaltra legittimi (visite d’idoneità,
assegnazione discrezionale del giudizio di qualifica) e nel loro complesso
non idonei a far radicare nel convincimento del magistrato la messa in atto
da parte aziendale di un disegno persecutorio.
Nonostante la decisione non appaia particolarmente perspicua - in quanto
essa si astiene deliberatamente dall’entrare nel merito della rilevanza (o
meno) dell’elemento soggettivo o “intenzionalità” per il riscontro della
fattispecie del mobbing, (sebbene il richiamo al disegno persecutorio
aziendale sembri in qualche modo implicarlo) - la stessa non apporta alcun
elemento utile e chiaro al dibattito sulla rilevanza (o meno) dell’elemento
soggettivo (in via di abbandono sia in sede dottrinale che
giurisprudenziale, come innanzi evidenziato), talché non risulta in alcun
modo scalfita l’ opinione in precedenza da noi espressa in tema di asserita
ed argomentata “irrilevanza” dell’elemento soggettivo. Anzi la sentenza
della Cassazione alimenta la fondatezza della nostra opinione (condivisa,
come riferito, da autorevoli accademici, taluni tutt’altro che sospetti di
impostazioni ideologiche di favor lavoratoris), in quanto va detto
che dalla motivazione in diritto emerge spiccatamente il conferimento di un
rilievo pressoché esclusivo – soltanto temperato da accenni sub specie
di obiter dicta - all’aspetto “oggettivo” della cd. “idoneità
offensiva” o lesiva, insito nei comportamenti aziendali, che per la loro
sistematicità e reiterazione dovrebbero rivelare al magistrato un
“carattere” persecutorio (si noti bene, peraltro, come l’estensore eviti
accortamente di usare il sostantivo “intento” o “intenzionalità” che
sostanzierebbe, altrimenti e ben più palesemente, l’elemento cd.
“soggettivo”!).
Comunque quand’anche la si volesse interpretare come enfatizzante
dell’elemento “soggettivo”, allora la decisione risulterebbe non corretta
e/o incondivisibile, e non si sottrarrebbe quantomeno alle perplessità
giustamente avanzate da un valente studioso del mobbing e del danno
esistenziale che si è posto per l’occasione anche tra i primi commentatori
di essa[28].
Secondo questo interprete: «... la Corte, che pur in concreto esclude la
sussistenza del mobbing, riconosce proprio l’astratta valenza lesiva di
fattispecie complesse, che è indipendente dall’inadempimento di specifici
obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro
subordinato: secondo la sentenza, infatti, la sussistenza della lesione del
bene protetto e delle sue conseguenze dannose deve essere verificata
considerando l’idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che
può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo,
dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione,
risultanti specialmente da una connotazione emulativa e pretestuosa,anche in
assenza di una violazione di specifiche norme di tutela del lavoratore
subordinato.
Meno
chiara è la sentenza nell’individuazione dell’elemento unificante dei
singoli atti nella fattispecie complessivamente mobbizzante: infatti, se è
certa la rilevanza (confermata in sentenza) dell’intento soggettivo
persecutorio del datore di lavoro o dei colleghi di lavoro, più problematico
è ritenere che una situazione meramente oggettiva di discriminazione del
lavoratore o comunque di obiettiva lesione della personalità dello stesso
sia del tutto priva di rilevanza (come la pronuncia sembra quasi voler
presupporre), posto che l’obbligo di protezione del datore di lavoro
codificato all’art. 2087 c.c. ha portata generale e prescinde dagli stati
soggettivi dei soggetti agenti che recano pregiudizio all’integrità
psico-fisica ed alla personalità morale del lavoratore.A tal
fine, può essere utile richiamare le considerazioni della nota circolare
INAIL n. 71/03, circolare poi annullata da Tar Lazio per vizi non attinenti
strettamente alla problematica in discorso.
Ebbene, l’Inail ha ritenuto nella detta circolare che secondo
un’interpretazione aderente all’evoluzione delle forme di organizzazione dei
processi produttivi ed alla crescente attenzione ai profili di sicurezza e
salute nei luoghi di lavoro, la nozione di causa lavorativa consente di
ricomprendere non solo la nocività delle lavorazioni in cui si sviluppa il
ciclo produttivo aziendale (siano esse tabellate o non) ma anche quella
riconducibile all’organizzazione aziendale delle attività lavorative;
secondo l’Istituto, tuttavia, tali condizioni ricorrano esclusivamente in
presenza di situazioni di incongruenza delle scelte in ambito organizzativo,
situazioni definibili con l’espressione “costrittività organizzativa”, e
consistenti in una marginalizzazione dalla attività lavorativa, uno
svuotamento delle mansioni, una mancata assegnazione dei compiti lavorativi,
con inattività forzata, una mancata assegnazione degli strumenti di lavoro,
in ripetuti trasferimenti ingiustificati, in una prolungata attribuzione di
compiti dequalificanti rispetto al profilo professionale posseduto o per
converso di compiti esorbitanti o eccessivi anche in relazione a eventuali
condizioni di handicap psico-fisici, nell’impedimento sistematico e
strutturale all’accesso a notizie, nell’inadeguatezza strutturale e
sistematica delle informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro,
nell’esclusione reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative formative,
di riqualificazione e aggiornamento professionale, ed infine nell’esercizio
esasperato ed eccessivo di forme di controllo.
Si
tratta dunque di fattori di carattere obiettivo, di incongruenze
organizzative con caratteristiche strutturali, durature ed oggettive e, come
tali, verificabili e documentabili tramite riscontri altrettanto oggettivi e
non suscettibili di discrezionalità interpretativa; in ogni caso, di fattori
che rilevano, potendo integrare gli estremi del mobbing, quale che
sia l’elemento soggettivo del soggetto agente».
Comunque anche questa non brillante decisione – che potrebbe in astratto e
per quanto riferito lasciare spazio a difformi interpretazioni per carenza
di chiarezza – non può in alcun modo autorizzare operazioni (che
probabilmente non mancheranno di essere prospettate da parte di interpreti
sostenitori di posizioni rinvenibili eminentemente in organizzazioni di
tendenza imprenditoriali) volte ad onerare il lavoratore (ricorrente contro
comportamenti mobbizzanti) del compito di dimostrare (dopo essersi impegnato
ad allegare la sequenza oggettiva delle condotte presuntivamente illecite,
per incisività, sistematicità e reiterazione) l’intenzionalità persecutoria
e vessatoria datoriale lato sensu. Tale intenzionalità risiede – come
già detto - nella inaccessibile “mente” di terzi (il datore mobber, i
suoi preposti o i colleghi di lavoro side mobbers) e sarà il giudice
- in ragione degli elementi oggettivi o materiali strutturati dalla
tipicità, sistematicità, insistenza o reiterazione degli atti od omissioni
illecite – che potrà (sempreché lo ritenga opportuno) maturarne il
convincimento in ordine alla sussistenza. Ma dobbiamo precisare come la cd.
“intenzionalità” non costituisca - a nostro avviso ed in autorevole
compagnia - elemento strutturale “necessario” della fattispecie del
mobbing (anche se ne è spesso immanente), talché la sua ricerca non è
affatto indispensabile, né il mancato riscontro è impeditivo del ricorrere
di una fattispecie di mobbing, risultante esclusivamente o
eminentemente da una oggettiva consequenzialità di atti illegittimi o
illeciti, idonei a ledere la dignità della vittima, il rispetto del
mobbizzato in quanto portatore del valore “uomo”, la di lui personalità
morale, la sua professionalità specifica.
A conclusione va ripetuto che sono pacificamente condivisibili osservazioni
e considerazioni volte ad evitare il rischio di una dilatazione
incontrollata del mobbing, ma non è con l’espediente o tecnica
strumentale e subdola (oltreché scorretta) di onerare il presunto mobbizzato
della dimostrazione di una “probatio diabolica” razionalmente
impretendibile dalla vittima, incentrata sull’onere di documentare
l’intenzionalità persecutoria del mobber (cd. elemento soggettivo che
anima il vessatore e ne struttura l’animus nocendi) che se ne
realizza un effetto deflattivo. L’effetto della non dilatazione o
diffusività della fattispecie patologica nelle relazioni di lavoro si
realizza tramite provvedimenti, legislativi o contrattuali, che sanzionino
incisivamente tali pratiche incivili oltreché esiziali, in quanto
determinative di danno biologico ed esistenziale in capo al “soggetto
bersaglio”. Ed avendo la sensibilità e l’avvertenza sia da parte dei
lavoratori che dei magistrati giudicanti di tener presente, come è stato
correttamente osservato, che «non si può evidentemente pensare che ogni
screzio, o inurbanità, o scortesia, o persino qualsiasi maleducazione o
offesa, vengano attratte nell’imbuto cieco di una ipertrofia delle tutele
risarcitorie. E’ opportuno riservare la valutazione di illiceità alle
situazioni più gravi di patologia dell’organizzazione, al netto delle
ipersensibilità soggettive»[29].
Nello stesso senso Tar del Lazio, sez. III ter, 4 luglio 2005 n. 5454[30],
nella motivazione di annullamento della circ. Inail n. 71/2003, laddove
afferma che «non è legittimo, né
possibile ricondurre tutte le dinamiche delle relazioni di lavoro
all’interno di un’impresa alla c.d. “costrittività organizzativa”, giacché
essa non è certo la garanzia del “diritto” del lavoratore ad operare in un
ambiente professionale asettico, irenico o, comunque, cordiale, al più
potendosi pretendere comportamenti di buona fede da tutte le parti del
rapporto di lavoro, indipendentemente, quindi, dai dati caratteriali dei
singoli attori di quest’ultimo».
Con la conseguenza, anch’essa condivisibile, che condotta mobbizzante «può
essere considerata tale solo quando è oggettivamente persecutoria, mentre
onestà e buona fede vogliono che il lavoratore non pretenda nell’ambito del
rapporto di lavoro una situazione più facile di quella normalmente
sopportata nella vita quotidiana. Pertanto non possono essere considerate
illecite condotte avvertite come lesive dal lavoratore solo nell’ambiente di
lavoro oppure solo a causa della propria fragilità nei rapporti
interpersonali»[31].
Peraltro, in adesione all’orientamento delle sezioni unite (n.
13533/2001, cit.) che onerano il debitore (nel caso il datore di lavoro) –
in caso di lamentato e documentato inadempimento alle obbligazioni positive
di cui è creditore il lavoratore, sub specie di veder salvaguardata
ex art. 2087 c.c., la sua “personalità morale” oltreché la
sicurezza fisica -sarà il datore di lavoro che dovrà fornire la
prova liberatoria circa il carattere non persecutorio delle allegate
iniziative più o meno reiterate e sistematiche.
Nel convenire in precedenza con alcune considerazioni dottrinali a fini di
non dilatazione oltre misura della fattispecie del mobbing, preme
tuttavia precisare che la nostra condivisione non si spinge certo fino ad
aderire, peraltro, a considerazioni - se non irridenti quanto meno poco
sensibili - quali abbiamo altrove letto, finalizzate a marginalizzare il
mobbing o il danno esistenziale in ragione dell’inesistenza per il
lavoratore di un preteso “diritto alla felicità, tanto meno nel rapporto
di lavoro”
[32]
o costituite dalla gemella asserzione secondo cui «il
prestatore di opere non ha alcun diritto ad essere felice e, anzi, come in
ogni altro ambiente basato su relazioni continuative, l’azienda stessa è
luogo di continui conflitti e tensioni, in parte inevitabili e prevenibili
mercé sfoggio di virtù morali ed umane che non sono oggetto di obbligo
giuridico. Il diritto del lavoro non interferisce con questi aspetti
dell’organizzazione e tanto meno impone comportamenti corretti dal punto di
vista etico. – omissis – . L’illecito non coincide con quanto è sgradevole
sul piano morale e, per converso, il datore di lavoro che opera nella
legittimità non deve essere di necessità un buon organizzatore dell’azienda
ed un attento psicologo nello scrutare nell’animo dei suoi collaboratori.
L’azienda è una formazione sociale “necessitata”, proprio perché la
convivenza umana è in sua natura poco gradevole ed oggetto di un obbligo,
derivante dal contratto di lavoro»[33].
Ad
esse si può, infatti, agevolmente replicare che nel rapporto di lavoro il
prestatore non si illude certamente di traguardare la c.d. inesistente
“felicità” terrena ed è perfettamente in grado – salvo che non sia o lo si
faccia passare da psicolabile - di distinguere la carenza di cordialità
dalle vere e proprie vessazioni. Infatti non ci stancheremo mai
dall’evidenziare e ribadire che i lavoratori “normali” (e quelli che abbiamo
conosciuto nelle nostre diversificate esperienze), in azienda pretendono
solo il rispetto di sé, della loro dignità, della propria immagine e
professionalità oltre a ripromettersi (come la Costituzione legittima e
riconosce) tentativamente e secondo un’aspettativa umanamente giustificata,
di ricevere - alla pari dei loro colleghi - gratificazioni dal proprio
impegno produttivo. Giacché l’azienda è una tipica formazione sociale (cfr.
art. 2 e 41, 2 co., Cost.), assorbente del tempo di vita e strumentale per
le aspirazioni professionali del lavoratore e non può che essere naturale
sede di auspicabile realizzazione (piuttosto che di mortificazione, talora
frutto di studiata strategia espulsivo-demolitiva o di omessa vigilanza sul
rispetto dell’obbligazione legale protettiva) dei valori immanenti
all’individuo/persona umana, qualificati inviolabili da un attento e più
sensibile Costituente, al cui impegno ed operato (estrinsecatosi nella
nostra Carta costituzionale) la maggioranza del popolo italiano ha
riconfermato la propria affezione ed espresso la propria riconoscenza,
attraverso una riconferma di piena attualità della Carta del 1948 sancita
dagli esiti del referendum del 25-26 giugno 2006, che suona quale esplicito
divieto per il legislatore ordinario di apportarvi prospettati e incondivisi
stravolgimenti.
Mario
Meucci - Giuslavorista
P.S. - Quando si menziona
"questa Rivista" si intende "D&L, Riv. crit. dir. lav."
[1]
In D&G, quotidiano telematico del 22.10.2005 nonché nel
nostro manuale «Danni
da mobbing e loro risarcibilità»,
Roma, Ediesse, 2006, 86 e ss.
[3]
In questa Rivista 2006, 473, con nota di S. Huge, preceduta
da nostro articolo «La
prova del danno da demansionamento:epilogo apparente», ivi
2006,369, cui adde, ancora da parte nostra,
«No a ingiustificate diversificazioni
degli oneri probatori del danno non patrimoniale» nel sito del prof.
P. Cendon, www.personaedanno.it/ (sezione Danni: danni non
patrimoniali, disciplina).
[4]«Il
mobbing senza veli», in Dir. rel. ind. n. 4/2005, 1051 e ss.,
concetto ripetuto in «Mobbing: qualificazione, oneri probatori e
rimedi», in Mass. giur. lav. 2006, 9.
[5]«Il
mobbing: l’illecito e il danno»,
in P.Tosi (a cura di), «Il mobbing»
(quaderno Cesifin n. 16), Torino 2004.
[10]
La ricerca o dimostrazione di
sussistenza del cd. dolo specifico (finalità di estromettere il
lavoratore dall’azienda inducendolo alle dimissioni per
insostenibilità psicologica della permanenza in servizio) o generico
(intento di danneggiare l’equilibrio psichico del dipendente da
parte del mobber o mobbers) ha determinato il rigetto
dei ricorsi dei ricorrenti da parte di Trib. Como 22.5.2001 (est.
Fargnoli), in Lav. giur. 2002, 73 (con nota di Ege) e in
Orient. giur.lav. 2001,I, 277 (con nota di Quaranta), nonchè da
Trib. Como 22.2.2003 (ancora est. Fargnoli), in Mass. giur. lav.
2003, 328 (con nota di Beretta) in cui l’estensore si ripete con più
ampiezza, prospettando la tesi che il mobbing, oltre a richiedere
l’elemento soggettivo dell’intenzionalità lesiva, sia a connotazione
pluripersonale, quando invece gli psicologi del lavoro indicano che
possa essere pacificamente causato altresì da un unico soggetto
vessatore. Ad analoghi risultati negativi per i ricorrenti per la
mancata prova dell’elemento psicologico o soggettivo, Trib. Milano
20.5.2000, in Lav. giur 2001, 367 (con nota di Nunin), nonchè
Trib. Bari, 20 febbraio- 12 marzo 2004 (est. Rubino), in D&G
n. 15/2004 e in
http://dirittolavoro.altervista.org/sentenza_nomobbing_bari.pdf, e ivi nostra nota dal titolo
«I nei della sentenza». Le opinioni
restrittive rinvenibili in queste quattro sentenze (risultanti del
tutto isolate in un quadro giurisprudenziale dominante, più aperto e
condivisibile) sono caratterizzate dal vizio di configurazione del
mobbing come caratterizzato da due elementi: un elemento oggettivo o
materiale (comportamento mobbizzante) e uno soggettivo o psicologico
o intenzionale (volontà di vessare o espellere il mobbizzato), la
cui prova è qualificata “indefettibile” da Trib. Bari 12 febbraio
2004, cit., quando invece – secondo noi (e da altri
autorevoli accademici) – quest’ultima non è richiedibile (quantomeno
alla vittima). Risulta infatti del tutto sufficiente il riscontro
della sola oggettiva “idoneità lesiva” della dignità, immagine ecc.,
da parte delle iniziative vessatorie, indipendentemente dal fatto
che esse siano state deliberatamente (o meno) inflitte a fini di
pregiudicare l’equilibrio psichico del soggetto, della cui prova
liberatoria è invece onerato il datore di lavoro in presenza di
allegate vessazioni (più o meno) reiterate, sistematiche o
insistite, con valenza spregiativa professionalmente o spiccatamente
irrispettosa dal lato umano, che strutturano per il giudicante la
presunzione del ricorrere di un cd. “disegno persecutorio” per
indizi precisi, gravi e concordanti, ex art. 2729 c.c.
[16]
In questo stesso senso G. Buffone,
«Mobbing? Inadempimento all’obbligo di sicurezza»,
in Consulenza, Buffetti ed., n. 23/2006, 53 e ss e Id.:
«Mobbing: Il fine illecito si realizza anche mediante atti leciti»,
ivi, n. 24/2006, 74 e ss., ove esprime altresì l’opinione
(conforme alla nostra) che : «.... tale fenomeno (il
mobbing, n.d.r.), integra (come esplicitato da Cass. n.
12445/06, n.d.r.), gli estremi di un inadempimento contrattuale.Ne discende, sul piano propriamente processuale, che deve essere
messo in mora quell’orientamento giurisprudenziale al seguito del
quale spetta al lavoratore fornire prova dell’elemento soggettivo
dell’illecito datoriale. Questo, infatti, ai sensi dell’art. 1218
c.c. grava sul datore di lavoro, ammesso a fornire la prova
liberatoria».
[18]
Così da una relazione del dr. R.
Gilioli, primario del Centro per le patologie stress
correlate e mobbing della Clinica del lavoro “L. Devoto”
dell’Un. di Milano, la prima e più avanzata nella diagnosi del
mobbing.
[19]
S. Mazzamuto, «Il mobbing»,
Milano 2004, 76-77.
[20]
Così A. Vallebona, «Il mobbing senza
veli»,
in Dir. rel. ind., loc.cit., 1052 e ss., concetto
ripetuto dall’autore in «Mobbing: qualificazione, oneri probatori e
rimedi»,
in Mass. giur. lav., cit. , 9 .
[22]
S.
Banchetti, «Mobbing, danni alla persona
del lavoratore e strumenti di tutela»,
in www.personaedanno.it, 2005, 5; S. Banchetti, «Il mobbing»,
in “Trattato breve dei nuovi danni” (a cura di Cendon P.), Cedam,
Milano, 2001, 2082; H. Ege, nota critica a Trib. Como 22.5.2001, in
Lav. giur., 2002,76; A. Gaspari, «Emergenza mobbing. Le
coordinate del problema»,
in Lav. prev. oggi, 2002, 423. Contra: U. Oliva,
«Mobbing: quale risarcimento?»,
in DResp., 2000, 27 - ma, diversamente, U. Oliva, «L’avvocato
e i profili giuridici del mobbing»,
in Lav. giur. 2003, 332 - Trib. Como 22.5.2001, in Lav.
giur., 2002, 73; Orient. giur. lav., 2002, 277, (“rimasta
peraltro sostanzialmente isolata”, così Banchetti, cit.
2005, 5).
[23]
«Il mobbing e il risarcimento del
danno: quando le sentenze anticipano le norme»,
in D&G, n. 9, 2005, 55. A favore della concezione cd.
“oggettiva” – ossia per la sufficienza ed idoneità delle azioni
mobbizzanti ad arrecare pregiudizio, indipendentemente dall’indagine
sulla volontà o intenzionalità (o elemento psicologico) del
mobber – vedi R. Scognamiglio, «A proposito di mobbing»,
in Riv. it dir. lav., 2004, I, 503-505, che sottopone a
critica la cd. “concezione “soggettiva” verso al quale sembra
propendere P. Tullini, in «Mobbing e rapporto di lavoro. Una
fattispecie emergente di danno alla persona»,
in Riv.it.dir. lav. 2000,I, 256 e ss., secondo la quale la
ricerca dell’intento vessatorio cioè a dire del motivo illecito
determinante consentirebbe di dilatare il campo di applicazione del
mobbing, opinione invece correttamente contrastata da
Scognamiglio che opta per la tesi “oggettiva” secondo cui : «appare
sufficiente per la ricorrenza , e la rilevanza del fenomeno che la
sequenza di atti e comportamenti contrastanti con gli interessi e le
esigenze del lavoratore assuma una valenza persecutoria, in cui
risulta implicito, per tagliare corto alla questione, il
perseguimento di una finalità illecita».
[24]
Così in «Mobbing: profili civilistici e
giuslavoristici»,
in Mass. giur. lav. 2006, 5.
[25]
Così in « A proposito del mobbing»,
cit., 504-505.
[26]
Così R. Sanlorenzo, nella decisione di
Trib. Torino 18 dicembre 2002 (in
http://dirittolavoro.altervista.org/trib_sanlorenzo.html) la cui precisazione costituisce
una implicita replica alla tesi sostenuta da P. Tullini, in
«Mobbing e rapporto di lavoro»,
in Riv. it. dir. lav. 2000, I, 257 e ss., tesi (del cd.
“correttivo” ex art. 1434 c.c.) già criticata anche da R.
Scognamiglio, in, «A proposito di mobbing»,
cit., 503-505.
[28]
F. Buffa, «Cenni sul problema del
mobbing da atti formalmente leciti e sull’ambito dell’obbligo
datoriale di protezione del lavoratore (in nota a Cass. sentenza
4774/06)»,
in www.personaedanno.it/
(sezione Lavoro, mobbing).
[32]
Cfr. Agrifoglio, in Vallebona, op.
cit. nt. 15.
[33]
Cfr. E. Gragnoli, rel. al Convegno “Il
Mobbing”, Centro Studi D. Napoletano, Cosenza 12.4.2003, ripresa da
Trib. Bari 20.2. – 12.3.2004 (est. Rubino), cit.