LA SOSPENSIONE CAUTELARE
(nelle more del procedimento disciplinare)
Sommario:
Natura e retribuibilità (o meno) della sospensione cautelare
Presupposti per l’adozione; vizi di procedura e vizi invalidanti
Il calcolo, in caso di riammissione in servizio, della
retribuzione non corrisposta
Conclusioni.
1. Natura e retribuibilità (o meno) della sospensione cautelare
La
funzione di tale forma di sospensione non è quella di porre il rapporto in fase
di prolungata quiescenza, bensì solo di allontanare dall'azienda - per il tempo
strettamente necessario - il lavoratore durante il procedimento disciplinare,
nel caso in cui i fatti addebitati, ed ancora da accertare, siano di gravità
tale da non consentire la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto, ovvero
nel caso in cui la presenza in azienda del lavoratore possa costituire fondato
pericolo di possibili ulteriori turbamenti.
L'origine dell'istituto è di natura contrattuale e trova le
sue prime applicazioni in quei contratti collettivi che avevano introdotto
ancor prima dello Statuto dei lavoratori un procedimento disciplinare, per cui
- ove tale procedimento fosse stato applicabile anche ai licenziamenti per
mancanze - si era venuta delineando la necessità di contemperare i tempi della
procedura con l'esigenza di porre immediatamente termine all'esecuzione del
rapporto nei casi di infrazioni di particolare gravità. Nel settore del credito
l’istituto in questione è previsto, con formulazione identica, nel ccnl
22.6.1995 (art. 63) per il personale direttivo e nel ccnl 19.12.1994
(art. 123) per il restante personale.
In primo luogo va precisato che la sospensione cautelare di
cui trattasi, è ritenuta, dalla prevalente dottrina(1) ammissibile
indipendentemente dal fatto che sia espressamente prevista dal contratto, per
cui deve ritenersi sussistente il potere unilaterale dell'imprenditore di
disporla, pur in assenza di una specifica norma contrattuale.
Naturalmente la facoltà di adozione unilaterale della
sospensione cautelare – a prescindere da legittimazione contrattuale – comporta
l’obbligo del mantenimento della retribuzione per il lavoratore sospeso, stante
l’unilateralità della rinunzia alla prestazione lavorativa (2).
Non siamo affatto d’accordo con quella parte della dottrina
che asserendo che la sospensione cautelare rientra tra le prerogative
manageriali ed è pertanto espressione del potere direttivo, consentirebbe un
esonero non retribuito dalla prestazione, non versando – a detta di tale
dottrina – il datore di lavoro in “mora accipiendi”, ex art. 1206 c.c.(3),
stante la legittimità dei motivi giustificativi del rifiuto datoriale di
ricevere la prestazione del lavoratore.
Invero il creditore della prestazione lavorativa (datore di
lavoro) non può dispensare il lavoratore/debitore dalla prestazione stessa –
che è il presupposto acquisitivo della retribuzione – per sue mere convenienze
o valutazioni di opportunità, quantunque non necessariamente voluttuarie ma
ragionevoli (riposanti notoriamente sulla necessità di una “libertà” di
movimento per accertamenti ovvero sull’esigenza di allontanamento del
lavoratore per svolgere indagini senza l’intralcio o il disturbo della di lui
presenza in servizio e negli stessi locali di lavoro e simili) – atteso che la
ragionevolezza del motivo non esclude né l’unilateralità dell’iniziativa né, a
nostro avviso, la “mora accipiendi”. Convenienze ed opportunità di parte non
possono, secondo noi, essere riconducibili ai “motivi legittimi” – da
intendersi in senso oggettivo - di cui
si occupa l’art. 1206 c.c., attribuendogli idoneità ad escludere la “mora
credendi” del datore di lavoro, a differenza di quanto da altri ritenuto.
O, come altri hanno correttamente ritenuto, “il riferimento
al ‘motivo legittimo’ del rifiuto della cooperazione creditoria consente solo
la valutazione di tale comportamento alla stregua dei principi generali di
correttezza e buona fede...ma non opera come criterio di giudizio della
legittimità dell’atto unilaterale con cui si interrompe l’attuazione del
rapporto, incidendo su una complessa situazione attiva del dipendente”(4).Talché
“il dovere del datore di lavoro di pagare la retribuzione relativa al periodo
di sospensione cautelare non deriva da una sua pretesa responsabilità,
aquiliana o contrattuale, trattandosi puramente e semplicemente del rischio
insito nell’esercizio (pur legittimo) di un potere di autotutela”(5).
Esattamente, pertanto, altra dottrina e la consolidata
giurisprudenza della Cassazione pretende che – al fine di escludere che alla
sospensione cautelare si accompagni la retribuzione per il lavoratore esonerato
dalla prestazione – sia necessaria l’espressa previsione in tal senso da parte
della contrattazione collettiva.
Così, infatti si è espressa la Suprema Corte (6), secondo
cui: "la sospensione cautelare del lavoratore sottoposto a procedimento
disciplinare o penale, se non prevista dalla legge o dalla contrattazione
collettiva, può essere applicata dal
datore di lavoro nell'esercizio del suo potere direttivo, solo nel senso che
egli può rinunciare ad avvalersi delle prestazioni del lavoratore stesso, ferma
peraltro la sua obbligazione di corrispondere la retribuzione in relazione al
perdurante rapporto di lavoro, laddove, invece, se normativamente o
convenzionalmente prevista, può legittimare - oltre alla sospensione
dell'attività lavorativa - anche quella della controprestazione retributiva, se
espressamente contemplata. La relativa durata è limitata al tempo occorrente
per lo svolgimento della procedura cui la sospensione accede e la sua efficacia
è destinata ad esaurirsi non appena tale procedura sia ultimata, con
l'ulteriore conseguenza che, se interviene il licenziamento del lavoratore, il
rapporto deve considerarsi risolto retroattivamente ossia alla data di sospensione cautelare del
dipendente, mentre se non interviene alcun licenziamento, il rapporto riprende
il suo corso dal momento in cui le relative obbligazioni sono rimaste sospese,
salvo il risarcimento del danno, ove sia ravvisabile altresì violazione degli
obblighi di correttezza e lealtà, ovvero per lesione del diritto del lavoratore
a svolgere la sua attività lavorativa con i conseguenti riflessi professionali"(così
Cass. sez. un. n. 3319/1986).
Ed infatti la sospensione in oggetto non conferisce affatto
al datore di lavoro il potere di disporre degli effetti del contratto, sia in
considerazione del brevissimo lasso di tempo in cui opera, sia soprattutto in
relazione al fatto che nella specie non l'intero rapporto viene ad essere
sospeso, ma solo l'obbligo della prestazione del dipendente, maturando costui -
nel relativo arco di tempo - sia la retribuzione sia ogni altro effetto
connesso all'anzianità di servizio.
Sostiene invece, in giurisprudenza, che non è dovuta la
retribuzione, ove la clausola contrattuale la neghi, - oltre a Cass. n.
3319/1986 precedentemente riportata in massima - Cass. n. 7350/1986 (7),
contrastata da Cass. n. 7303/1990 (8), che, pur legittimando la privazione
economica, ha sostenuto che essa non può essere superiore ai 10 giorni di
carenza retributiva previsti per la sospensione disciplinare dall'art. 7, 4°
comma, dello Statuto, "non essendo rinvenibile nel vigente sistema
normativo alcuna disposizione che consenta di attribuire alla sospensione
cautelare effetti più ampi di quelli propri della sospensione disciplinare, la
quale a sua volta non può debordare dai limiti di legge".
Quest’ultimo orientamento è stato sottoposto ad alcune
critiche dottrinali (9), secondo cui tale impostazione giurisprudenziale
“finisce col costruire la sospensione cautelare in termini di perfetta analogia
strutturale con la sanzione tipica, mentre come rilevato, diversi sono i
profili strutturali caratterizzanti, da un lato, uno strumento di autotutela, e
dall’altro, una sanzione conservativa: vi è da rilevare come la sospensione
cautelare istituzionalmente non sia soggetta a limiti di durata predeterminati,
atteso che la sua durata coinciderà con il tempo necessario ad acquisire la
certezza della sussistenza del fatto addebitato, sia nel corso del concorrente
giudizio penale, sia nell’ambito degli eventuali accertamenti esperiti in sede
aziendale”. Aggiungendo poi tale critico che “la prospettata estensione alla
sospensione cautelare, dei requisiti applicativi propri della
sospensione-sanzione finisce col comportare l’inammisibile risultato che, in
definitiva, nella situazione descritta, si verificherebbe un’ipotetica
duplicazione di sanzioni, con il risultato, certamente scorretto, che il
lavoratore verrebbe a subire in sequenza due sospensioni, complessivamente
comunque eccedenti il limite massimo fissato ex lege”.
Tale dottrina(10) ha, pertanto, salutato con enfasi una
recentissima decisione della Cassazione(11) dalla quale è stata desunta la
seguente massima: “La sospensione cautelare dal servizio del lavoratore
sottoposto a procedimento disciplinare (o, prima ancora, penale) legittima
anche, ove ciò sia espressamente previsto dalla disciplina collettiva, la
sospensione della controprestazione retributiva, la cui definitiva debenza è
condizionata all’esito del procedimento disciplinare, secondo che si concluda,
o meno, con l’irrogazione di una sanzione espulsiva, fermo restando che, nel
caso invece di irrogazione di sanzione conservativa, la sospensione cautelare
non può avere effetti più ampi di quelli previsti dal comma quarto dell’art. 7
dello statuto dei lavoratori”.
In buona sostanza la Cassazione ha effettuato talune
precisazioni in ordine al pensiero espresso in precedenza da Cass. n.
7303/1990, asserendo che la sospensione cautelare dal servizio è caratterizzata
dall’assenza della retribuzione solo se ciò sia previsto dalla contrattazione
collettiva (implicitamente statuendo, per contro, la persistenza della stessa
in caso di iniziativa unilaterale non sorretta da previsione di carenza
retributiva da parte di clausola pattizia).
Addizionalmente sembra desumersi dalla massima soprariferita che la durata della carenza
retributiva connessa alla sospensione
cautelare è correlata al tempo necessario all’accertamento dei fatti
addebitati, nel caso in cui l’esito del procedimento disciplinare si concluda
con l’irrogazione di una sanzione espulsiva (licenziamento); mentre nel caso in
cui il procedimento si concluda con una sanzione conservativa, il limite
massimo di carenza retributiva da sospensione cautelare coincide con quello (10
giorni) previsto dall’art. 7, 4 co., della L. n. 300/’70.
La sentenza, ad un’attenta lettura, lascia invece intendere
qualcosa di diverso dalla massima, laddove precisa che la fattispecie presa in
considerazione da Cass. n. 7303/’90 era del tutto particolare (caratterizzata
dalla conclusione del procedimento disciplinare con la sanzione della
sospensione per 10 giorni) ed avrebbe
portato la S. corte ad evitare che la “sospensione cautelare” finisse
per essere più gravosa della stessa sospensione disciplinare, mentre invece il
principio di diritto condiviso dalla Cassazione in plurime decisioni (Cass. n.
3319/’86; Cass. n. 7350/’86; Cass. n. 2517/’96) è quello sintetizzabile nella
dizione per cui “dall’esito del procedimento penale o disciplinare, in senso
favorevole o meno al prestatore, dipende la sorte dell’obbligazione”.
Con ciò esprimendo l’inequivoca propensione nella direzione
della “piena retribuibilità” della sospensione cautelare nel caso di
procedimento conclusosi con sanzione conservativa e della carenza totale (e a
tempo indeterminato) della retribuzione medesima, nel caso in cui l’esito del
procedimento disciplinare o penale si concluda con la sanzione espulsiva del
licenziamento. Confinando, conseguentemente, nell’irrilevanza o tra gli obiter
dicta l’affermazione del limite dei 10 giorni di massima carenza
retributiva della sospensione cautelare, affermata – per un caso e dietro
un’esigenza del tutto particolare – da Cass. n. 7303/1990.
In questo senso sembra intendere il pensiero della
Cassazione – o quanto meno auspicarne l’affermazione anche successiva - lo
stesso annotatore di Cass. n 2633/’97 (12),
laddove afferma che: “A ben intendere…un’opportuna integrazione tra le varie
indicazioni proposte dalla giurisprudenza potrebbe consentire di annodare i
fili lasciati in parte scoperti, considerando cioè che nel caso di ricorso alla
sospensione cautelare, seguita da un provvedimento conservativo, tutto il
trattamento economico intermedio dovrebbe essere riconosciuto ex post al
lavoratore, con soluzione opposta nel caso inverso di esito espulsivo. Ed in
questi termini, la limitazione di durata dei dieci giorni propugnata dalla
sentenza n. 7303/1990 sembrerebbe destinata a perdere definitivamente ogni
rilievo”.
A nostro avviso la sentenza non ha altro significato che
quello di rivolgere un auspicio, dettando un principio programmatico la cui
applicazione spetta alla contrattazione collettiva.
Ribadito e risolto il problema della “carenza retributiva” solo in presenza di
espressa clausola collettiva in tal
senso disponente, le addizionali difficoltà o contraddizioni che la contrattazione collettiva crea
all’interprete giudiziario non possono essere che risolte dalle stesse parti
sociali. Non si può attendere dalla magistratura – senza rischi di indebito
debordamento nel campo dell’autonomia collettiva – l’introduzione di “ulteriori
precisazioni” esaltandosi sulla loro maggiore o minore opportunità o attendere
che essa apporti addizionali tasselli per delineare un mosaico di inequivoca
lettura e senso compiuto. Le conclusioni non saranno mai soddisfacenti
nonostante le “torsioni” cui si sottoporranno parole e concetti pattizi, se gli
agenti contrattuali non raccoglieranno l’invito e l’auspicio giurisprudenziale
sancendo nei ccnl – nel contemperamento dei reciproci interessi – che:
a) in caso di procedimento disciplinare che si concluda con
una valida sanzione espulsiva, il periodo di sospensione cautelare non è
retribuito. Il che, peraltro, consegue di regola dalla riserva aziendale di
dotare il provvedimento di licenziamento di efficacia retroattiva, facendolo
decorrere ex tunc dall’epoca di contestazione degli addebiti e di
contestuale decorrenza della sospensione cautelare;
b) in caso, invece, di procedimento disciplinare che si
concluda con una sanzione conservativa (o nel caso in cui la sanzione espulsiva
venga successivamente annullata per invalidità, inefficacia o ridimensionata
per esorbitanza rispetto al criterio di proporzionalità sancito nell’art. 2106
c.c.), il periodo dell’eventuale sospensione cautelare dovrà essere
integralmente retribuito quanto meno ex
post.
2. Presupposti per l’adozione; vizi di procedura e vizi
invalidanti
Mentre
è sicuramente da escludersi che ogni ipotesi di licenziamento in tronco possa
legittimare la preventiva adozione della sospensione cautelare, va tuttavia
riconosciuta una tutela all'interesse datoriale ad un immediato allontanamento
del lavoratore in ipotesi determinate, ove effettivamente sia ipotizzabile una situazione di pericolo
o di turbamento nel caso in cui il lavoratore rimanesse in azienda.
Si pensi ad es. al cassiere accusato di furto ovvero al
lavoratore passato a vie di fatto nei confronti dei colleghi di lavoro, con
pericolo, quindi di ritorsioni o di una riattivazione degli episodi criminosi.
Va precisato, tuttavia, che l'istituto deve essere usato con
particolare moderazione, onde vanno sicuramente stigmatizzate certe prassi
aziendali di far sempre coincidere la sospensione cautelare con la
contestazione di addebiti suscettibili di sfociare nel licenziamento.
Va
invece riconosciuto il potere imprenditoriale, quale espressione - questa volta
si - del più ampio potere organizzativo, di rifiutare la prestazione del
dipendente, nel caso in cui gli addebiti contestati siano di particolare
rilevanza e gravità.
Anche
in questa ipotesi è da escludersi che la sospensione abbia natura di sanzione
disciplinare, onde l'applicazione della sospensione non deve essere preceduta
dalla procedura di cui all'art. 7 dello Statuto, il che - del resto - è
abbastanza ovvio, posto che la sospensione ha la specifica funzione di evitare
la presenza del lavoratore in azienda per il tempo necessario all'esaurimento
della procedura, onde del tutto illogico sarebbe pretendere l'adozione di una
procedura disciplinare per la stessa applicazione della sospensione. Anche per
questo tipo di sospensione - come per la sospensione protratta in attesa della
definizione del giudizio per fatti penalmente rilevanti - l'applicazione va
genere sempre inserita nell'ambito di una procedura disciplinare, per cui
nessun provvedimento del genere può essere adottato nei confronti del
lavoratore, se questi non sia stato sottoposto ad un procedimento disciplinare.
Il provvedimento in oggetto non potrà pertanto essere
adottato se non successivamente, o - al più -, contestualmente alla contestazione
degli addebiti.
Il discorso diventa certamente più complesso allorché si
tratti di individuare un distorto uso del potere di adottare la sospensione da
parte del datore di lavoro.
In proposito occorre innanzitutto distinguere i casi in cui
l'illegittimità della sospensione si traduca in un vizio di procedura e,
quindi, della sanzione finale, dai casi in cui l'illegittimità della
sospensione rimanga fine a se stessa, per derivare esclusivamente da un uso
avventato che il datore abbia fatto del suo potere.
In
quest'ultimo caso - così come avviene per ogni altra ipotesi di sospensione
illegittima del rapporto - il datore di lavoro sarà tenuto esclusivamente al
risarcimento dei danni per aver alterato la normale esecuzione del rapporto
stesso, ma l'illegittimità della sospensione in alcun modo si potrà tradurre in
un'illegittimità della sanzione disciplinare.
Alle stesse conclusioni si dovrà
pervenire anche da parte di coloro che ritengono inammissibile un potere
unilaterale di sospendere il rapporto in assenza di una specifica clausola in
tal senso da parte della contrattazione collettiva.
Anche in questo caso infatti l'aver illegittimamente sospeso
il lavoratore potrà dar luogo ad un eventuale risarcimento dei danni, ma non
potrà certamente riflettersi sulla legittimità del provvedimento disciplinare
disposto al termine della procedura.
Sotto
questo profilo non sembra in alcun modo condivisibile quell'orientamento che -
assimilando la sospensione cautelativa all'anticipata esecuzione della sanzione
- ritiene di travolgere per tale solo fatto la successiva sanzione.
Già in precedenza si è sottolineato come l'anticipata
esecuzione della sanzione non può mai tradursi nell'illegittimità della
sanzione ritualmente deliberata; a maggior ragione dovrà farsi applicazione di
un tale principio nella specie, non trattandosi neanche di esecuzione della
sanzione ma solo di sospensione cautelare del lavoratore, per il tempo
necessario sia all'accertamento dei fatti, sia all'espletamento della procedura
disciplinare.
A diverse conclusioni si deve invece pervenire ove la
sospensione cautelare si traduca in una violazione della procedura, per cui il
comportamento datoriale - voluto o meno che sia un tale effetto - determini una
riduzione delle garanzie difensive del lavoratore.
La sospensione, infatti, non dovrà mai comportare
un'attenuazione delle possibilità del lavoratore di rendere le giustificazioni,
in tutti i possibili modi, esplicitamente o implicitamente previsti dall'art. 7
dello Statuto.
Così l'eventuale adozione della sospensione non potrà
assolutamente impedire al lavoratore - che ne faccia richiesta - di consultarsi
con i componenti della Rappresentanza sindacale aziendale o della Delegazione
sindacale aziendale, come pure di rendere le giustificazioni anche con l'assistenza di un membro delle
R.S.A. o D.S.A. stesse.
Parimenti dovrà essere data al lavoratore l'opportunità -
ove lo richieda - di prendere visione di documenti aziendali, sempre che
ovviamente fossero già nella sua disponibilità, o di interrogare colleghi di
lavoro e, comunque, di esperire tutte quelle indagini lecite, atte a rendere
maggiormente complete ed effettive le
sue possibilità difensive.
Ove per effetto della sospensione - ed a cagione della
stessa - il datore di lavoro dovesse negare al dipendente l'esercizio di tali
strumenti difensivi, il provvedimento disciplinare successivo verrebbe ad
essere insanabilmente viziato, per essere stata impedita al lavoratore una
completezza difensiva, anche a causa della disposta sospensione, per cui la stessa
verrebbe a porsi quale mezzo impeditivo del diritto di difesa e, come tale,
renderebbe illegittimo l'intero procedimento disciplinare.
E' ancora da esaminare l'ipotesi in cui l'immediato
allontanamento del dipendente possa essere finalizzato a motivi sindacali, al
fine di espellere dall'azienda - in momenti particolarmente caldi - lavoratori
più attivi sul piano sindacale.
In tali casi il problema non è certo quello di individuare
le possibili sanzioni avverso tale comportamento, dato che il fine antisindacale
sarà normalmente presente sia nell'espulsione temporanea ed anticipata sia in
quella definitiva.
Piuttosto si tratterà di ipotizzare strumenti di reazione
immediata al fine di impedire che il comportamento antisindacale possa
realizzare gli intenti perseguiti.
In proposito potranno essere utilizzati gli ordinari rimedi
processuali di urgenza, quali il ricorso all'azione di cui all'art. 28 dello
Statuto ovvero alla procedura d'urgenza di cui all'art. 700 c.p.c.
3. Il calcolo, in caso di riammissione in servizio,
della retribuzione non corrisposta
Una recente sentenza della Cassazione (13) - indirettamente
riaffermando la legittimità, solo in caso di esplicita previsione contrattuale,
della non decorrenza dell’intera retribuzione durante il periodo di sospensione
cautelare - ha esaminato quale debba essere il criterio di calcolo, una volta
esaurita la sospensione e riammesso il dipendente in servizio, della parte di
retribuzione nelle more non percepita.
Riformando
la decisione di merito che aveva attribuito il diritto al lavoratore non solo
alla rivalutazione monetaria ma anche agli interessi legali (in funzione
compensativa del ritardo con cui il lavoratore riceveva quanto dovutogli) sulla
quota parte di retribuzione non percepita a motivo della sospensione cautelare
disposta dal datore di lavoro, la Suprema corte ha stabilito che spetta il solo
diritto alla rivalutazione monetaria, che ha la funzione di garantire
l’adeguamento del valore nominale della retribuzione al valore reale. Ha negato
invece che spettino gli interessi legali - che presuppongono l’esigibilità e
perciò la scadenza del credito, prima della quale non è configurabile alcun
ritardo da parte dell’obbligato - in quanto “modificato il contenuto del
contratto di lavoro nel senso che il dipendente non è tenuto a rendere la
prestazione e il datore di lavoro resta obbligato a pagare soltanto parte della
retribuzione fino alla cessazione della sospensione, prima di tale momento non
è configurabile esigibilità del credito all’integrazione retributiva ed
oggettivo ritardo nell’adempimento”.
4. Conclusioni
E' da ribadire che la sospensione cautelare c.d.
propedeutica o funzionale all’esercizio
del potere disciplinare non può che essere adottata in via strettamente
strumentale ad un possibile futuro licenziamento, onde la sospensione cautelare
non potrà mai essere applicata, non solo in assenza di contestazione degli
addebiti, ma anche ove gli addebiti contestati non siano comunque suscettibili
di condurre al licenziamento, atteso che può essere tutelata l'esigenza
aziendale di allontanare il dipendente - teoricamente passibile di
licenziamento - ma non può certo, tramite la sospensione cautelare, essere
tutelata ogni e qualsiasi esigenza di sospendere immediatamente il rapporto.
Mario Meucci
(pubblicato in Lavoro e
previdenza Oggi n.12/1997, p. 2225)
(1) Vedi, fra i molti, Branca Gio., La sospensione nelle vicende del rapporto di
lavoro, Padova, 1971, 114; Montuschi,
in Statuto dei lavoratori – Commentario, a cura di Scialoja e
Branca, Bologna-Roma 1979, 122; Spagnuolo
Vigorita e Ferraro, in Commentario
dello statuto dei lavoratori, diretto da Prosperetti, Milano 1975, 219; Assanti e Pera, Commento allo statuto dei diritti dei lavoratori,
Padova 1972, 102; Miscione, Licenziamento
come sanzione disciplinare, in Riv. trim.dir.proc.civ. 1974,703; ID., Della sospensione cautelativa,
in Giur. it. 1981, I,1,1838; Saracini,
Appunti sulla sospensione cautelare retribuita, in Mass.
giur. lav. 1981, 562; Miani
Canevari, La sospensione cautelare, in questa Rivista
1983,20; Papaleoni, Precisazioni
opportune sulla sospensione cautelare, in Mass. giur. lav. 1997,
408.
(2) In dottrina si
sono in tal senso espressi, Spagnuolo
Vigorita-Ferraro, sub art. 7, in Lo statuto dei lavoratori,
Commentario diretto da Prosperetti, cit., 222; Miani Canevari, op.cit., 23 e ss.; D’Avossa, in commento a Pret. Roma
12.1.1990, in Dir. prat.lav. 1990, 1508
nonché a Trib. Milano 4.3.1988 e a Pret. Casteggio 15.3.1988, ibidem
1988, 1661.
In giurisprudenza, per la
persistenza dell’obbligazione retributiva, vedi Cass. 24.2.1990 n. 1410, in Dir.
prat.lav. 1990, 1826; Cass. 24.3.1988 n 2563, in Riv. giur. lav.
1989,II,125; Cass. 19.5.1986 n. 3319, in Giust.civ. 1986, I, 2427 e in Giur.
it. 1987, I, 1, 1092 con nota di Colicchia; Pret. Roma 7.4.1990, in Riv.it.dir.lav.
1990,II, 890; Pret. Roma 12.1.1990, in Dir. prat.lav. 1990, 1508, con
nota di D’Avossa; Trib. Milano 30.9.1982, in Lav.’80 1983, 144;Pret.
Milano 8.10.1981, ibidem 1982, 190.
(3) In tal senso Pera, in Assanti e Pera, op. cit.,
102; Bortone, sub. art. 7,
in Commentario dello statuto dei lavoratori, diretto da Giugni, Milano
1979, 122; Miscione, Il
licenziamento…, cit, 705; Branca,
La sospensione…, cit. 114; Saracini,
Appunti sulla sospensione…, cit., 562.
(4) Così Miani
Canevari, op.cit., 23.
(5) Così Cass. sez. un. 26.3.1982 n. 1885, in Mass.giur.
lav. 1982, 376.
(6) Cass. 19.5.1986 n. 3319 e Cass. 21.3.1986
n. 2022, entrambe in Giur. it.
1987,I, 1, 1093 con nota di Colicchia, Nota minima sulla sospensione
cautelativa nel rapporto di lavoro; Cass. 22.4.1986 n. 2848 in Orient.
giur. lav. 1986, 509.
(7)
In Giust. civ. 1987, I, 2025.
(8)
In Mass. giur. lav. 1990, 414.
(9) Vedi, in tal senso, Papaleoni, Il procedimento
disciplinare nei confronti del lavoratore, Napoli 1996, 259.
(10) Papaleoni, Precisazioni opportune sulla sospensione cautelare,
in Mass. giur. lav. 1997, 408.
(11) Cass. 5.3.1997 n. 2633, in Mass. giur .lav.
1997,407.
(12) In Mass. giur. lav. 1997, 408 ed ivi 411.
(13) Cass.
11.4.1996, n. 3370, in Not. giurisp. lav 1996, 722.