IL
DANNO ALLA PROFESSIONALITÀ È DI NATURA NON PATRIMONIALE
Con
la recente decisione n. 10157 del 26 maggio 2004 – in tema di dequalificazione
professionale – la sezione lavoro della Corte di cassazione prende atto ed
aderisce al recente orientamento (delineato da Cass. III sez. civ. nn.8827 e
8828, da Corte cost. n. 233/2003 e da Cass. IV sez. pen. n. 2050/2004) secondo
cui il danno da violazione di diritti costituzionalmente protetti, quale nel
caso il diritto all’autorealizzazione nel lavoro secondo le mansioni e la
qualifica rivestita, costituiscono lesioni della dignità e dell’immagine
professionale, riconducibili nell’alveo del depenalizzato art. 2059 c.c. e
quindi
rinvengono quale danno non patrimoniale (o esistenziale), liquidabile senza
prova di pregiudizio patrimoniale e necessariamente solo in via equitativa.
Sommario:
1.
Il caso esaminato e deciso
2.
I danni da lesione dei diritti costituzionali afferiscono al “danno non
patrimoniale”: i precedenti giurisprudenziali
3. La riconducibilità del danno alla professionalità al danno
“non patrimoniale” (o esistenziale)
4.
Conseguenze sul regime probatorio
5.
Le
“sacche” di resistenza al nuovo orientamento
Giuseppe
M. dipendente della S.p.A. Autogrill con qualifica di quadro A, ha svolto
l’incarico di direttore del negozio Motta Duomo di Milano sino all’ottobre
del 1991, quando è stato trasferito al più piccolo esercizio Alemagna di Via
Manzoni, con mansioni inferiori a quelle in precedenza svolte, per ritenuta
incompatibilità ambientale derivante da un procedimento disciplinare,
conclusosi successivamente con l’applicazione di una sanzione conservativa.
Sia il trasferimento che il procedimento disciplinare sono stati dichiarati
illegittimi dal Tribunale di Milano con sentenza n. 5638 del 1995, confermata
dalla Cassazione con sentenza n. 3207 del 1998. Successivamente, dopo essersi
dimesso, il lavoratore – nel 1998 - ha
chiesto al Pretore di Milano, tra l’altro, di condannare l’azienda al
risarcimento per l’ingiusta dequalificazione subita. Il Pretore ha rigettato
la domanda. Il Tribunale ha confermato questa decisione, rilevando che il
lavoratore non aveva offerto la prova del “danno patrimoniale” derivatogli
dalla dequalificazione. Giuseppe M. ha proposto ricorso per cassazione
sostenendo che, essendo stata accertata la dequalificazione da lui subita, il
Tribunale avrebbe dovuto riconoscergli sia il danno alla professionalità in
senso soggettivo, avendo l’illegittimo provvedimento aziendale leso il suo
diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità nel luogo di
lavoro, sia il danno alla professionalità in senso oggettivo, per la minore
dimensione e la minore importanza dell’unità produttiva di destinazione
rispetto a quelle dell’unità di provenienza e per il conseguente
irrimediabile impoverimento del patrimonio professionale. Egli ha anche
censurato la decisione del Tribunale di Milano perché non ha riconosciuto il
danno alla sua immagine e alla sua dignità per le modalità umilianti del
trasferimento e per la perdita di autostima ed eterostima, nonché il danno
conseguente alla perdita di chances professionali sia nell’ambito della
società, sia sul mercato del lavoro.
La
Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 10157 del 26 maggio 2004, Pres. Senese, Rel.
D’Agostino, riportata in questa Rivista a pag....) ha accolto il
ricorso affermando che il Tribunale di Milano è incorso in errore negando
l’applicazione del criterio equitativo per
la liquidazione del risarcimento e pretendendo dal danneggiato la prova
specifica della diminuzione patrimoniale sofferta. La Corte ha richiamato la sua
giurisprudenza secondo cui la dequalificazione non solo viola lo specifico
divieto dell’art. 2103 cod. civ., ma si traduce in lesione di un diritto
fondamentale del lavoratore avente ad oggetto la libera esplicazione –
garantita dagli artt. 1 e 2 della Costituzione – della sua personalità anche
nel luogo del lavoro, con la conseguenza che il pregiudizio correlato a siffatta
lesione, spiegandosi nella vita professionale e di relazione dell’interessato,
ha un’indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di
risarcimento, per la cui determinazione e liquidazione da parte del giudice, può
trovare applicazione il criterio equitativo ex art. 1226 cod. civ.
Il
danno da dequalificazione, nel quale - ha affermato la Corte - possono essere
ricompresi come specifici aspetti sia la perdita di chances che il danno
all’immagine, rientra, come il danno biologico, nel danno non patrimoniale;
quest’ultimo secondo la più recente giurisprudenza è infatti comprensivo del
danno biologico (inteso come lesione dell’integrità psico fisica della
persona secondo i canoni fissati dalla scienza medica), del danno morale
(tradizionalmente inteso come sofferenza psichica e patema d’animo sopportati
dal soggetto passivo dell’illecito) e della lesione di interessi
costituzionalmente protetti. Infatti «secondo tale giurisprudenza, nel
vigente assetto dell’ordinamento, nel quale assume posizione preminente la
Costituzione, che all’art. 2 riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, il
danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di
ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona, che non si
esaurisca nel danno morale e che non sia correlato alla qualifica di
reato del fatto illecito ex art. 185 cod. pen.; unica possibile forma di
liquidazione del danno privo delle caratteristiche della patrimonialità» -
ha precisato la Corte - «è
quella equitativa, sicché la ragione del ricorso a tale criterio è insita
nella natura di tale danno e nella funzione del risarcimento realizzato mediante
la dazione di una somma di danaro che non è reintegratrice di una diminuzione
patrimoniale, ma compensativa di un pregiudizio non economico (cfr. Cass. n.
8827 del 2003, Cass. n. 8828 del 2003)».
I
provvedimenti del datore di lavoro che illegittimamente ledono il diritto del
lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro
secondo le mansioni e con la qualifica spettantigli per legge – ha affermato
la Corte – vengono
immancabilmente a ledere l’immagine professionale, la dignità personale e la
vita di relazione del lavoratore, sia in termini di autostima e di eterostima
nell’ambiente di lavoro ed in quello socio familiare, sia in termini di
perdita di chances per futuri lavori di pari livello; la valutazione di
siffatto pregiudizio, per sua natura privo delle caratteristiche della
patrimonialità, non può che essere effettuata dal giudice che alla stregua di
un parametro equitativo, essendo difficilmente utilizzabili parametri economici
o reddituali (Cass. n. 8827 del 2003).
2.
I danni da lesione dei diritti costituzionali afferiscono al “danno non
patrimoniale”: i precedenti giurisprudenziali
Le
conclusioni raggiunte sono del tutto corrette e affondano su precedenti della
stessa sezione civile della Cassazione, pienamente condivisi dalla più
autorevole dottrina, dalla Corte costituzionale e dalla sezione penale della
Cassazione – che ha avuto modo di effettuare penetranti approfondimenti sul
danno non patrimoniale di natura esistenziale nella sua decisione del 22 gennaio
2004 n. 2050 - decisione afferente al noto caso Barillà, piccolo
imprenditore artigiano privato della libertà personale per ingiusta detenzione
durata circa 7 anni e mezzo,
riconosciuto innocente per i reati addebitatigli e risarcito giudizialmente, per
danni patrimoniali e non patrimoniali, dalla Corte di appello di Genova con
quasi 8 miliardi di vecchie lire (per la precisione € 3.947.994,00)
a carico del Ministero delle Finanze ed altri dicasteri governativi (di cui 2
miliardi di lire a titolo di danno esistenziale).
L’evoluzione
giurisprudenziale più significativa in tema di «danno non patrimoniale» è
recentissima. Con due sentenze depositate il medesimo giorno (31 maggio 2003 nn.
8828, che indica le soluzioni proposte, e 8827 che, su questi temi, richiama e
fa proprie le argomentazioni dell’altra sentenza) la terza sezione civile
della Corte di cassazione ha ribadito innanzitutto come non possa più essere
ricondotto, il concetto di danno non patrimoniale, al mero danno morale
soggettivo e ha interpretato l’articolo 2059 Cc nel senso che «il danno non
patrimoniale deve essere inteso come che categoria ampia, comprensiva di ogni
ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona». Ha ritenuto che una
lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 2059 Cc imponga di ritenere
inoperante il limite posto da tale norma «se la lesione ha riguardato valori
della persona costituzionalmente garantiti» ed in particolare i diritti
inviolabili dell’uomo riconosciuti e garantiti dall’articolo 2 della
Costituzione.
Il
giudice civile di legittimità sembra propendere per un concetto unitario di
danno non patrimoniale e ritiene non proficuo «ritagliare all’interno di tale
generale categoria specifiche figure di danno etichettandole in vario modo: ciò
che rileva, al fini dell’ammissione al risarcimento, in riferimento
all’articolo 2059, è l’ingiusta lesione di un interesse inerente alla
persona, dal quale conseguano pregiudizi non suscettivi di valutazione economica».
In questa ottica le sentenze citate della terza sezione civile evitano di fare
espresso riferimento al danno esistenziale ma l’esame dei casi presi in
considerazione conferma che i danni accertati erano riferiti a questo tipo di
danno (in un caso riguardavano la perdita del rapporto parentale; nell’altro
lo sconvolgimento delle abitudini dei genitori conseguente alle gravissime
lesioni subite dal figlio ridotto allo stato vegetativo) perché si riferivano a
casi che la precedente giurisprudenza, anche di legittimità, collocava tra i
danni di natura esistenziale.
Il
danno morale è da intendere come danno morale soggettivo, consistente nella
sofferenza psicologica o nel turbamento transitorio dello stato d'animo
provocato dal fatto illecito, è stato svincolato - ai fini del suo
riconoscimento - dalla ricorrenza del reato, sia da Cass. n. 8827 e 8828/2003
sia da Corte cost. n. 233/2003, nell'ottica di una interpretazione dell'art.
2059 c.c. costituzionalmente aggiornata.
La
nozione di danno biologico è frutto di elaborazione giurisprudenziale (ma
recentemente ha trovato significative conferme a livello legislativo con
l’entrata in vigore del D.Lgs 38/2000 e della legge 57/2001) ed è costituito
dalla compromissione, di natura areddituale, dell’integrità psicofisica della
persona. Generalmente è ritenuto necessario che a questa compromissione si
accompagni una perdita o riduzione di funzioni vitali, anche non definitiva.
Sul
punto della collocazione teorica del danno biologico deve rilevarsi che la
qualificazione come danno non patrimoniale data dal giudice della riparazione
appare del tutto corretta e confermata dalla giurisprudenza di legittimità. La
lesione del bene giuridico tutelato non necessariamente comporta un pregiudizio
di natura patrimoniale: chi vive esclusivamente di investimenti finanziari potrà
continuare a farlo, e a percepire i medesimi introiti, anche se ha subito un
gravissimo incidente che ne provoca l’immobilità. Per converso un danno
biologico modesto (per es. una lesione permanente ad una mano) potrà provocare
un danno economico rilevantissimo ad un affermato pittore o ad un noto pianista.
Ma, in quest’ultimo caso, il danno economico andrà risarcito autonomamente
come riduzione della capacità lavorativa (in questo caso specifica) e non come
danno biologico che troverà un suo autonomo risarcimento (ma taluni, come si è
già accennato, preferiscono usare, per il danno non patrimoniale e quindi anche
per il danno biologico, il termine riparazione).
Fermo
restando che il danno biologico è un danno di natura non patrimoniale, e come
tale va considerato, il fondamento della tutela deve però rinvenirsi
nell’articolo 2059 Cc e non nell’articolo 2043; e questa impostazione è
stata autorevolmente accolta anche dalla Corte costituzionale che, investita per
l’ennesima volta della questione di costituzionalità dell’articolo 2059 Cc,
ha, con la sentenza 233/03, condiviso integralmente il mutamento
giurisprudenziale del giudice di legittimità sul danno non patrimoniale e ha
espressamente affermato la natura non patrimoniale del danno biologico
tutelabile attraverso la tutela fornita dall’articolo 2059 Cc che, proprio in
conseguenza di questa interpretazione costituzionalmente orientata, si è
salvato ancora una volta dalla dichiarazione di incostituzionalità.
Non
risultano condivisibili le preoccupazioni da taluno sollevate secondo le quali,
tramite la dilatazione delle figure di danno non patrimoniale, si estenderebbe
in modo abnorme una forma di responsabilità per sua natura dai contorni
generici ed indefiniti, giacché a) anche il danno non patrimoniale richiede pur
sempre l'ingiustizia (oltreché l'elemento soggettivo e il rapporto di causalità),
b) il risarcimento del danno non patrimoniale avviene per lesione di interessi
meritevoli di tutela con il parametro costituzionale (addirittura, se il
riferimento è all'art. 2, con la sola considerazione dei diritti inviolabili).
Insomma ingiustizia del danno e valori costituzionali valgono
sufficientemente a selezionare i danni meritevoli di tutela riparatoria, anche
se provocati nell'esercizio di attività legittime (ma con conseguenze ingiuste)
rispetto a quelli "bagatellari" (es. danno da vacanza rovinata).
Il
danno esistenziale è ricollegato ad un peggioramento non temporaneo della
qualità della vita del danneggiato con un conseguente mutamento radicale delle
sue abitudini, dei suoi rapporti personali e familiari. Sulla natura,
presupposti e fondamento del danno esistenziale la dottrina è divisa...mentre
la giurisprudenza è sempre più orientata a ritenere ammissibile la riparazione
del danno esistenziale e questo percorso è da ritenere confermato dalle citate
sentenze 8828 e 8827 e da quella della Corte costituzionale n. 233
(quest’ultima, a differenza delle altre due, fa esplicito riferimento anche al
danno esistenziale).
Quanto al danno esistenziale non è condivisibile la critica di fondo – ancora da taluno sollevata - sostanzialmente lamentando che, con il riconoscimento del danno esistenziale, si opererebbe un’indebita duplicazione risarcitoria con il danno biologico. Questa duplicazione non esiste perché il danno esistenziale è cosa diversa dal danno biologico e non presuppone alcuna lesione fisica o psichica, né una compromissione della salute della persona, ma si riferisce ai già indicati sconvolgimenti delle abitudini di vita e delle relazioni interpersonali provocate dal fatto illecito. Si vedano gli esempi esaminati, e già accennati, nelle sentenze 8827 e 8828.
Neppure
appare corretta l’affermazione secondo cui il danno morale soggettivo, non
risarcibile per la ragione indicata, sarebbe di fatto assorbito dal danno
esistenziale perché, anche con questa affermazione, si confonde la natura delle
due tipologie di danno: il danno morale soggettivo (pati) si esaurisce
nel dolore provocato dal fatto dannoso, è un danno transeunte di natura
esclusivamente psicologica; il danno esistenziale (non facere ma anche un
facere obbligato che prima non esisteva), pur avendo conseguenze di
natura psicologica, si traduce in cambiamenti peggiorativi permanenti, anche se
non sempre definitivi, delle proprie abitudini di vita e delle relazioni
interpersonali.
3.
La riconducibilità del danno alla professionalità al danno “non
patrimoniale” (o esistenziale)
Il
danno esistenziale sussiste a prescindere da lesioni concrete (a differenza del
danno biologico), sussiste, altresì, al di là di una incidenza del
fatto-evento su una prospettiva reddituale (a differenza del danno patrimoniale)
ed, infine, sussiste anche in assenza di comportamenti penalmente rilevanti e
secondo dottrina potrebbe essere ricondotto in una configurazione da genus
a species, rispetto alle altre figure menzionate (danno biologico, danno
morale) e si specificherebbe in quei danni alla personalità ricollegabili a
lesioni dei diritti inviolabili della persona, costituzionalmente garantiti, che
nel campo del lavoro, sono il danno professionale, il danno psicologico
transeunte, il danno alla serenità della vita familiare e nella comunità
lavorativa, alla salutare fruizione dei piaceri
e delle gratificazioni della vita di relazione e dei rapporti sociali.
A
differenza del danno biologico – il quale identificandosi nella concreta
lesione suscettibile di accertamento medico-legale, deve essere provato
rigorosamente nell’eziologia e nell’ entità, ai fini risarcitori – il
danno esistenziale (nelle sfaccettature o componenti sopraspecificate), pur
qualificato «lesione in sé», deve essere solo specificamente provato nei suoi
stessi presupposti e può
sussistere, come si è cercato di chiarire, anche in mancanza di una lesione, e
presentarsi, anzi, come esclusiva ed unica conseguenza del fatto che si assume
lesivo. Talché, una volta provati, tramite
semplici indizi in ordine alla entità, intensità e durata del pregiudizio (per
fare un esempio nel caso di demansionamento, una volta provata la consistente
erosione di mansioni o la totale inattività, rifluenti rispettivamente nei
caratteri della entità ed intensità del pregiudizio anche in relazione alla
tipologia delle mansioni esplicate, nonché la durata del demansionamento)
il pregiudizio sarà risarcibile dal giudice in via equitativa ex art.
1226 e 2056 c.c., in quanto dall’illegittimo comportamento demansionante
conseguono – per valutazione di indizi concludenti e per dato di comune
esperienza o fatto notorio ex art. 115 c.p.c. - i danni lamentati alla
professionalità e all’immagine interno/esterna all’impresa. Nello stesso
modo si dovrà procedere, ai fini risarcitori, anche nell’ipotesi (invero di
netta minoranza in tema di danno da demansionamento), in cui si volesse
disconoscere che il danno è “in re ipsa”, in quanto non è danno-evento ma danno-conseguenza,
quantunque sul danno esistenziale da demansionamento la prevalente
giurisprudenza della Cassazione degli ultimi 12 anni (id est dal 1992 in
poi) abbia sostenuto talora che è “in re ipsa” e poi
più correttamente si sia
attestata nel sostenere la pacifica sufficienza della prova presuntiva
riconoscendo che il puro danno professionale è risarcibile anche in mancanza di
una rigorosa prova di pregiudizio
patrimoniale (invero pressochè o del tutto impossibile a darsi), essendo
intuitivo che le mansioni sottratte e non esercitate determinano, oltre alla lesione del diritto costituzionale all’autorealizzazione
nel lavoro e nella formazione sociale dell’impresa (artt. 1 e 2 Cost.), altresì
un automatico degrado professionale specialmente in capo alle qualifiche più
specializzate e professionali. E’ infatti del tutto intuitivo e nozione di
comune esperienza che il mancato espletamento di tali compiti occasiona
inevitabilmente obsolescenza delle capacità specialistiche e, se preposti al
coordinamento di risorse umane o di uffici, determina perdita esponenziale con
il passare del tempo (per durata protratta
del demansionamento) sia delle capacità decisionali o propositive,
sia delle competenze e attitudini di coordinamento e
addestrativo-formative dei collaboratori di cui si è subita la sottrazione,
tramite ad esempio il ben noto espediente aziendale dello spostamento del
demansionato da una posizione di “line” (o funzionale)
ad una di “staff” (o di mero supporto o studio e ricerche uti
singulus).
Nello
stesso nostro ordine di idee si
muove, in una relazione, un’autrice magistrato, la dr.sa Sanlorenzo del
Tribunale di Torino sostenendo che:
«...l’orientamento che ha posto...a carico del lavoratore demansionato
l’onere di provare pienamente l’esistenza e l’entità del danno lamentato
– richiesta il cui rigore se può sembrare razionale relativamente alla
tipologia del danno biologico – davvero non pare adeguatamente considerare
che, trattandosi di eventi dannosi che si producono pur sempre su beni
immateriali, quali la professionalità, la dignità, l’immagine, anche se
suscettibili di valutazione patrimoniale, comportano inevitabilmente il ricorso
alla prova per presunzioni, che nel nostro ordinamento trova pieno diritto di
cittadinanza attraverso la previsione dell’art. 2729 c.c.» (in “Il
mobbing e il diritto del lavoratore alla prestazione lavorativa”, p.43
in http://dirittolavoro.altervista.org/mobbing_sanlorenzo.html). E nello
stesso senso si esprime l'estensore di Trib. Lecce 20 settembre 2002 dr. Buffa
(in http://dirittolavoro.altervista.org., sezione Mobbing, giurisprudenza)
secondo cui: «La
violazione dell’art. 2103 c.c. assume
dimensioni intollerabili ove il dipendente, ancorché senza conseguenze sulla
retribuzione, sia lasciato in condizioni di forzata inattività e senza
assegnazione di compiti. L’ inattività forzata del lavoratore è la forma più
grave di dequalificazione e demansionamento
e dal demansionamento o dalla forzata inattività del lavoratore non
deriva solo un danno inerente il patrimonio del soggetto, ma anche un danno
relativo alla sua professionalità, intesa essa sia come lesione al
“patrimonio” professionale del dipendente sia come lesione alla qualità
della vita dello stesso, e quindi un danno propriamente esistenziale, che
colpisce la persona in quanto tale (si tratta di danni a beni immateriali,
non suscettibile di valutazione medico-legale ma liquidabili solo in via
equitativa)».
Al
riguardo, a conforto di quanto detto, si cita la massima di Cass.
sez. lav. 22 febbraio 2003, n. 2763, secondo cui: «Va cassata la sentenza
resa in sede d’appello in quanto – nel negare il risarcimento del danno alla
professionalità per asserita carenza di prova di pregiudizio patrimoniale da
parte del dirigente dequalificato, confinato in inattività - ha ignorato come questa Corte ha
ripetutamente avuto modo di sottolineare che dall'articolo 2103 del codice
civile si desume che sussiste il diritto del lavoratore all'effettivo
svolgimento della propria prestazione professionale e che la lesione di tale
diritto da parte del datore di lavoro costituisce inadempimento contrattuale e
determina, oltre all'obbligo di corrispondere le retribuzioni dovute, l'obbligo
del risarcimento del danno da dequalificazione professionale, che può assumere
aspetti diversi in quanto può consistere non solo nel danno patrimoniale
derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal
lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità o nel
pregiudizio subito per perdita di chance ossia di ulteriori possibilità di
guadagno, ma anche - e tali aspetti, nella specie, sono stati completamente
trascurati - in una lesione del diritto del lavoratore alla integrità fisica o,
più in generale, alla salute ovvero alla immagine o alla vita di relazione (per
tutte, Cass., 14 novembre 2001, n. 14199). Più in particolare ancora, occorre
ribadire che la negazione
o l'impedimento
allo svolgimento delle mansioni, al pari del demansionamento professionale,
ridondano in lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della
personalità
del lavoratore anche nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che incide
sulla vita professionale e di relazione dell'interessato, con
una indubbia dimensione
patrimoniale che rende il pregiudizio medesimo suscettibile di risarcimento e di
valutazione anche in via equitativa (Cass.
2 gennaio 2002, n.
10).»
Ed
ancora, circa la non necessità di una (rigida) prova del danno alla
professionalità: «Ove
la parte abbia chiesto, con domanda di condanna specifica, la liquidazione del
danno da dequalificazione, il giudice del merito che abbia accertato, anche
tramite la prova presuntiva, l'esistenza di un danno patrimoniale da
dequalificazione (nella specie per significativa riduzione quantitativa delle
mansioni), non può sottrarsi all'obbligo di una sua determinazione, anche in
via equitativa, per la quale può costituire utile elemento di riferimento
l'entità della retribuzione...» (Cass.
n. 7967/2002); ed ancora:«la
liquidazione equitativa ...deve essere compiuta anche quando sia addirittura
mancata la dimostrazione, in via diretta, dell'esistenza di un effettivo
pregiudizio patrimoniale (Cass. 16 novembre 2000 n. 14443), dato che la prova
presuntiva va ricavata dagli elementi di fatto relativi alla durata del
demansionamento e dalle altre circostanze del caso concreto (Cass. 2 novembre
2001 n. 13580)»
(così Cass. n. 15868/2002). E successivamente nell’ottica di rendere
obbligatorio e non meramente facoltativo il criterio (o metodo) equitativo –
in caso di riscontrata dequalificazione non accompagnata da prova di pregiudizio
patrimoniale ma da indici presuntivi di danno subito -, Cass. n. 8271 del 29
aprile 2004 (est. Mazzarella) ha, incisivamente, affermato che: «
In
caso di accertato demansionamento professionale del lavoratore in violazione
dell'art. 2103 cod. civ., il giudice del merito, con apprezzamento di fatto
incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l'esistenza
del relativo danno in base agli elementi di fatto relativi alla durata della
qualificazione e delle altre circostanze del caso concreto, potendo procedere ad
una autonoma valutazione equitativa del danno, rispetto alla quale non ostano né
l'eventuale insuccesso di una ctu disposta al fine di quantificarlo in concreto
alla luce di criteri lato sensu oggettivi, né l'eventuale inidoneità e/o
erroneità dei parametri risarcitori indicati dal danneggiato dovendosi,
per converso, ritenere contraria a diritto un'eventuale decisione di "non
liquet", fondata, appunto, sull'asserita inadeguatezza dei criteri indicati
dall'attore o sulla pretesa impossibilità di individuarne alcuno,
risolvendosi
tale pronuncia nella negazione di quanto, invece, già definitivamente acclarato
in termini di esistenza di una condotta generatrice di danno ingiusto
e di conseguente legittimità di una richiesta risarcitoria relativa ad una
"certa res lesiva"».
4.
Conseguenze
sul regime probatorio
In
buona sostanza, così suona, oramai da più di un decennio,
il prevalente orientamento della S. corte sul danno alla professionalità
“pura” o "soggettivamente intesa" - che si sostanzia eminentemente
in "danno esistenziale", in quanto lesione del diritto
costituzionale (ex art. 2 e 41 Cost.) al pieno ed effettivo spiegamento
della professionalità del lavoratore nella società e nella comunità di lavoro
nonché al rispetto della sua intangibilità, escludente qualsiasi forma di
negazione o compressione ad opera di pratiche dequalificatorie datoriali -
conseguente a violazione dell’art. 2103 c.c. e dei precetti costituzionali (artt.
1 e 2 Cost.): «Il
demansionamento professionale dà
luogo ad una pluralità di pregiudizi, solo
in parte incidenti sulla potenzialità economica del lavoratore.
Non solo viola lo specifico divieto di cui all'articolo 2103 c.c., ma
costituisce offesa alla dignità professionale del prestatore intesa come
esigenza umana di manifestare la propria utilità nel contesto lavorativo (in cui si
sostanzia il danno alla dignità del
lavoratore, bene immateriale per eccellenza) e quindi lesione del diritto
fondamentale alla libera esplicazione della personalità del
lavoratore nel luogo di lavoro, con la conseguenza che il pregiudizio conseguente
incide sulla vita professionale e di relazione dell'interessato, con
indubbia dimensione patrimoniale
che lo
rende suscettibile di risarcimento e di valutazione
anche
equitativa (Cass.,
18 ottobre 1999, n. 11727). L'affermazione
di un valore superiore della professionalità, direttamente
collegato
ad un diritto fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene
a carattere immateriale, in qualche modo supera
ed
integra la precedente affermazione che la mortificazione della professionalità
del
lavoratore potesse dar luogo a risarcimento solo ove venisse fornita la
prova dell'effettiva sussistenza di un danno patrimoniale (cfr. le
sentenze 11 agosto 1998, n. 7905; 4
febbraio 1997, n. 1026 e 13 agosto 1991, n. 8835)».
Diversa
è stata valutata la fattispecie del danno alla professionalità
“oggettivamente intesa”, cioè il danno da demansionamento o forzata
inattività implicante le connesse perdite di chances
promotive
interne o di miglioramento professionale nel mercato esterno, ove prevale la
tesi giurisprudenziale che tali perdite vanno rigorosamente provate ex art. 2697
c.c. nella loro causalità dal demansionamento, mentre si esprime l’avviso che
sarebbe anche qui sufficiente il ricorso alle presunzioni ex artt. 2727-2729
c.c., giacché è intuitivo che chi mobbizza demansionando certamente nega la
promozione all’inviso quando
solitamente la conferisce invece ai suoi colleghi di pari anzianità o svolgenti
le stesse o similari mansioni, costituendo
questo comportamento - quando statisticamente risultante ed evidenziato
al magistrato come non occasionale
o episodico - parimenti “prova
incontestabile”, tramite un indizio preciso, certo e concordante, di
discriminatorietà con finalità vessatorie cioè a dire espressivo di un uso
illegittimo del potere discrezionale datoriale che in un rapporto obbligatorio
soggiace all’osservanza dei principi di “correttezza e buona fede” ex artt.
1175-1375 c.c.
Per
la non necessità della prova del danno (implicito o immanente) alla
“professionalità pura” e/o per la sufficienza del ricorso alla prova
presuntiva, si è espressa non solo Cass. 6.11.2000 n. 14443 (relegando ad
opinioni superate le precedenti precitate, isolate, sentenze) ma una nutrita
serie di decisioni conformi, precedenti e successive, quali: Cass. 13299/92;
Cass. 11727/99, Cass. 7.7.2001, n. 9228; Cass. 23.10.2001, n. 13033; Cass.
2.11.2001, n. 13580; Cass. 2.1.2002, n. 10; Cass. 1.6.2002, n. 7967; Cass.
12.11.2002,n. 15868; Cass. 22.2.2003, n. 2763.
E
anche se, irrealisticamente, la prova è stata richiesta, in due recenti decisioni (n. 6992 del 14.5.2002 e n. 8904 del
4.6.2003), si è avuto la sensibilità in entrambe di precisare che l’onere
probatorio per il ricorrente risultava assolto dal ricorso alle presunzioni
qualora “fornisca, sia pure a livello di semplici indizi (indizi che
possono trarsi anche semplicemente dal complesso delle circostanze del caso
concreto, quali la natura, l’entità e la durata del demansionamento: cfr.
Cass. 14443/2000; 13580/2002; 15868/2002, cit.), la prova dei danni subiti».
Ma
le più recenti Cass. 29 aprile 2004 n. 8721 (est. Mazzarella) e Cass. 27 agosto
2003 n. 12553 (est. D’Agostino) - reiterando Cass. n. 15868/2002, Cass. n.
13580/2001, Cass. n. 14443/2000 ed altre - hanno escluso nuovamente la rigida
"probatio diabolica" (anteponendole il dato di comune
esperienza, secondo cui dal demansionamento discende automatico degrado od
obsolescenza della specifica professionalità), asserendo espressamente,
quest’ultima, che: «Dalla illegittima attribuzione ad un lavoratone di
mansioni inferiori rispetto a quelle assegnategli al momento dell'assunzione può
derivare non solo la violazione dell'art. 2103 cod. civ., ma anche la violazione
del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua
personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 2 e 3 della Costituzione,
da cui deriva il diritto dell'interessato al risarcimento danno patrimoniale
conseguente al pregiudizio risentito nella vita professionale e di relazione, e
la cui quantificazione può avvenire in via equitativa, ai sensi dell’art.
1226 cod. civ., anche in mancanza di uno specifico elemento di prova da parte
del danneggiato, in quanto la liquidazione può essere operata in base
all'apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi
alla natura, all'entità e alla durata del demansionamento, nonché alle altre
circostanze del caso concreto».
In
un nostro precedente scritto osservavamo come il danno alla professionalità
pura da demansionamento o danno alla professionalità soggettivamente intesa (sostanziantesi
in danno psicologico da mortificazione, sofferenza da inibizione all’autorealizzazione
professionale, danno all’immagine ed alla reputazione ed a beni immateriali
similari, quali la dignità umana, il rispetto, ecc.) è (eminentemente) un
tipico danno esistenziale – pur con una sua
parziale componente
patrimonialmente valutabile per quanto attiene al degrado ed all’obsolescenza
della professionalità specifica – e, quindi, partecipa della stessa natura
del danno (esistenziale) da “irragionevole durata del processo”;
conseguentemente ritenemmo fosse del
tutto pertinente l’accostamento e l’equiparazione, anche in ordine
all’identità del regime probatorio, tra di esso ed il danno da
“irragionevole durata del processo”. Relativamente a quest’ultimo così si
sono espresse le sezioni unite della Suprema corte
nella decisione n. 1339 del
26 gennaio 2004 (inedita allo stato): “«...mentre
l'esistenza del danno patrimoniale, derivando da circostanze esteriori e
sensibili, può (e deve) formare oggetto di specifica dimostrazione, la
sofferenza di un danno non patrimoniale per la lungaggine del processo, avendo
natura meramente psicologica, non è suscettibile di ricevere una obiettiva
dimostrazione, onde l'interprete deve prendere atto che esso si verifica nella
normalità dei casi, secondo l' id quod plerumque accidit. Può, allora,
parlarsi, a proposito del danno non patrimoniale derivante dalla violazione
dell'art. 6 della CEDU (nel profilo considerato dalla legge n. 89/2001, cd.
legge Pinto), non di danno insito nella violazione (danno in re ipsa), ma di
prova (del danno) di regola in re ipsa, nel senso che provata la sussistenza
della violazione, ciò comporta, nella normalità dei casi, anche la prova che
essa ha prodotto conseguenze non patrimoniali in danno della parte processuale (è
normale che la anomala lunghezza della pendenza di un processo produca nella
parte che vi è coinvolta un patema d'animo, un'ansia, una sofferenza morale che
non occorre provare, sia pure attraverso elementi presuntivi. Trattasi di
conseguenze non patrimoniali che possono ritenersi presenti secondo l'id quod
plerumque accidit, senza bisogno di alcun sostegno probatorio relativo al
singolo caso). Ma tale consequenzialità, proprio perché normale e non
necessaria o automatica, può trovare, nel singolo caso concreto, una positiva
smentita qualora risultino circostanze che, dimostrino che quelle conseguenze
non si sono verificate».Il
che equivale, praticamente, ad inversione dell’onere della prova, incombente
pertanto su chi sostiene non essersi realizzata (come di norma avviene) tale
conseguenza pregiudizievole.
Ed
ora - dopo la precitata decisione
n. 10157 del 26 maggio 2004 della sezione lavoro - siamo del tutto confortati
nelle nostre precedenti osservazioni, riscontrando come la stessa sezione lavoro
della Cassazione abbia negato correttezza e validità all’assunto della Corte
d’appello di Milano – estrinsecantesi nella pretesa che il lavoratore direttivo, per ottenere il
risarcimento del danno da dequalificazione, dimostrasse
il pregiudizio patrimoniale subito, sia in forma di danno all’immagine che in
forma di perdute occasioni esterne di lavoro di pari livello – affermando
decisamente che
« unica possibile forma di liquidazione del danno privo delle
caratteristiche della patrimonialità è quella equitativa, sicché la ragione
del ricorso a tale criterio è insita nella natura di tale danno e nella
funzione del risarcimento realizzato mediante dazione di una somma di danaro che
non è reintegratrice di una diminuzione patrimoniale, ma compensativa di un
pregiudizio non economico (Cfr. Cass. n.n. 8827 e 8828 del 2003)». Con
l’aggiunta per cui: «...la valutazione di siffatto pregiudizio, per sua
natura privo delle caratteristiche della patrimonialità, non può che essere
effettuata dal giudice che alla stregua di un parametro equitativo, essendo
difficilmente utilizzabili parametri economici o reddituali».
5.
Le “sacche” di resistenza al nuovo orientamento
Sul
regime probatorio sussistono peraltro ancora minoritarie “sacche di
resistenza” in seno alla stessa sezione lavoro. Per completezza
d’informazione, ricordiamo come la prova viene richiesta
- senza alcuna distinzione tra danno (immanente o intrinseco) alla
professionalità “soggettivamente” intesa ed alla professionalità “in
senso oggettivo”, correlata a perdita di chanches promotive o sul mercato
esterno – da Cass. 14 maggio 2002 n. 6992 (est. Roselli) sull’assunto,
temperato dal ricorso alla prova per presunzioni: «...che per questa come
per qualsiasi altra specie di danno civile il risarcimento spetta quando sia
provata non solo l’attività illecita ma anche l’oggettiva consistenza del
pregiudizio che da essa derivi, non potendo confondersi il risarcimento con l’inflizione
di una sanzione civile, o pena privata, soltanto quest’ultima conseguente
automaticamente alla condotta illecita; che solo quando la sussistenza del danno
sia in qualsiasi modo provata, anche per presunzioni, e tuttavia non sia
dimostrabile il preciso ammontare, il giudice di merito può procedere alla
valutazione equitativa ex art. 1226 cod. civ ....». Ad essa sembrerebbe
conformarsi la recente inedita Cass. 28 maggio 2004 n. 10361 (di cui abbiamo
appreso la sola massima).
Con
un incipit singolare – giacché è notorio che il demansionamento
si attualizza di per se con
la dequalificazione della prestazione, non già
con l’abbattimento del livello retributivo corrispondente -
quanto funzionale per veicolare un messaggio “restrittivo”, si
presenta poi la massima
di Cass. 8 novembre 2003 n. 16792 (est. Foglia),
che successivamente recupera un suo equilibrio
nello svolgimento delle ulteriori argomentazioni, così esprimendosi: «
Non ogni demansionamento determina un danno risarcibile ulteriore rispetto a
quello costituito dal trattamento retributivo inferiore cui provvede, in
funzione compensatoria tramite l’irriducibilità della retribuzione, la norma
codicistica dell’art. 2103. Invero, non ogni modifica delle mansioni in senso
riduttivo comporta di per sé una dequalificazione professionale, poiché questa
fattispecie si connota, per sua natura, con un abbassamento del globale livello
delle prestazioni del lavoratore, con una sottoutilizzazione delle sue capacità
e una conseguenziale apprezzabile menomazione - non transeunte - della sua
professionalità (si pensi alla dispersione o riduzione delle capacità
professionali, in relazione ad un periodo di prolungato sottoutilizzo delle
esperienze lavorative, particolarmente dannoso in settori ad alta tecnologia,
ecc.) nonché con perdita di chance ovvero di ulteriori potenzialità
occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno (Cass., 14.5.2002, n.
6992; Cass., 14.11.2001, n. 14199).
Trattandosi
di danno ulteriore, spetta al lavoratore l'onere di fornirne la prova, mentre
resta al giudice di merito - le cui valutazioni, se sorrette da congrua
motivazione, sono incensurabili in sede di legittimità - il compito di
verificare di volta in volta se, in concreto, il suddetto danno sussiste,
individuarne la specie e determinarne l'ammontare, eventualmente procedendo ad
una liquidazione in via equitativa. In base agli elementi di fatto ed a
particolari circostanze del caso concreto, la prova del danno può essere anche
presuntiva (in questo senso, cfr. Cass., 2.11.2001, n. 13580)» .
Si
sottolinea come – a nostro avviso - la
legittimazione del ricorso alla prova
presuntiva non è un’agevolazione di favor operarii ma si impone di
necessità (più che sufficiente risultando, allo scopo di percepire
il degrado da dequalificazione, il comune buon senso del magistrato ed il
fatto notorio ex art. 115 c.p.c.). Infatti se si ha un minimo di esperienza di
vita lavorativa e aziendale ci si rende immediatamente
conto che non si può pretendere
che il lavoratore certifichi al giudice adito il danno alla “professionalità”...
con la presentazione di un attestato di “obsolescenza” da demansionamento,
eventualmente rilasciatogli da un’agenzia di lavoro temporaneo ovvero
comprovi il corrispondente danno all’immagine ed alla reputazione
professionale tramite la presentazione di un attestato rilasciato da una società
di ricerche di mercato o di privata investigazione.
Va
pertanto condiviso quanto lucidamente asserì
a suo tempo Pret. Milano 21 gennaio
1992, (in D&L, 1992,417):«...l'impossibilità di svolgere il
lavoro per il quale si è idonei, comporta un decremento o, quanto meno, un
mancato incremento della professionalità, intesa come l'insieme delle
conoscenze teoriche e delle capacità pratiche che si acquisiscono da parte del
lavoratore con il concreto esercizio della sua attività lavorativa. La tesi
(della convenuta società, n.d.r.) circa l'inesistenza di un danno, nel
caso specifico, poiché il ricorrente avrebbe potuto aggiornarsi nelle materie
legali anche in mancanza di attività lavorativa, leggendo e studiando le
pubblicazioni del settore...non può essere condivisa. E infatti la
professionalità di un lavoratore intellettuale dipende ed è costituita non
solo dalle nozioni teoriche ma
dalle capacità applicative delle stesse nella prassi lavorativa; essa si forma
nel rapporto con le esigenze tecniche poste dalla pratica quotidiana e non certo
ipotizzabili in termini astratti e teorici e viene stimolata ed incrementata
dall'attività di soluzione delle evenienze che di volta in volta si pongono.
Consegue a ciò che l'assenza del lavoro priva il lavoratore della possibilità
di utilizzare e valorizzare la sua professionalità, determinandone
l'impoverimento; ed, al tempo stesso, ne impedisce la crescita. In tale
prospettazione è evidente che la forzata inattività dal lavoro determina per
il lavoratore un pregiudizio al suo bagaglio professionale, che si traduce in un
danno patrimonialmente valutabile».
Riteniamo
che le posizioni che traguardano ancora la conservazione di un “diabolico
onere probatorio” sul lavoratore per il pregiudizio del danno da
dequalificazione professionale, siano una coda destinata ad esaurirsi –
piuttosto che la fiamma di un fuoco destinato ad alimentarsi – specie ora
dopodiché si è, nella stessa sezione lavoro, imboccata la corretta strada
della riconducibilità del danno da mortificazione, sofferenza interiore,
perdita d’immagine ed eterostima nonchè immmiserimento professionale (sovente
accompagnato da danno biologico), nell’alveo del danno “non patrimoniale”,
di natura esistenziale ed immateriale, intrinsecamente indimostrabile e non
documentabile sub specie di pregiudizio patrimoniale.
Su tale strada, peraltro, ci auguriamo
che prosegua spedita in quanto vi transita in buona compagnia – oltrechè
delle precitate decisioni della Cassazione civile e penale e della Corte
costituzionale – con la recente, omologa, decisione della Cassazione
III sez. civ. del 27 aprile 2004, n. 7980 (afferente al noto cardiochirurgo
infantile Gaetano Azzolina, ingiustificatamente destituito dall’incarico di
primario ospedaliero), la quale ha riconosciuto al danneggiato la natura “non
patrimoniale” del danno da destituzione dal ruolo, impeditivo del disimpegno
delle mansioni contrattuali, riconfermando il già liquidato indennizzo
giudiziale di 350 milioni di vecchie lire (addizionali a risarcimenti
privatamente e transattivamente realizzati), affermando espressamente che: «La
negazione o l'impedimento allo svolgimento delle mansioni al pari del
demansionamento professionale, ridondano in lesione del diritto fondamentale
alla libera esplicazione della personalità del lavoratore anche nel luogo di
lavoro determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di
relazione dell'interessato (vedansi anche Cassazione quarta, Sezione lavoro,
8835/1991, 13299/1992 11727/1999, 14443/2000, 12553/2003): affermazioni dalle
quali la stessa Corte ha talora tratto che il danno cagionato dalla lesione di
tale diritto è risarcibile anche se esso è di natura
non patrimoniale (Cassazione 1026/1997; 10/2002 già citata, ha precisato
che l'affermazione di un valore superiore della professionalità direttamente
collegato a un diritto fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente
un bene a carattere immateriale in
qualche modo supera e integra la precedente affermazione che la mortificazione
della professionalità del lavoratore potesse dal luogo a risarcimento solo ove
fosse stata fornita la prova dell'effettiva sussistenza di un danno
patrimoniale).»
Mario
Meucci
Roma,
15 giugno 2004