Il riscatto della posizione previdenziale maturata, in
caso di scioglimento del Fondo di previdenza integrativa
Sommario:
La libertà di recesso unilaterale dai
contratti ad esecuzione continuata senza prefissione di termine
I c. d. diritti acquisiti quale limite alla
modificabilità delle obbligazioni
contratte dall’Azienda mediante l’istituzione contrattuale di un Fondo di
previdenza complementare
Il diritto del lavoratore, sia in caso di
scioglimento del Fondo che di trasferimento ad altro, al riscatto della
posizione previdenziale individuale e relativa nozione sia per i nuovi che
per i vecchi iscritti a Fondi ante
D. Lgs. n. 124/1993
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1.
La libertà di recesso
unilaterale dai contratti ad esecuzione continuata senza prefissione di termine
Vistosi disavanzi ed esigenze di riduzione degli oneri da costo del
lavoro (in senso lato) hanno indotto, negli ultimi anni, diverse aziende
prevalentemente del settore del credito (ma non solo) a recedere dai contratti
tramite cui, d’intesa con le OO.SS., avevano dato vita molti decenni addietro alla costituzione di Fondi di
previdenza complementare, integrativi della previdenza pubblica gestita
dall’Inps.
I problemi che si sono subito
posti sono stati i seguenti:
a)
può un
soggetto recedere unilateralmente da un contratto costitutivo di impegni, allo
scopo di sottrarsi all’onerosità dei medesimi o deve ricercare necessariamente
una soluzione consensuale con l’altro contraente (nel caso le OO.SS.) con il
quale congiuntamente ha pattuito l’iniziativa?
b)
quali sono
i diritti acquisiti intangibili per i
lavoratori dai quali il recedente non
può sottrarsi e, nel caso in cui i lavoratori non abbiano maturato i requisiti
pensionistici stabiliti dalla fonte collettiva, cosa spetta loro a seguito
della cessazione di operatività del Fondo (di norma alimentato da contribuzione
del lavoratore e dell’azienda). Spetta solo l’accantonamento costituito dai
contributi individuali versati dal lavoratore o l’intera posizione contributiva costituita anche dai contributi
versati dall’azienda – nel caso di Fondi a contribuzione mista – atteso che
molte norme dei regolamenti limitano la spettanza alla sola quota
individualmente versata mentre i versamenti aziendali resterebbero acquisti dal
c.d. “fondo di riserva” a beneficio di tutti gli iscritti?
La decisione del Tribunale di Rieti del 4
luglio 2000 (in Lavoro e previdenza Oggi, 2001, n. 3-4, p. 389) si imbatte
in tutte e due le problematiche innanzi elencate e perviene alle soluzioni
riassunte nella massima – da noi elaborata – che di seguito riportiamo:
“Il recesso unilaterale rappresenta una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a
tempo indeterminato, rispondendo all’esigenza di evitare la perpetuità del
vincolo obbligatorio, la quale è in sintonia
con il principio di buona fede nell’esecuzione del contratto . Da ciò si
desume la normale recedibilità dai contratti collettivi di diritto comune
stipulati senza l’indicazione del termine finale, salvi – tuttavia – i diritti
che siano entrati nel patrimonio dei lavoratori per aver questi posto in essere
le condizioni che vi danno titolo.
Poiché
l’operatività del recesso non può influire né sulla posizione di coloro che,
avendo maturato i requisiti ed esercitato il diritto, hanno ormai conseguito il
previsto trattamento pensionistico aziendale, né sulla posizione di coloro che
hanno maturato i requisiti per il trattamento pensionistico ma non hanno ancora
esercitato il relativo diritto previo proprio collocamento a riposo (posizioni
entrambe riconducibili alla nozione di “diritti quesiti”), ma non può avere
effetto neppure sulla posizione di coloro che, pur avendo maturato i requisiti
per il trattamento aziendale, sono parte della fattispecie a formazione
progressiva, costitutiva di capitale in via di accumulo, vincolato a beneficio
di tutti gli iscritti al fondo ai sensi dell’art. 2117 c.c., per quest’ultimi
(lavoratori ancora in servizio ma che
hanno già maturato i requisiti minimi
contributivi, 10 anni, nella specie,
ed anagrafici,60 anni nel 1996
elevati ex lege a 62), il recesso non
implica l’azzeramento del capitale ma importa il diritto ad ottenere gli
accantonamenti effettuati per essi dalla banca fino al momento del recesso (ex
art. 18, comma 7, D. Lgs. n. 124/’93).
La tesi della libera
recedibilità dai contratti ad esecuzione continuata o periodica sembra essere
oramai accreditata anche in campo dottrinario, ove, facendo leva sul comma 2°
dell’art. 1373 c.c. (secondo cui, nei contratti ad esecuzione continuata o
periodica, la facoltà di recesso unilaterale può essere esercitata anche
successivamente all’inizio dell’esecuzione, fermo restando che il recesso non
ha effetto per le prestazioni già eseguite o in corso di esecuzione) si
asserisce che lo stesso articolo sancirebbe il principio della libera
recedibilità dal contratto di durata, indipendentemente da previsioni legali o
convenzionali contemplanti la facoltà di recesso.
Ne è sortito il convincimento,
anche in sede giudiziaria, che il principio della libera recedibilità
unilaterale dal contratto collettivo a tempo indeterminato – pure in mancanza
di un’espressa previsione legale o contrattuale – appare in sintonia con il
principio di buona fede nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.) ed è
altresì coerente con la particolare struttura del rapporto che non può
vincolare le parti senza limiti, in contrasto con la naturale temporaneità
dell’obbligazione.
“Nei contratti di durata, la
recedibilità sta ad esprimere l’inconcepibilità di rapporti a carattere
perpetuo e costituisce l’espressione di un principio generale valido per tutto
l’ordinamento…Si tratta di affermazioni che , oltre ad essere coerenti con lo
sfavore dell’ordinamento nei confronti dei vincoli di durata perpetua,
rispondono altresì all’essenziale struttura e funzione del contratto, quale
strumento di composizione di contrapposti interessi fondati sulla comune
volontà delle parti” (2).
In sostanza si è finito per invertire quel ragionamento
(giudicato errato) secondo cui se manca una espressa previsione di recesso, il
recesso unilaterale sarebbe inibito e necessiterebbe la consensualità. Secondo l’orientamento
dottrinario e giurisprudenziale, la regola delle obbligazioni sarebbe quella
della temporaneità del vincolo nei rapporti di durata senza prefissione di
termine, con la conseguenza che, qualora i contraenti non si sono vincolati –
pattuendo una determinata durata, con la relativa scadenza – sarebbe affidata
alla volontà degli stessi la continuità (o meno) del vincolo, nel senso che il
permanere dell’assetto convenuto si giustificherebbe finché dura la “comune
volontà” delle parti di mantenerlo tale anche per il futuro. Nel caso in cui la
“comune volontà” venga meno (anche da una sola delle parti), si giustifica e si
legittima il recesso unilaterale che pone fine al pregresso assetto
contrattuale e si autorizza la rinegoziazione o il ritiro (o rinunzia)
definitiva. Secondo dottrina, la mancata predeterminazione del termine finale
non avrebbe la conseguenza della continuità del vincolo ma sarebbe indicativa,
all’opposto, di una precisa scelta delle parti: quella di non vincolarsi
reciprocamente per un periodo prestabilito e di conservare, al contrario, la
facoltà di valutare, nel tempo, se l’assetto negoziale concordato continui a
soddisfare gli interessi di ciascuna. Cosicché sarebbe addirittura precluso –
sempre secondo dottrina (3) – il controllo dei motivi per cui il recesso viene
esercitato costituendo il medesimo un vero e proprio diritto potestativo,
nell’assetto in cui la libertà del recesso rinviene automaticamente, per
entrambe le parti, per effetto del
carattere indefinito della durata del contratto cui è connaturata la
temporaneità del vincolo obbligatorio e non già – come altri immotivatamente
presumono – la perpetuità del medesimo.
Questi principi generali ben si attaglierebbero al contratto collettivo senza prefissione di durata – caratterizzato, quindi, dalla libertà di recesso di ciascuna delle parti, al mutare del contesto in cui l’assetto di interessi venne regolato – con la conseguenza che “la situazione che si determina con l’esercizio della facoltà di recesso finisce per essere equivalente a quella che si verifica in caso di scadenza del termine…in ragione della non ultrattività del contratto collettivo di diritto comune, cui non è applicabile l’art. 2074 c.c.”(4) e cioè a dire, la situazione occasionerà la rinegoziazione dei rapporti in vista di realizzare un nuovo assetto o regolamento, più aderente alle mutate situazioni di una o di entrambe le parti.
2. I c. d. diritti
acquisiti quale limite alla modificabilità
delle obbligazioni contratte dall’Azienda mediante l’istituzione contrattuale
di un Fondo di previdenza complementare
La Cassazione – nella sentenza n. 6427/1998 cui si è
uniformata la successiva Cass. n. 689/2000 (5) – si è fatta carico anche di esaminare le conseguenze
discendenti dal consentito esercizio unilaterale della facoltà di recesso da un
contratto collettivo istitutivo di un Fondo di previdenza complementare, finendo per inserirsi
indirettamente nella problematica dei c.d. “diritti quesiti” in caso di
successione di contratti collettivi.
Ed al riguardo Cass. n. 6427/1998 perfeziona sul tema dei
diritti quesiti – in caso di successione di contratti collettivi –
l’orientamento giurisprudenziale espresso in precedenza da Cass. 27.8.1997 n.
8098 (6), i cui capisaldi consistettero nell’affermazione dei seguenti principi:
a)
innanzitutto la nozione di “diritti quesiti” è
riferibile solo al caso di successione di norme di legge, non alla
fattispecie della successione di contratti che è retta e regolata dal principio
della libera volontà delle parti;
b)
il contratto collettivo
successivo temporalmente non modifica l’assetto precedente, ma sostituisce una
nuova e valida regolamentazione al posto di quella divenuta inefficace per
scadenza del termine o per volontà delle parti stipulanti;
c)
nel caso di successione
di contratti collettivi, le nuove disposizioni non si incorporano nel contenuto
dei contratti individuali dando luogo a diritti acquisiti sottratti al potere
dispositivo dei sindacati, ma operano dall’esterno sui singoli rapporti di
lavoro come fonte autonoma di disciplina soggetta a modificazioni ad opera
degli agenti negoziali originari;
d)
pur tuttavia non è
affermabile – anzi va negata – la illimitata modificabilità della disciplina
collettiva, in quanto il contratto collettivo non può incidere su diritti sorti
in virtù di un precedente contratto
collettivo, per l’avvenuto perfezionamento delle fattispecie costitutive ad
esso corrispondenti o comunque per effetto di prestazioni già eseguite, com’è
il diritto ad una determinata prestazione pensionistica integrativa sorto alla
cessazione del rapporto, sulla base dei requisiti contemplati nella previgente
disciplina contrattuale (7);
e)
tali diritti acquisiti
non possono, pertanto, essere
influenzati dalla stipulazione di
successivi contratti collettivi, a meno che i lavoratori interessati non
abbiano conferito specifico mandato alle OO.SS., o ne abbiano ratificato
l’attività negoziale ovvero abbiano prestato acquiescenza alla nuova
regolamentazione introdotta con il successivo ccnl.
A
queste conclusioni o principi, Cass. n. 6427/1998 addiziona significativamente
una importantissima puntualizzazione, poi ripresa anche da Cass. n. 689/2000,
consistente in quella che subito di seguito riferiamo.
I
titolari dei c.d. “diritti quesiti” (immodificabili da successive normative
contrattuali collettive) – hanno detto Cass. n. 6427/’98 e Cass. n. 689/2000 –
non sono necessariamente ed esclusivamente coloro che sono già titolari di
pensione integrativa per aver fatto
domanda della relativa prestazione o essersi già collocati in
quiescenza. Sono anche coloro che sono ancora in servizio ma che hanno già
maturato i requisiti contributivi ed anagrafici previsti dalla fonte collettiva
istitutiva del Fondo, senza necessità che abbiano – per l’appunto – presentato
domanda per ricevere la prestazione
pensionistica o si siano già collocati a riposo, fruendola. La Cassazione,
quindi, sgancia l’acquisizione del diritto
al trattamento pensionistico integrativo immodificabile dall’evento della cessazione
del rapporto, riconoscendolo anche a coloro che, pur essendo ancora in
servizio, abbiano già maturato i requisiti contributivi ed anagrafici previsti
dalla fonte contrattuale istitutiva del Fondo.
Inoltre
la Cassazione – nelle due decisioni innanzi citate, al cui pensiero si adegua,
anzi pedissequamente riproduce, Tri. Rieti 4 aprile 2000 (in commento) –
introduce un ulteriore limite alla libertà di modifica degli effetti di un
Fondo dal quale una delle parti sia receduta e venga posto in liquidazione. La
garanzia discende dall’art. 2117 c.c., che tutela le posizioni di coloro che –
non avendo ancora maturato i requisiti per il trattamento aziendale – sono
tuttavia parte di quella fattispecie a formazione progressiva costitutiva di
capitale in via di accumulo, vincolato a beneficio di tutti gli iscritti. Per
essi deve escludersi – dice la Cassazione – “l’azzeramento del capitale”
versato e deve invece procedersi a verificare la consistenza degli effetti
dell’accantonamento.
3. Il diritto del lavoratore, sia in caso di scioglimento del
Fondo che di trasferimento ad altro, al riscatto della posizione previdenziale
individuale e relativa nozione, sia per
i nuovi che per i vecchi iscritti a Fondi
ante D.Lgs. n. 124/1993
Oltre alla garanzia della non
distrazione del capitale accumulato ad
altri e diversi fini – garanzia discendente dall’art. 2117 c.c. – viene da
chiedersi quali siano i diritti dei lavoratori in servizio che non abbiano
ancora maturato i requisiti contributivi (di norma 5,10 o 15 anni di versamenti)
e anagrafici (di norma 60 e 55 per le donne, elevati dal 2000, ex lege
n. 335/1995, a 65 per l’uomo e 60 per le donne) previsti dalle normative dei
vari Fondi di previdenza integrativi ante D.Lgs. n. 124/1993.
La
soluzione è agevole per i fondi di
natura contributiva, costituiti dopo l’entrata in vigore del D. Lgs. n.
124/1993 (cioè dal 28 aprile 1993 in poi), in quanto l’art. 10 prevede
espressamente il diritto al riscatto (ed al trasferimento) della posizione
individuale, ove per “posizione individuale” maturata, il comma 3 bis
(introdotto dall’art. 10 L. n. 335/1995 nel testo dell’art. 10 D. Lgs. n.
124/’93) prevede e chiarisce trattarsi della “intera” posizione individuale,
evidentemente e pacificamente
costituita dalla sommatoria dei contributi versati dal singolo e dall’azienda
(8). Formula che dottrina (9) riconosce
“coerente con la ratio di maggior tutela individuale (giacché sarebbe in
contrasto con il favor per la concorrenza disincentivare la
circolazione, consentendo ai fondi di penalizzare i trasferimenti)”. D’altra
parte che la “posizione individuale maturata” sia comprensiva della quota o accantonamento aziendale lo si desume inequivocamente dal
diritto accordato dal comma 3 ter dell’art. 10 D. Lgs. n. 124/’93
(anch’esso introdotto dall’art. 10 L. n. 335/’95) che, per il caso di morte
dell’iscritto prima del pensionamento di vecchiaia stabilisce che “la
posizione individuale dello stesso – determinata ai sensi del comma 1 – è
riscattata dal coniuge ovvero dai figli ovvero, se viventi a carico
dell’iscritto, dai genitori. In mancanza di tali soggetti la posizione resta
acquisita dal fondo”, salva in tale ipotesi la facoltà, introdotta
successivamente dall’art. 58, co. 8°, lett. c), L. n. 144/1999, per il
lavoratore di disporre in via testamentaria addirittura a favore di terzi,
facoltà che riproduce quella introdotta da Corte cost. n.8/1972 in relazione
alle indennità per morte, ex art. 2122 c.c.
Le
norme, pertanto, che valgono per l’ipotesi del trasferimento – cioè a dire la
spettanza dell’integrale posizione contributiva, costituita dal montante
dei versamenti del lavoratore e dell’azienda
discrezionalmente spostabile in altro fondo in omaggio a criteri di
ricerca di miglior rendimento e di concorrenza – valgono anche per l’ipotesi
del riscatto in caso di scioglimento del fondo, giacché l’art. 11 del citato D.
Lgs. n. 124/1993 rinvia, al co.1°, alle “disposizioni dell’art. 10” e
cioè a dire alle norme vigenti per il trasferimento e riscatto in genere.
Per i vecchi iscritti alle forme
di previdenza complementare preesistenti al D. Lgs. n. 124/’93, le regole e le spettanze sono identiche in quanto
l’art. 18 – che dei fondi ed iscritti preesistenti si occupa – non contempla al
comma 7, fra le norme escluse espressamente dall’applicazione, gli artt. 10 e
11 del D. Lgs. n. 124 (articoli che giustappunto si occupano del trasferimento
e del riscatto sia in generale sia per l’ipotesi di scioglimento del Fondo),
con la conseguenza della loro indiscutibile applicabilità.
La
spettanza del riscatto della integrale posizione previdenziale
(sommatoria della contribuzione individuale e aziendale) discende poi anche
dalla natura di “retribuzione differita” in funzione previdenziale dei
versamenti aziendali, latamente corrispettivi della prestazione lavorativa. Ha
stabilito correttamente Cass. 21 gennaio 1998, n. 524 (10) che “quando il
regime previdenziale aziendale ha funzione integrativa del regime pubblico, i
contributi devono essere considerati come retribuzione differita in funzione
previdenziale: una parte della retribuzione viene accantonata durante il
rapporto di lavoro per essere erogata al termine di esso e costituisce in
sostanza un trattamento di fine rapporto”, del quale non è possibile
espropriare il lavoratore, con la conseguenza della invalidità delle clausole
regolamentari o negoziali che prevedano l’esclusione per il lavoratore dalla
percezione degli accantonamenti aziendali in suo favore. Come nota,
condivisibilmente, Dondi: “poichè non è possibile sostenere che il
lavoratore possa essere legittimamente privato in via definitiva della
retribuzione accantonata e differita in forma di t.f.r., ad identica
conclusione deve giungersi per la
contribuzione accantonata a fini
di previdenza complementare, cosicché il riscatto (o il trasferimento) della
posizione previdenziale deve necessariamente comprendere anche quest’ultima” (11).
Per
quanto concerne poi i Fondi non contributivi ma c.d. “a ripartizione”, le
conclusioni – a nostro avviso – sono identiche con la sola necessità di
ricorrere a consulenza attuariale per l’individuazione della posizione
previdenziale individuale complessivamente maturata dai lavoratori (attesa la carenza di sottoconti A, riepilogativi
della contribuzione del dipendente e di sottoconti B, riepilogativi degli accantonamenti
aziendali individuali).
(pubblicato
in Lav. prev. ggi, 2001, 3-4, 249)
(1)
In Mass. giur. lav.
1998, 557 con nota di Molteni, Recedibilità dai contratti collettivi e
salvaguardia dei diritti quesiti in tema di previdenza complementare. In
senso conforme alla liceità della disdetta
unilaterale per eccessiva onerosità nei
contratti senza prefissione di termine finale, v. Cass. 20.9.1996, n. 8360, in Not.
giurisp. lav. 1997, 5; Cass. 9.6.1993, n. 6048, in Mass. giur. lav.
1993, 414; Cass. 16.4.1993, n. 4507, ibidem, 1993, 322. In senso
contrario, Cass 12.2.1990, n. 987 (in Mass. giur. lav. 1991, 388, con
nota di Sandulli, Disdettabilità di accordi collettivi e prestazioni
pensionistiche complementari) secondo cui il recesso unilaterale da un
contratto collettivo non sarebbe consentito alle parti in assenza di una
esplicita previsione legale o convenzionale.
(2)
In tal senso Molteni, op. cit., 558 che a conforto cita
Galgano, Il negozio giuridico, Milano 1988, 134; Mirabelli, Dei
contratti in generale, Torino 1980, 2097; Bianca, Il contratto,
Milano 1984, 705; Mancini, Il recesso unilaterale e i rapporti di lavoro,
Milano, 1962; Sangiorgi, Rapporti di durata e recesso ad nutum, Milano
1965.
(3)
Rescigno, Contratto
collettivo senza predeterminazione di durata e libertà di recesso, in Mass.
giur. lav. 1993, 576, e ss.
(4)
Così Molteni, op. cit.,
559; contra, Cass. 22.4.1995, n. 4563, in Mass. giur. lav. 1995,
552, con nota di Santoni, Sulla controversa ultrattività dei contratti
collettivi.
(5)
In Mass. giur. lav. 2000, 271, con nota di G.G., La
previdenza complementare tra legge e contrattazione:i diritti quesiti.
(6)
In Mass. giur. lav.
1997, 791, con nota di Liebman, Successione di contratti collettivi e limiti
al potere dispositivo dell’autonomia collettiva: una nuova conferma in materia
di trattamenti pensionistici integrativi.
(7)
In tal senso, espressamente, Cass. 11.11.1988, n. 6116, in Not.
giurisp. lav. 1989, 109.
(8)
In tal senso, correttamente, interpreta Dondi, Il ‘riscatto
della posizione individuale’ presso fondi pensionistici preesistenti alla
riforma del 1993, in Mass. giur. lav. 2000, 1085 e ss. ed ivi 1086,
secondo cui: “la formulazione è
inequivocamente riferita all’integrale montante contributivo (compreso il
finanziamento datoriale)”. Conf. Vianello, in AA.vv. La riforma del
sistema pensionistico, a cura di Cester, Torino 1996.
(9)
Così ancora Dondi, op. cit. 1086.
(10) In Mass. giur. lav. 1998, Mass. Cass., p. 29, n. 91(s.m.);
conf. Persiani, Diritto della previdenza
sociale, Padova 1993, 31-32.
(11) Dondi, op. cit. 1088.
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Cass. 5 giugno 2007, n. 13111- Pres. Ciciretti — Est. D’Agostino - P.M. Patrone (concl. conf.)— R.F. c. Unicredito Italiano S.p.A.
Previdenza complementare - Fondi a ripartizione preesistenti al d.lgs. 124/1993 - Diritto al riscatto della posizione individuale – Sussistenza - Quota di contribuzione a carico dell’azienda - Riscattabilità.
Il diritto di riscatto previsto dall’art. 10 del d.lgs. n. 124/1993 trova applicazione immediata anche rispetto ai fondi preesistenti a ripartizione, non rientrando tra gli istituti inapplicabili a tali fondi ai sensi del successivo art. 18.
In tema di previdenza complementare, le tre opzioni stabilite dall’art. 10, d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124 (trasferimento del capitale accumulato ad altro fondo «chiuso», trasferimento ad un fondo «aperto», riscatto) in favore degli iscritti che abbiano cessato il rapporto senza maturazione del diritto a pensione in epoca successiva all’entrata in vigore della legge stessa, si applicano all’intera posizione individuale, che comprende tutti gli accantonamenti previsti dall’art. 8 di detto decreto, sia del lavoratore, sia del datore di lavoro, effettuati anche nel periodo antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 124 del 1993, anche nel caso in cui gli statuti dei fondi prevedano modalità di rimborso dei capitali accantonati difformi dalla norma legale.
Svolgimento del processo. — Con ricorso al pretore di Bologna del 30 dicembre 1998, Ru. Fe., dirigente del Cr. Ro. a riposo dal settembre 1997, esponeva: che il Cr. Ro. aveva costituito un fondo pensionistico aziendale, da ultimo regolamentato con accordo sindacale del 31 gennaio 1990, alimentato da contributi sia del datore di lavoro che dei lavoratori, al quale egli era iscritto; che a seguito delle sue dimissioni aveva esercitato il diritto di riscatto della sua posizione contributiva maturata nel fondo; che la Banca non gli aveva pagato la quota corrispondente ai versamenti a carico del datore di lavoro, in base ad una clausola del regolamento pensionistico aziendale per la quale, in caso di risoluzione del rapporto di lavoro, il lavoratore che non ha maturato i requisiti per l’accesso alle prestazioni ha diritto alla liquidazione della sola quota di contributi da lui versati; che tale disposizione del regolamento era nulla per contrasto con il d.lgs. n. 124 del 1993, art. 10. Tanto premesso chiedeva la condanna della Banca al pagamento della quota relativa ai versamenti effettuati dal datore di lavoro, pari a lire 434.882.628.
La S.p.A. Ro. Ba. 14., che aveva assorbito il Cr. Ro., si costituiva e resisteva. Il pretore, con sentenza del 27 maggio 1999, rigettava la domanda. L’appello proposto dal Ru. veniva respinto dalla Corte di appello di Bologna con sentenza depositata il 13 novembre 2003.
La Corte territoriale rilevava che la disposizione di cui al d.lgs. n. 124 del 1993, art. 10 co. 1 - anche a seguito delle modifiche introdotte dalla l. n. 335 del 1995, art. 10, co. 1, che ha aggiunto i co. 3 bis e 3 ter alla predetta l. n. 124 del 1993, art. 10 - deve essere interpretato, nel senso che essa non ha immediata efficacia precettiva, è diretta a regolare i fondi di nuova costituzione e non è applicabile ai fondi pensionistici costituiti prima della sua entrata in vigore, e quindi anche al fondo precedentemente costituito dal Cr. Ro., sicché la previsione dell’art. 23 del regolamento pensionistico aziendale, secondo cui al lavoratore che lascia il servizio senza aver maturato il diritto alle prestazioni saranno rimborsati i soli contributi versati dal lavoratore, non può essere invalidata per contrasto con la l. n. 124 del 1993, art. 10, entrato successivamente in vigore.
La Corte soggiungeva che la previsione convenzionale non viola nemmeno l’art. 2123 c.c., perché detta norma al co. 2 stabilisce soltanto, con riferimento ai fondi di previdenza formati con il contributo dei prestatori di lavoro, che questi hanno diritto alla liquidazione della «propria quota», per tale dovendosi intendere quella corrispondente ai versamenti del lavoratore, ma non menziona i contributi versati dal datore di lavoro.
Né la clausola regolamentare in questione viola l’art. 2117 c.c., in quanto, restando nel fondo, i contributi versati dal datore di lavoro non vengono distratti dalle loro finalità previdenziali.
Per la cassazione di tale sentenza Ru. Fe. ha proposto ricorso sostenuto da due motivi. La S.p.A. Un. It., incorporante per fusione la S.p.A. Ro. Ba. 14., resiste con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione. — Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione del d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124 artt. 10 e 18 dell’art. 1418 e 1419 c.c. e dell’art. 1339 c.c., nonché vizi di motivazione e si censura la sentenza impugnata per aver disconosciuto il carattere immediata-mente precettivo del d.lgs. n. 124 del 1993, art. 10 anche per i fondi pensionistici complementari preesistenti. Sostiene il ricorrente, invocando una decisione di questa Corte (Cass. n. 17532 del 2002), che la norma del d.lgs. n. 124 del 1993 art. 10 è immediatamente precettiva e che con la sua entrata in vigore gli iscritti ai fondi preesistenti devono poter contare sulla triplice opzione in essa prevista, tra cui il riscatto della posizione individuale, atteso che la norma legale che afferma tale diritto si sostituisce ad eventuali difformi clausole statutarie ai sensi dell’art. 1339 c.c.
Con il secondo motivo si denuncia violazione dell’art. 2123 c.c., co. 2 e art. 2117 c.c., violazione degli artt. 1418, 1419, 1339 e 2099 c.c., dell’art. 36 Cost., nonché vizi di motivazione e si censura la sentenza impugnata per aver interpretato l’espressione «propria quota» dell’art. 2123 c.c., come riferita alla sola contribuzione del lavoratore.
Sostiene invece il ricorrente che l’espressione va intesa come riferita all’intera quota spettante al lavoratore e quindi anche alla parte costituita con i versamenti del datore di lavoro. Ne consegue che l’art. 23 del regolamento pensionistico si pone in contrasto anche con il predetto art. 2123 c.c. Opinando diversamente si sarebbe violato anche il disposto dell’art. 2117 c.c., perché la contribuzione del datore di lavoro, finalizzata al finanziamento della prestazione del singolo dipendente, sarebbe sottratta alla sua naturale destinazione. Si rileva, infine, che i contributi versati dal datore di lavoro devono essere considerati come retribuzione differita in funzione previdenziale, sicché la mancata corresponsione dei contributi versati al fondo dal datore di lavoro comporterebbe una illegittima sottrazione di retribuzione, in contrasto con l’art. 36 Cost. e con l’art. 2099 c.c.
Il primo motivo di ricorso è fondato.
In tema di previdenza complementare questa Corte, con le sentenze n. 17532 del 2002 e n. 17657 del 2002, ha già avuto modo di prendere in esame il problema dell’ambito di applicazione del d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124 art. 10 affermando il seguente principio di diritto: «Le tre opzioni previste dal d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124 art. 10 in favore degli iscritti che abbiano cessato il rapporto, senza maturazione del diritto a pensione (trasferimento del capitale accumulato ad altro fondo chiuso, trasferimento a fondo aperto e riscatto), in epoca successiva all’entrata in vigore della legge stessa, si applicano all’intera posizione individuale, comprensiva di tutti gli accantona-menti previsti dall’art. 8 decreto citato, sia del lavoratore, sia del datore di lavoro, effettuati anche nel periodo antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 124 del 1993 per i fondi a capitalizzazione preesistenti, anche nel caso in cui gli statuti prevedano modalità di rimborso dei capitali accantonati difformi dalla norma legale».
A tale conclusione la Corte è pervenuta dopo un attento esame della norma sia sul piano dell’interpretazione letterale che su quello dell’interpretazione funzionale. Sul piano dell’interpretazione letterale si è notato che le opzioni previste dall’art. 10, tra cui il riscatto, e cioè il rimborso delle quote versate, riguardano la posizione individuale, quale risulta dai finanziamenti indicati dal precedente art. 8, e cioè sia del lavoratore, sia del datore di lavoro. È stato altresì osservato che la successiva precisazione dell’art. 3 bis, introdotto dalla l. 8 agosto 1995, n. 335 art. 10 secondo cui deve trattarsi dell’intera posizione individuale, è su tale punto meramente esplicativa, e non innovativa, perché tale norma si limita a consentire il trasferimento della posizione individuale ad altro fon-do pensione anche al di fuori delle condizioni di cui ai commi precedenti (e cioè ai fondi c.d. aperti oltre che ai fondi chiusi); e poiché la legge considera le tre opzioni paritetiche e volontarie, il riferimento alla posizione individuale non può che essere sempre intesa come riferimento alla intera posizione individuale.
Sul piano dell’interpretazione funzionale la Corte ha rilevato il profondo mutamento di prospettiva e di ruolo che la legge delega 23 ottobre 1992, n. 421, e la successiva attuazione ad opera del d.lgs. n. 124 del 1993 hanno portato nel sistema della tutela pensionistica complessi-va, ed ha osservato che il legislatore, con il complesso di leggi successivamente emanate in materia (l. 22 ottobre 1992, n. 421, d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124 d.lgs. 30 dicembre 1993, n. 585, l. 8 agosto 1995, n. 335) ha istituito un collegamento funzionale tra previdenza obbligato-ria e previdenza complementare, collocando quest’ultima nel sistema dell’art. 38 Cost., co. 2, sicché, dopo queste leggi, le contribuzioni degli imprenditori al finanzia-mento dei fondi pensionistici aziendali non possono più definirsi «emolumenti retributivi con funzione previdenziale», ma costituiscono, strutturalmente, contributi di natura previdenziale, come tali estranei alla nozione di retribuzione.
La Corte ha poi ritenuto che il d.lgs. n. 124 del 1993 art. 10 trova applicazione immediata anche rispetto ai fondi preesistenti, atteso che l’art. 18 di detta legge, nel precisare quali norme non si applicano alle forme pensionistiche complementari già istituite e nel determinare i tempi entro i quali i fondi devono adeguarsi ad altre norme, non menziona il disposto dell’art. 10, che pertanto è entrato in vigore al 15º giorno dalla pubblicazione nella G.U., secondo la regola generale fissata dall’art. 19. Di conseguenza la Corte ha ritenuto che la norma legale che ha affermato il diritto degli iscritti a contare sulla triplice opzione opera immediatamente, anche in relazione ai fondi preesistenti, e si sostituisce ad eventuali difformi clausole statutarie, ai sensi dell’art. 1339 c.c.
A questo orientamento giurisprudenziale il Collegio in-tende prestare piena adesione, condividendo le motivate argomentazioni che lo sorreggono ed in mancanza di nuovi elementi che possano indurre ad una riconsiderazione del problema.
Errata è, dunque, l’interpretazione del giudice di appello, secondo cui l’art. 10 non è applicabile ai fondi già costituiti ed è, quindi, valida ed efficace la clausola contrattuale che limita il riscatto alla sola quota corrispondente ai versamenti effettuati dal lavoratore, con esclusione della quota versata dal datore di lavoro. La sentenza impugnata, pertanto, deve essere cassata.
A diverse conclusioni non è possibile pervenire per la circostanza che le due sentenze citate sono state pronunciate con riferimento a fondi c.d. a capitalizzazione e non a ripartizione. Invero le due pronunce, pur dando atto che «autorevole dottrina ritiene problematica l’immediata applicabilità dell’art. 10 ai fondi a ripartizione», non entra nel problema dell’applicabilità della norma ai fondi a ripartizione, perché materia estranea alla controversia esaminata, e dunque non prende posizione sul problema della applicabilità o meno dei principi in precedenza affermati anche ai fondi c.d. a ripartizione.
Sostiene la Banca che i principi affermati dalle due sentenze della Cassazione non sono applicabili ai fondi a ripartizione in quanto questi assolvono a finalità solidaristiche, assicurando agli iscritti, in caso di invalidità o di morte del lavoratore, anche a fronte di modesta anzianità contributiva, una prestazione computata al massimo del-la prestazione prevista dal regolamento pensionistico. In questo tipo di Fondo, pertanto, non è possibile restituire al lavoratore che esercita il diritto di riscatto anche le somme versate dalla Banca, in quanto dette somme devono rimanere accantonate per il soddisfacimento delle esigenze solidaristiche.
Al riguardo va osservato che della natura del fondo pensionistico aziendale istituito dal Cr. Ro. (se a capitalizzazione o a ripartizione) non si occupa affatto la sentenza impugnata, che ha riguardo invece ad un tipo indifferenziato di fondo pensionistico. Dal complesso delle argomentazioni del giudice di appello, peraltro, è lecito ritenere che la sentenza impugnata si riferisca ad un tipo di fondo c.d. a capitalizzazione.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte ove una determinata questione, che implichi un accertamento di fatto, non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, la parte che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una pronuncia di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto (v. Cass. n. 230 del 2006, Cass. n. 15422 del 2005, Cass. n. 9765 del 2005). Tale onere non risulta soddisfatto dalla Banca, non avendo questa precisato in quale verbale di causa o atto difensivo del giudizio di appello abbia mai sottoposto al giudice del gravame la questione in esame. L’intimata, inoltre, sempre in violazione del principio di autosufficienza, ha affermato la natura di fondo a ripartizione del fondo istituito dal Cr. Ro. senza neppure riprodurre in controricorso le clausole del relativo regolamento dalle quali il Collegio avrebbe potuto desumere tale natura (vedi Cass. n. 7610 del 2006, Cass. n. 13556 del 2006 ed altre conformi). Ne consegue che i rilievi della Banca intimata relativi alla natura del Fondo in esame non possono essere presi in considerazione sia per la novità della questione proposta che per la mancanza in controricorso di qualsiasi riscontro testuale. Per tutte le considerazioni sopra svolte il primo motivo di ricorso, dunque, deve essere accolto. L’accoglimento del primo motivo esime la Corte dall’esame del secondo motivo, che deve ritenersi assorbito.
In definitiva, la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto e la causa rinviata per un nuovo esame ad altro giudice, designato in dispositivo, che si atterrà al principio di diritto sopra enunciato e provvederà altresì alla liquidazione delle spese del giudizio di Cassazione.
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Trib. Roma 11 maggio 2007, n. 9091 — Est. Vetritto — A. P. c. Banca di Roma Capitalia S.p.A.
Previdenza complementare - Fondi a ripartizione preesistenti al d.lgs. n. 124/1993 - Diritto al riscatto della posizione individuale – Sussistenza - Quota di contribuzione a carico dell’azienda - Riscattabilità.
Il diritto di riscatto previsto dall ’art. 10 del d. lgs. n. 124/1993 trova applicazione immediata anche rispetto ai fondi preesistenti a ripartizione, non rientrando tra gli istituti inapplicabili a tali fondi ai sensi del successivo art. 18.
Il diritto di riscatto previsto dall’art. 10 d.lgs. n. 124/1993 riguarda l’intera posizione individuale comprensiva degli accantonamenti effettuati dal datore di lavoro e sostituisce eventuali clausole statutarie difformi.
Svolgimento del processo. — Con ricorso depositato il 17 gennaio 2006 Po. An. esponeva di aver lavorato alle dipendenze della Cassa di Risparmio di Roma, poi fusa nella Banca di Roma S.p.A., dal 1° luglio 1975 al 30 dicembre 1999 e di essere stato iscritto per tale periodo al fondo di quiescenza e previdenza per il personale della Cassa di Risparmio di Roma, per intero periodo sopra indicato, deduceva che l’importo della contribuzione annua versato dal datore di lavoro a detto Fondo era stato pari al 21 per cento della retribuzione pensionabile per gli anni fino al 1987 compreso, e successivamente pari al 15 per cento della retribuzione pensionabile, per un totale complessivo di euro 105.387,07 come da prospetto che produceva.
Sosteneva il Po. An. di avere diritto, ai sensi dell’art. 10, co. 1 lett. c) del d.lgs. n. 124/93, al riscatto della propria posizione individuale e precisava di avere avanzato in tal senso specifica richiesta, rimasta inevasa; argomentava in diritto e concludeva chiedendo la condanna delle convenute Capitalia S.p.A. e Banca di Roma S.p.A., in soli-do o in alternativa al pagamento in suo favore della somma sopra indicata, oltre accessori di legge.
Fissata l’udienza di discussione si costituivano in giudizio entrambe le convenute, con unica memoria difensiva nella quale si evidenzia in via preliminare il difetto di legittimazione di Capitalia S.p.A. per essere subentrata nel ramo di azienda costituito dalla rete bancaria di Roma della quale faceva parte il Po. An. la Banca di Roma S.p.A. e si contesta nel merito la fondatezza della domanda chiedendone il rigetto.
All’udienza del 20 dicembre 2006 la causa, istruita documentalmente, previo deposito di note conclusive di ambo le parti veniva quindi discussa oralmente e decisa come da allegato dispositivo.
Motivi della decisione. — La domanda, è fondata e va accolta.
L’art. 10 del d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124, prevede infatti che: «ove vengono meno i requisiti di partecipazioni alla forma pensionistica complementare, lo statuto del fondo pensione deve consentire le seguenti opzioni stabilendone misure, modalità e termini di esercizio: a) il trasferimento presso altro fondo pensione complementare, cui il lavoratore acceda in relazione alla nuova attività; b) il trasferimento ad uno dei fondi di cui all’art. 9; c) il riscatto della posizione individuale».
La Suprema Corte con la pronuncia n. 17657 dell’11 dicembre 2002 invocata da ambo le parti, ha sottolineato che «le opzioni previste dall’art. 10, tra cui il riscatto, e cioè il rimborso delle quote versate, riguardano la posizione individuale quale risulta dai finanziamenti indicati dal precedente art. 8, e cioè, sia del lavoratore, sia del datore di lavoro. La successiva precisazione dell’art. 3 bis, introdotto dall’art. 10 l. 8 agosto 1995, n. 335, secondo cui deve trattarsi dell’intera posizione individuale, è, sul tale punto, meramente esplicativa e non innovativa, perché tale norma si limita a consentire il trasferimento della posizione individuale ad altro fondo pensione anche al di fuori delle condizioni di cui ai commi precedenti (e cioè ai fondi c.d. aperti oltre ai fondi chiusi). E poiché la legge considera le tre opzioni (trasferimento ad altro fondo pensione, trasferimento ad uno dei fondi cd. aperti di cui all’art. 9 e riscatto) paritetiche e volontarie, il riferimento alla posizione individuale non può essere sempre inteso come riferimento alla medesima intera posizione individuale».
Nella medesima sentenza la Corte ha altresì esaminato il problema della validità temporale dell’art. 10 in esame rispetto ai fondi preesistenti evidenziando che «il problema è risolto per tabulas dall’art. 18 d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124, il quale disegna un programma articolato nel tempo, di conformazione dei fondi preesistenti alla legge delega n. 421/1992, attraverso la tecnica della indicazione nominativa degli articoli ad applicazione differita; le norme non menzionate entrano in vigore, viceversa, al 15° giorno della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, secondo la regola generale dell’art. 10 preleggi ribadita dall’art. 19 del d.lgs. n. 124/1993» e deducendone l’immediata applicabilità della disposizione in discorso anche agli iscritti ai fondi preesistenti.
È opportuno sottolineare che nel successivo passo della pronuncia la Corte afferma: «la norma che afferma tale diritto si sostituisce ad eventuali difformi clausole statutarie, ai sensi dell’art. 1339 c.c. È ben vero che le misure, modalità e termini di esercizio del diritto di opzione devono essere stabilite dallo statuto del fondo ma, non essendo posto alcun termine a tale podestà, si applica il principio quod sine die debetur statim debetur, nel senso che tali modalità di esercizio del diritto di opzione, da stabilire al più presto retroagiscono al momento in cui la legge riconosce il diritto agli iscritti, ai sensi del combinato disposto degli artt. 10 e 18 del d.lgs. n. 124/1993 [...] opinare diversamente significherebbe consentire ai fondi, con la loro eventuale inerzia nel modificare gli statuti, di disattendere la norma legale.
Quanto al concetto di “misura” dell’esercizio va posto in evidenza che poco più sopra il Supremo Collegio aveva ritenuto errata l’interpretazione fornita nella sentenza cassata «nel senso che, attraverso la determinazione del-la percentuale di trasferimento, con essa lo statuto del fondo sia facultato ad espropriare l’iscritto di una quota della posizione individuale; dovendosi tali termine interpretare con esclusivo riferimento a componenti diverse della posizione individuale, quali ad esempio la quota di gestione».
La pronuncia in esame si riferisce ad una ipotesi di fondo a capitalizzazione, ma le argomentazioni ivi svolte ben possono essere riferite anche ai fondi a ripartizione, atteso che né in qualche passo della sentenza, né nelle fonti normative cui la stessa fa richiamo è dato rinvenire considerazioni o previsioni che escludano l’applicazione della disciplina di cui all’art. 10 anche ai fondi a ripartizione, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa resistente; dalla lettura della sentenza non si evince affatto invero che «la sentenza n. 17657/2002 ha riservato alle fonti costitutive dei fondi pensione a prestazione definita - come se più volte rilevato, ispirati a criteri mutualistici - il potere di individuare la quota di contribuzione che resta a disposizione dell’iscritto in caso di riscatto, con il limite della restituzione della quota di contributi versati dal lavoratore medesimo».
Quanto poi alle eccezioni avanzate dalla Banca circa l’incompatibilità della disposizione invocata dal ricorrente con l’assetto complessivo del fondo, basato sul principio solidaristico e con l’inesistenza di una posizione individuale riferibile al singolo lavoratore, nel ribadirsi che la disciplina normativa non prevede alcuna esclusione per i fondi a ripartizione deve rilevarsi che nell’ipotesi in cui la particolare composizione del fondo de-termini squilibri (che nel caso di specie, peraltro, sono stati solo astrattamente ipotizzati e non concretamente individuati) i fondi pensione possono incrementare la contribuzione o diminuire le prestazioni per garantire il necessario equilibrio finanziario.
Infatti l’art. 18 co. 8 bis stabilisce che in presenza di rilevanti squilibri finanziari è consentita, per un periodo di otto anni, l’iscrizione di nuovi soggetti in deroga alle disposizioni degli artt. 7 e 8; il successivo co. 8 ter prevede la presentazione di apposita istanza al Ministero del Lavoro corredata di documentazione idonea a dimostra-re l’esistenza dello squilibrio finanziario e di un piano che, con riguardo a tutti gli iscritti attivi e con riferimento alle contribuzioni e alle prestazioni, nonché al patrimonio investito, determini le condizioni necessarie ad assicurare alla scadenza del periodo di cui al co. 8 bis l’equilibrio finanziario della gestione.
Alla stregua delle considerazioni che precedono, la domanda va quindi accolta: al pagamento della somma de-terminata come in ricorso e non contestata deve condannarsi l’unica legittimata passiva, ovvero Banca di Roma S.p.A. come è pacifico in causa (in tal senso si è espresso il difensore del ricorrente in sede di discussione orale).
Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono come di norma la soccombenza quanto alla convenuta Banca di Roma, mentre appare equo disporre l’integrale compensazione tra la parte ricorrete e Capitalia in virtù della data (di gran lunga successiva alla cessazione del rapporto lavorativo del Po. An.) delle variazioni delle denominazioni sociali e del trasferimento di ramo di azienda di cui alla memoria difensiva.
Tali i motivi della decisione in epigrafe.
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Pietro Pozzaglia
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