- Il
mobbing e il diritto del lavoratore alla prestazione lavorativa
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- Sommario:
1. Il mobbing:
il problema definitorio. 2. La definizione del mobbing
da parte delle dottrine psicologiche e sociologiche. 3. Le proposte di
legge. 4. L’approccio della giurisprudenza.
5. A che cosa serve la nozione di mobbing?
6. Il diritto del lavoratore alla prestazione lavorativa. 7. Conclusioni.
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- 1. Il mobbing: il problema definitorio.
- E’ molto recente la scoperta
del fenomeno del mobbing: molto
recente ma accompagnata da ampia risonanza da parte dei mass media (1), che
del termine hanno fatto un vocabolo ormai di uso comune, utilizzato per
indicare fenomeni diversi, collegati comunque al disagio ed
all’emarginazione del singolo all’interno dell’ambiente di lavoro (e
non solo).
- D’altra parte, a questa
improvvisa esplosione di notorietà ha fatto seguito, per esperienza
quotidiana, il fiorire dei ricorsi che prospettano situazioni di mobbing, e che a queste ricollegano pretese risarcitorie
diversamente qualificate, e quantificate: alle quali, per vero, le
risposte della giurisprudenza sono state sin qui innanzitutto
numericamente molto limitate, e partenti da presupposti molto diversi per
quel che riguarda l’approccio definitorio.
- D’altra parte, la
problematicità di quello che dovrebbe costituire il punto di partenza per l’analisi della fattispecie, è
ben nota a tutti gli studiosi, di qualsiasi formazione, che si sono di
recente avvicinati al fenomeno. Ancora di recente, uno studio intitolato
“Mobbing e rapporto di lavoro – Una fattispecie emergente di danno
alla persona” (2) esordiva con la seguente affermazione “Il fenomeno
del cd. mobbing non ha una
precisa connotazione giuridica e neppure confini certi o determinati sul
piano delle forme e delle modalità attuative”.
- Da questa consapevolezza si deve
partire dunque prima di procedere alla ricapitolazione dello “stato
dell’arte”: avendo ben presente peraltro come la scelta definitoria
che spetterà infine, per quel che è di nostro diretto interesse, alla
scienza giuridica, sarà determinante al fine dell’individuazione degli
strumenti giuridici volti alla repressione delle condotte mobbizzanti, e
quindi al fine di concedere, o negare, al lavoratore tutele nuove, più
avanzate, in grado di coprire effettivamente zone grigie, o “terre di
nessuno” che dir si voglia, dove in precedenza il diritto non sapeva o
non voleva arrivare.
- Qui si annida uno dei primi
interrogativi di fondo rispetto allo studio del fenomeno: quanto di
“nuovo” offre questa novità terminologica, rispetto agli istituti
vigenti nel nostro ordinamento, di matrice costituzionale, legislativa o
giurisprudenziale, comunemente invocati ed utilizzati per dare tutela al
lavoratore? Forse l’interrogativo non è così mal posto, se addirittura il tema di questa relazione consiste in una associazione fra
il concetto di mobbing e la
tematica complessiva del diritto del lavoratore allo svolgimento della
prestazione lavorativa, e dunque alle
mansioni per le quali è stato assunto, tematica che già
dall’enunciazione evoca tutta quell’elaborazione, giurisprudenziale e
dottrinale, in materia di demansionamento e di svuotamento di mansioni da
parte del datore di lavoro, di cui ognuno di noi fa normalmente uso nel
corso della sua pratica quotidiana.
- L’obbiettivo è allora quello
di finalizzare la ricostruzione concettuale, senza alcuna pretesa di
originalità, alla prospettiva dell’applicazione concreta nel tentativo
di individuare, se ve ne sono, le
specificità e le novità effettive apportate dal mobbing:
senza dimenticare che ogni enunciazione di principio dovrà poi misurarsi
con realtà fattuali sempre diverse, sempre particolari, mai
sovrapponibili tra di loro, ricostruibili solo con difficoltà e
difficilmente adattabili a schemi concettuali troppo rigidi e complessi
(3).
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- 2. La
definizione del mobbing da parte
delle dottrine psicologiche e sociologiche.
- Come è noto, si devono alla
psicologia i primi studi relativi al mobbing.
- Stupisce per vero che anche per
questa scienza, la scoperta del fenomeno sia avvenuta abbastanza di
recente. Le prime ricerche e teorizzazioni, da parte di uno studioso, di
origine tedesca ma vissuto
lungamente in Svezia, Hans Leymann, risalgono infatti alla metà degli
anni ottanta: solo nel 1996 tali studi trovarono una consacrazione a
livello scientifico, a seguito della pubblicazione di un intero numero
della rivista European Journal of
Work and Organizational Psychology dedicato al fenomeno, recante
contributi non solo di quello che viene considerato nella comunità
scientifica il “padre del Mobbing”, ma anche di altri esperti,
prevalentemente di nazionalità tedesca o scandinava.
- Nel 1996 è stato pubblicato in
Italia il primo libro dedicato espressamente all’argomento (4), libro
scritto da Harald Ege, Psicologo del lavoro, ricercatore tedesco residente
in Italia da molti anni dove opera, in particolare a Bologna, che si è affermato negli anni seguenti come uno dei più
accreditati e conosciuti specialisti nella materia, venendo a collaborare
infine anche come CTU nella controversia conclusasi con la sentenza del
Tribunale di Forlì, 15 marzo 2001, est. Sorgi, su cui si tornerà
ampiamente più avanti, sentenza che per opinione unanime costituisce il
contributo più avanzato alla definizione del fenomeno da parte della
giurisprudenza.
- Immediata fortuna e diffusione
ha trovato la definizione che Leymann per primo ha attribuito alla sua
“creatura”, ossia quella di “terrore psicologico sul posto di
lavoro”; il termine deriva, come è ormai risaputo, dal verbo inglese to mob, che significa “assalire, aggredire, accerchiare
qualcuno”, utilizzato in etologia per descrivere i comportamenti del
branco volti ad espellere un membro del gruppo.
- In Italia, pari notorietà è
stata ormai raggiunta dalla elaborazione che rispetto alla medesima
nozione è stata fornita da Ege (5), la cui espressione più recente è
pervenuta a descrivere “il mobbing (come) una
situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in
constante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di
azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in
posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla
vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato si trova
nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo
andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che
possono portare anche a invalidità psicofisiche permanenti di vario
genere e percentualizzazione”.
- In altre sue opere, (6) Ege
arriva a definire il mobbing come
una vera e propria “guerra sul lavoro, in cui, tramite violenza
psicologica, fisica e/o morale, una o più vittime vengono costrette ad
esaudire la volontà di uno o più aggressori. Questa violenza si esprime
attraverso attacchi frequenti e duraturi che hanno lo scopo di danneggiare
la salute, i canali di comunicazione, il flusso di informazioni, la
reputazione e/o la professionalità delle vittime”.
- Nello stesso testo, Ege fornisce
un altro, preziosissimo contributo, nell’individuare addirittura le
categorie in cui suddividere gli attacchi mobbizzanti, in numero di
cinque, e relative a:
- 1. attacchi ai contatti umani
(limitazioni alle possibilità di esprimersi, continue interruzioni del
discorso, critiche e rimproveri costanti, sguardi e gesti con significato
negativo, ecc.);
- 2. isolamento sistematico
(trasferimento della vittima a un luogo di lavoro isolato, comportamenti
tendenti ad ignorarla, divieti di parlare o intrattenere rapporti con
questa persona, etc.);
- 3. cambiamenti delle mansioni
(revoca di ogni mansione da svolgere, assegnazione di lavori senza senso,
nocivi o al di sotto delle capacità della vittima, cambiamenti comuni
degli incarichi, etc.);
- 4. attacchi contro la reputazione
(calunnie, pettegolezzi, ridicolizzazione dei difetti o delle
caratteristiche della vittima, turpiloquio, valutazione sbagliata o
umiliante delle sue prestazioni, ecc.);
- 5. violenza o minacce di violenza
(minacce o atti di violenza fisica o a sfondo sessuale, etc.).
- Nella sua ultima opera (7), Ege
arriva per certi versi ad estremizzare questa sua ansia definitoria,
fornendo comunque premesse essenziali per la comprensione del fenomeno, e
per il superamento di ogni possibile equivoco, incominciando a porre
chiarezza su quello che non è e non deve essere considerato mobbing
: il mobbing, lo si
è già detto, non è una singola azione, consistente in un unico
demansionamento, un trasferimento, gravoso, un ordine di servizio
umiliante, l’assegnazione ad una postazione di lavoro scomoda ed
ergonomicamente scorretta, ma è una strategia, un attacco continuato,
ripetuto, duraturo; non è una malattia, ed in particolare non è una
malattia psichiatrica, ma è invece una situazione (8); non è un problema
dell’ambiente familiare(9); non è una molestia sessuale, anche se la
molestia di questo genere può essere utilizzata come uno degli strumenti
a questo fine; non individua un tipo particolare di vittima, ma può
essere indirizzato contro chiunque, secondo dinamiche che si sviluppano
maggiormente in ambiente impiegatizio e nel settore pubblico (10) .
- Più attenti al versante
rappresentato dalle sofferenze della vittima, e forse meno a quello
rappresentato dall’ambiente e dalle dinamiche in cui il fenomeno si
sviluppa, in un’ottica più schiettamente terapeutica, altri autori
(11), con formazione peraltro più strettamente medica, individuano il mobbing in quella “situazione di aggressione, di esclusione e di
emarginazione di un lavoratore da parte dei suoi colleghi o dei suoi
superiori”, in altri termini in una “malattia sociale trasversale”,
che si caratterizza per “la continuità delle aggressioni nel tempo, lo
stillicidio di eventi persecutori, l’intensificazione progressiva di
attacchi che portano la vittima all’isolamento, all’emarginazione, al
disagio ed alla malattia”.
- Tra le conseguenze più
frequenti sul piano patologico, la neuropsichiatria individua appunto una
diagnosi specifica di “disturbo postraumatico da stress”, formula che
indica quell’insieme di disturbi psichici (come depressione, ansia,
pensiero ossessivamente concentrato, stato di tensione perpetua e di
iperallerta), che compaiono dopo un trauma psichico acuto o comulativo.
Negli altri casi la diagnosi è di “disturbo dell’adattamento”, che
ha gli stessi caratteri del disturbo postraumatico da stress ma in forma
meno intensa e senza conseguenze croniche
- Generale condivisione, salvo
alcune varianti terminologiche che non intaccano la sostanza del fenomeno,
trova poi la suddivisione tra il mobbing
cd. “verticale”, quando
esso viene attuato da un capo verso i sottoposti, e quando è l’intera
azienda che mette in atto una strategia diretta o indiretta per rendere
impossibile la vita a un dipendente sgradito in modo da costringerlo a
licenziarlo (il fenomeno in questione viene anche denominato, da certi
studiosi, come bossing) (12), opposto al mobbing
cd. “orizzontale”, che si verifica quando un certo numero di
colleghi emarginano qualcuno che, per qualche motivo, il gruppo non vuole
(13). Talvolta, secondo questi studi, questa molestia collettiva
orizzontale può essere una dinamica psicologica di branco quasi
inconsapevole, diretta a scaricare su un capro espiatorio le tensioni,
l’aggressività, le gelosie del lavoro.
- Ma la psicologia del lavoro
considera anche come fenomeno reale, seppure numericamente
limitato, quello relativo al mobbing “dal basso”, ossia posto in essere da soggetti posti a
livello inferiore nella scala gerarchica che regola l’organizzazione
dell’azienda di comune appartenenza: è documentata una minoranza di
casi in cui l’attacco alla vittima viene appunto dal basso, ossia da
sottoposti che non accettano il capo e che mettono in atto una sorta di
ammutinamento contro di lui (14).
- Per sintetizzare, i tratti
comuni che vengono identificati relativamente al fenomeno in questione
sono la ripetitività nel tempo delle condotte, e la loro riconducibilità
ad un identico disegno, quello che ha per oggetto appunto l’esclusione,
l’emarginazione del lavoratore (non necessariamente la sua estromissione
dall’ambiente di lavoro, che piuttosto caratterizza, come si è detto,
il genus più ristretto costituito dal bossing).
- Quanto al primo requisito, se
Leymann nei suoi studi è arrivato a definire in sei mesi la durata minima
dell’arco temporale necessario e sufficiente per poter diagnosticare una
situazione di mobbing, richiedendo
comunque una frequenza degli attacchi mobbizzanti non inferiori alla
settimana, si consideri che Ege (15) in base all’osservazione dei casi
che gli si sono presentati, ha ritenuto di poter aderire a parametri meno
rigidi, per quel che riguarda la frequenza indicando una cadenza delle
azioni ostili di almeno alcune volte al mese, e per ciò che concerne la
durata ammettendo anche la configurabilità di un periodo minore, a patto
che più elevata sia la frequenza delle azioni rivolte contro la vittima.
- Numerosi spunti problematici,
soprattutto in relazione alla sua importanza determinante, offre poi il
secondo requisito, quello dell’elemento intenzionale: a voler tacere in
questo momento delle evidenti difficoltà di prova, è sui contenuti di
tale elemento che è indispensabile fare chiarezza.
- Non è richiesto, si è detto,
che di tale elemento intenzionale faccia parte l’obbiettivo di espellere
il soggetto dall’ambiente di lavoro: tale connotato ricorre solo in una
delle tipologie, il cosiddetto bossing
(16).
- In tutte le altre ipotesi, ed in
particolare in quella del mobbing orizzontale,
ciò che ricorre è un generico intento persecutorio, che può essere
volto sì ad allontanare il lavoratore, ma anche solo a procurargli
fastidio, bloccargli la carriera, isolarlo o metterlo in ridicolo. Si
tratta di un atteggiamento ostile e negativo, che può sorgere in base
alle dinamiche più varie, e che individua la sua vittima senza alcuna
regola prefissata, ponendola però al centro di una ripetuta serie di
attacchi: è questo, indubbiamente, il tratto distintivo, l’elemento
qualificante del fenomeno, e, ritengo, anche il profilo di maggiore
interesse per le scienze psicologiche e neuropsichiatriche. Per ciò che
concerne il diritto del lavoro, è il carattere in grado di dare rilevanza
unitaria ad una serie di comportamenti, anche solo materiali, di per sè
magari formalmente legittimi, o quantomeno neutri, ma che finiscono per
assumere una valenza negativa ulteriore e specifica: è ciò che segna,
nei suoi tratti identificativi, la vera novità del fenomeno mobbing,
rispetto a tutte le ipotesi di condotte illecite da parte del datore di
lavoro, tali da suscitare la reazione dell’ordinamento a tutela
effettiva della persona del lavoratore.
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- 3. Le
proposte di legge.
- Da
registrarsi, negli anni recenti, anche un notevole interesse del
legislatore nei confronti del fenomeno (17). Numerosi risultano, infatti,
ad oggi, i disegni di legge presentati volti a definire, e quindi
a sanzionare, il mobbing
:
disegni di legge che non risultano essere mai stati portati in Aula,
o in Commissione, e
che quindi al momento giacciono senza serie ed immediate prospettive di
approvazione: fatto questo che non può che creare sconcerto e
frustrazione soprattutto in chi, soprattutto se giudice di merito, viene
chiamato ormai molto di frequente ad assumere delle scelte definitorie che
non trovano poi alcun genere di appiglio normativo, ma che necessariamente
devono riferirsi soltanto agli approdi delle
dottrine extra giuridiche.
- Il primo
progetto di legge (n.1813 del 9.7.1996) aveva ad oggetto “Norme per la
repressione del terrorismo psicologico nei luoghi di lavoro” (con chiaro
riferimento alle suggestioni leymaniane), ed era composto da un solo
articolo, in cui si sanciva, al primo comma:
- “chiunque cagiona un danno ad altri ponendo in essere una condotta
tesa ad instaurare una forma di terrore psicologico nell’ambiente di
lavoro è condannato alla reclusione da uno a tre anni e
all’interdizione dai pubblici uffici fino a tre anni”.
- Si tratta,
con tutta evidenza, di un primo approccio ancora molto arretrato rispetto
alle ricche elaborazioni della scienze psicologiche; soprattutto, sembra
criticabile l’adozione del solo strumento della repressione penale, che
trascura altre e più salienti forme di responsabilità, e che soprattutto
viene a colmare un vuoto che in realtà non esiste, dal momento che il
nostro ordinamento già conosce fattispecie criminose autonomamente
sanzionate che ben potrebbero applicarsi a condotte quali quelle prese in
considerazione dal DDL del 1996 (in particolare, le lesioni colpose,
perseguibili d’ufficio, ex art. 590 c.p., e la violenza privata, ex art.
610 c.p.) (18).
- E’ di
tre anni successivo il DDL n.6410, presentato alla Camera il 30.9.1999
(primo firmatario, on. Benvenuto), che si preoccupa innanzitutto di
fornire una nozione di mobbing
indubbiamente più in linea con le analisi della scienza psichiatrica.
All’art. 1, si prevede che:
- “Ai fini della presente legge, per violenza e
persecuzione psicologica si intendono gli atti posti in essere e i
comportamenti tenuti da datori di lavoro, nonché da soggetti che
rivestano incarichi in posizione sovraordinata o pari grado nei confronti
del lavoratore, che mirano a danneggiare quest’ultimo e che sono svolti
con carattere sistematico e duraturo e con palese determinazione.
- Gli atti e i comportamenti rilevanti ai fini
della presente legge si caratterizzano per il contenuto vessatorio e per
le finalità persecutorie (...)
- Il danno di natura psico – fisica provocato dagli atti e
comportamenti di cui ai commi 2 e 3 rileva ai fini della presente legge
quando comporta la menomazione della capacità lavorativa, ovvero
pregiudica l’autostima del lavoratore che li subisce, ovvero si traduce
in forme depressive”.
- Lo sforzo
definitorio ha decisamente un’altra intensità: ed anzi, il rischio che
corre una tale iniziativa legislativa è quella di porre dei confini
troppo rigidi alla fattispecie legale, rispetto all’ampio ventaglio di
variabili che l’esperienza concreta presenta. Qualche dubbio, per
esempio, suscita il fatto che
costituisca elemento costitutivo della fattispecie la conseguente
“menomazione della capacità lavorativa”, ovvero il pregiudizio
all’autostima del lavoratore, oppure la causazione di forme depressive:
quando tali sorte di eventi per un verso risultano difficilmente
dimostrabili in sede processuale, per altro non sono nemmeno esaustive
rispetto alle varie forme di disagio e di sofferenza che possono
discendere al lavoratore che nel suo ambiente di lavoro è stato fatto
vittima di mobbing.
- Preferibili
allora appaiono da parte dell’interprete, quelle proposte che pur
individuando alcuni tratti essenziali del fenomeno, lasciano ampi margini
allo sforzo ricostruttivo. In particolare, il DDL n.4265 del 13.10.1999
(firmatari, i senatori De Luca, Smuraglia e Tapparo), definisce il mobbing
in termini di :“violenze
morali e persecuzioni psicologiche nell’ambito dell’attività
lavorativa poste in essere con azioni – a carattere sistematico,
duraturo e intenso – che mirano a danneggiare una lavoratrice o un
lavoratore”.
- L’ampiezza
della definizione si accompagna, per vero, all’indicazione di due
requisiti essenziali: la ripetitività del comportamento molesto (non
tipizzato), e l’intenzionalità delle condotte, necessariamente volte ad
un fine persecutorio.
- Un’altra
proposta, sempre del 1999 (DDL 2.11.1999 n.4313), ed ancora a firma del
senatore De Luca, riprende i tratti essenziali della precedente, e si
riferisce alla “violenza psicologica” come :
- “qualsiasi atto e comportamento, da chiunque
esercitato allo scopo di provocare in un ambito lavorativo, un danno al
lavoratore.
- Gli atti ed i comportamenti di cui al comma 1, esercitati
singolarmente o da un gruppo, devono essere perpetrati in modo offensivo e
vessatorio ed essere svolti con carattere sistematico e continuativo
rilevando a tal fine anche quelli che tendono a discriminare, screditare,
emarginare, isolare e demotivare il lavoratore o ad indurlo a
comportamenti contrari alla sua etica”.
- Si
segnalano ancora, per completezza, la proposta n.6667, presentata alla
Camera il 5.1.2000 dall’on.
Fiori, che riprende l’approccio caratterizzato
dall’intento di repressione penale,
e il DDL n.4512 del 2.3.2000, presentato dall’on. Tomassini, che
invece riprende la definizione del fenomeno, incentrata sui tratti
salienti della sistematicità e continuatività delle condotte e della
finalità persecutoria.
- Con la
nuova legislatura, apertasi nell’aprile 2001, altri Disegni di Legge
hanno visto la luce: è stato ripresentato quello a firma del sen. Magnalbò
(ora al n.422 del 9.7.2001), intitolato “Norme per contrastare il
fenomeno del mobbing”, cui se ne è affiancato un altro, di contenuto
assolutamente identico, presentato dal sen. Costa (n.870 del 21.11.2001).
La particolarità di questi due disegni di legge è rappresentata dal
fatto che si tenta di pervenire ad una tipizzazione dei comportamenti
capaci di integrare mobbing, tra
cui:
- “attacchi alla reputazione, creazione di falsi pettegolezzi,
insinuazioni malevole, segnalazioni diffamatorie, attribuzioni di errori
altrui, carenza di informative e informazioni volutamente errate, al fine
di creare problemi, controlli e sorveglianza continui, minacce di
trasferimenti, apertura di corrispondenza, difficoltà di permessi o
ferie, assenza di promozioni o passaggi di grado, ingiustificata rimozione
da incarichi già ricoperti, svalutazione dei risultati già ottenuti”.
- Si tratta
di uno sforzo notevole, senz’altro, ma rispetto al quale non possono
tacersi i rischi di omissioni e di dimenticanze rispetto al pressoché
infinito ventaglio di possibili condotte capaci di integrare il mobbing
:
una eccessiva rigidità definitoria verrebbe evidentemente a delimitare
gli spazi di tutela, a fronte di una palese impossibilità di prevedere in
astratto e a priori quelli che
potrebbero essere i diversi modi di manifestarsi di un identico fenomeno.
- In ambito
regionale, prima fra tutte la Regione Lazio ha varato una Legge contro il mobbing (la n.16 dell’11 luglio 2002) che prevede l’istituzione,
in ogni azienda sanitaria, di appositi centri anti – mobbing. Le vittime di tali comportamenti potranno ricevervi una
prima consulenza legale, ma anche un sostegno medico – legale. Le Asl
potranno procedere anche al richiamo del datore di lavoro invitandolo ad
assumere “provvedimenti idonei” per rimuovere le cause dell’abuso.
- Da ultimo,
è importante ricordare che anche il Parlamento europeo si è occupato del mobbing, ponendolo
quale oggetto di una sua risoluzione
(A5 – 0283 del 20.9.2001), con la quale invita la Commissione
“ad attribuire importanza a misure di miglioramento dell’ambiente
lavorativo che siano lungimiranti, sistematiche e preventive, finalizzate
tra l’altro a combattere il mobbing
sul posto di lavoro e a valutare l’esigenza di iniziative in
tal senso”; esorta gli stati membri a rivedere o completare la propria
legislazione sotto il profilo della lotta contro il mobbing e le molestie
sessuali e ad uniformare la definizione della fattispecie mobbing;
esorta le parti sociali ad elaborare strategie idonee per contrastare tale
fenomeno e invita la commissione a presentare un libro verde di analisi
dettagliata della situazione, nonché, entro l’ottobre 2002, un
programma d’azione concernente le misure comunitarie contro il mobbing sul posto di lavoro.
- Esiste poi
una Comunicazione della Commissione (COM (2002)118 def.11.3.2002),
“Adattarsi alle trasformazioni del lavoro e della società: una nuova
strategia comunitaria per la salute e la sicurezza 2002 – 2006” che si
occupa nello specifico del benessere sul luogo di lavoro che sia “tanto
fisico quanto psicologico e sociale e che non si misura semplicemente con
l’assenza di infortuni o di malattie professionali” (19).
- Si tratta
di prese di posizione che paiono importanti, e che soprattutto rendono più
difficile un atteggiamento di chiusura, che neghi ogni dignità di
appartenenza al nostro ordinamento positivo di questo nuovo fenomeno,
riconosciuto ormai come effettivo e dannoso anche dalle istituzioni
comunitarie.
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- 4. L’approccio
della giurisprudenza.
- Posti sin
qui, da un lato, i risultati degli studi psico – sociologici, e
dall’altro, le aperture mostrate dal legislatore, ancora senza esito, si
impone la necessità di andare ad esaminare lo stato contemporaneo
dell’elaborazione giurisprudenziale, ovviamente seguita dal costante, e
critico, interesse della dottrina.
- Come si è
già detto, alla improvvisa esplosione di notorietà del fenomeno sui mass – media, non ha certo corrisposto un analogo successo nelle
aule giudiziarie. L’esperienza quotidiana evidenzia un aumento
esponenziale dei ricorsi, e delle denunce alle Procure della Repubblica,
che hanno ad oggetto comportamenti datoriali qualificati come mobbing,
a cui però non corrisponde un proporzionale incremento delle pronunce
sull’argomento.
- Una
panoramica giurisprudenziale non può certo non partire dalle due sentenze
del Tribunale di Torino, entrambe del 1999, ed emesse dal medesimo
Giudice, Vincenzo Ciocchetti, che hanno avuto vasta risonanza sulle
riviste giuridiche (e non solo) (20).
- Si tratta
di decisioni che affrontano ipotesi diverse ma con forti tratti di
analogia, tra cui quello riguardante il sesso delle due ricorrenti.
- La prima
verteva sulla vicenda di una lavoratrice che lamentava di essere stata
assegnata dal suo superiore gerarchico, pochi giorni dopo la sua
assunzione, al lavoro su di una macchina, all’epoca collocata in uno
spazio ridotto posto tra altre due macchine, così da isolarla
completamente rispetto all’ambiente esterno: dopo l’insorgere di una
grave crisi depressiva la lavoratrice aveva deciso di rassegnare le
proprie dimissioni, e quindi aveva agito giudizialmente per il
risarcimento del danno.
- La seconda
riguardava invece la storia di altra lavoratrice, cui il datore si era
rivolto in una occasione per chiederle, evidentemente con una certa forma
di pressione, di rassegnare le proprie dimissioni poiché aveva saputo che
il suo convivente, già dipendente della stessa azienda, era passato a
lavorare per una impresa in concorrenza: anche in questo caso, si era
registrato l’insorgere di una forte sindrome ansioso – depressiva, che
aveva determinato una lunga assenza dal lavoro, durante la quale era stata
assunta altra dipendente destinata a svolgere le mansioni già della
ricorrente, la quale al suo rientro si era vista assegnare compiti
fortemente dequalificati, che l’avevano indotta, anche in tal caso, a
rendere le proprie
dimissioni.
- Analoga
era stata la risposta del giudice: accertata la sussistenza delle
condotte, superato ogni problema definitorio attraverso il ricorso
(definito dai commentatori alquanto “disinvolto”
(21) alla nozione di “fatto notorio”, inteso come fatto “acquisito
alle conoscenze della collettività in modo da non esigere dimostrazione
alcuna in giudizio” nell’ambito della quale inquadrare il fenomeno del
mobbing, ritenuta la superfluità
di ogni accertamento tecnico di natura medico – psichiatrica per
valutare l’esistenza e la sussistenza del danno, il Tribunale di Torino
in entrambe le occasioni è pervenuto a liquidare una somma a titolo di
risarcimento del danno, a titolo sia di danno biologico, seppure non con
effetti permanenti, sia di quello da demansionamento, quantificata in
dieci milioni di lire sulla base del mero parametro dell’equità.
- Va
riconosciuto ad entrambe le pronunce il coraggio di avere saputo e voluto
introdurre così nel mondo del “diritto vivente” un fenomeno ignoto
alle aule giudiziarie, nonostante la grande risonanza che gli veniva data
all’esterno, e soprattutto l’evidente rispondenza ad un bisogno di una
tutela avanzata, ulteriore rispetto a quella offerta dagli strumenti
tipici del diritto del lavoro: se poi al Tribunale di Torino si imputa
(con seri fondamenti, va detto) di avere voluto in qualche modo ignorare,
o sminuire, la necessità di partire da uno sforzo definitorio, orbene,
non si può nascondere che la stessa Corte di Cassazione, nella prima
delle occasioni in cui, se pure in un obiter
dictum, si è andata ad occupare del mobbing
(22), non ha certo
assolto meglio al compito che oggi lucidamente viene posto come
imprescindibile, limitandosi a riferirsi ad esso
come a quel fenomeno che “indica l’aggredire la sfera psichica
altrui, mutuato dal linguaggio usato in altri paesi in cui il fenomeno
stesso da tempo è oggetto di studi particolari” .
- Evidentemente
(e si torna al nucleo del problema da cui si è partiti) il bisogno di una
definizione si rende quanto più pressante in quanto si ha in mente il
tipo di tutela che si vuole predisporre: nel caso del Tribunale di Torino,
per esempio, è stato negato, ed anche autorevolmente, che le fattispecie
concrete potessero essere inquadrate secondo la nozione scientifica (in
assenza di quella giuridica) di mobbing
(23), perché risultavano carenti di entrambi i requisiti
essenziali: la frequenza e la sistematicità delle azioni, e l’intento
persecutorio che le deve informare.
- Ma venendo
più strettamente a quello che le due decisioni hanno comportato, dal
punto di vista dei contenuti della statuizione, si osserva da un lato che
il Tribunale di Torino ha individuato innanzitutto, con tecnica
ineccepibile, il fondamento della sanzionabilità delle condotte datoriali
nell’art. 2087 c.c., che fonda l’obbligo dell’imprenditore a
garantire l’integrità fisico – psichica dei propri dipendenti, e
quindi “ad impedire contegni aggressivi e vessatori dei responsabili nei
confronti di quelli”; secondariamente, ha riconosciuto il diritto delle
lavoratrici al risarcimento del danno, che è stato liquidato utilizzando
due categorie già ben note, e comunemente utilizzate, dalla
giurisprudenza di legittimità e di merito: il danno biologico, e il cd.
danno da demansionamento.
- Anche tale
conclusione sanzionatoria, pertanto, sembrerebbe dare ragione a chi
contesta la riconducibilità delle fattispecie concrete a questo nuovo
fenomeno: seppure qualificate secondo schemi innovativi, la risposta che
ad esse si è fornita non conosce strumento nuovi e diversi con i quali il
giudice sanzionava, e sanziona, le violazioni dell’art. 2087 c.c., e
dell’art. 2103 c.c.
- Proseguendo
nella rassegna delle decisioni (poche) che sino ad oggi hanno affrontato
l’argomento, per lo più negandone la sussistenza, si sottolinea invece
l’approfondimento definitorio contenuto in due sentenze del Tribunale di
Milano.
- La prima,
pronunciata in grado di appello (24), espressamente sancisce che “non è
configurabile un danno psichico del lavoratore, del quale il datore di
lavoro sia obbligato al risarcimento, conseguente ad una allegata serie di
vicende persecutorie lamentate dal lavoratore stesso (c.d. “mobbing”),
qualora l’assenza di sistematicità, la scarsità di episodi, il loro
oggettivo rapportarsi alla vita di tutti i giorni all’interno di una
organizzazione produttiva, che è anche luogo di aggregazione e di
contatto (e di scontro) umano, escludano che i comportamenti lamentati
possano essere considerati dolosi”.
- La
pronuncia si segnala perché individua con chiarezza i tratti distintivi
del mobbing, quali individuati dalla scienza psichiatrica, e ritiene di
utilizzarli de plano ai fini
dell’inquadramento della fattispecie: l’elemento della reiterazione e
della sistematicità delle condotte, e l’intenzionalità delle stesse.
Si segnala altresì perché evidenzia come “il fatto che il mobbing sia stato oggetto di attenzioni sociologiche e anche
televisive non lo rende insensibile alle regole che vigono in campo
giuridico allorquando ad esso si vogliono collegare conseguenze giuridiche
in termini di risarcimento del danno”: e su questa linea si colloca la
seconda sentenza del Tribunale di Milano (25), che richiama gli oneri
probatori su cui si regge il processo del lavoro, e che esclude la
sussistenza del mobbing “qualora non venga offerta rigorosa prova del danno e
della relazione causale fra il medesimo ed i pretesi comportamenti
persecutori, che tali non possono dirsi qualora siano riferibili alla
normale condotta imprenditoriale funzionale all’organizzazione
produttiva”.
- Molto
citata, e variamente commentata, risulta poi la sentenza del Tribunale di
Como (26), emessa a suggello di una vicenda processuale in cui una
giornalista evocava in giudizio il capo servizio del giornale di cui era
collaboratrice (e non, si badi, il giornale medesimo, o la casa editrice,
o comunque un’entità identificabile con il suo “datore di lavoro”),
lamentando che da parte di costui fossero stati posti in essere nei suoi
confronti “comportamenti persecutori e di vessazioni professionali”
che le avevano cagionato un danno alla salute, di cui chiedeva il
risarcimento.
- Il
Tribunale di Como richiamati i precedenti sul tema, ed in particolare la
prima sentenza del Tribunale di Torino, è pervenuto ad elaborare e ad
esplicitare una propria definizione del fenomeno, nei seguenti termini:
“Il mobbing aziendale, invece
(in contrapposizione alle molestie,
ndr.), è l’insieme di atti, ciascuno dei quali è apparentemente
inoffensivo. L’elemento psicologico consiste nell’”animus
nocendi” , che mira a ledere la psiche del mobbizzato e ad
espellerlo da una comunità. Il mobbing è collettivo, così come la genesi etologica sembra
indicare”.
- A tale
sforzo definitorio si è opposta vivacemente la dottrina psicologica, ed
in particolare colui che in Italia di mobbing
maggiormente ha scritto,
Harald Ege. Ege ha criticato la definizione del Tribunale di Como sotto
due profili, di non secondaria importanza: quello per cui si dovrebbe
trattare innanzitutto di un fenomeno collettivo, posto in essere da una
pluralità di soggetti, e l’altro, secondo il quale l’elemento
intenzionale dovrebbe consistere nello scopo preciso di espellere la
vittima.
- In realtà,
secondo quanto afferma Ege, nessuno degli studiosi che si sono occupati
del fenomeno ha affermato che la pluralità dei mobbers
costituisce un requisito caratterizzante la fattispecie: anzi,
nell’ambito delle rilevazioni statistiche svolte dagli psicologi (Leymann,
primo fra tutti), si evidenziava che ben un caso su tre riguardava una
singola persona responsabile di mobbing.
- Non
diversamente, ciò che caratterizza il dolo, nel mobbing,
non è lo scopo di giungere all’espulsione della vittima dall’ambiente
di lavoro: lo scopo può essere più limitatamente quello di danneggiarla,
di emarginarla, di discriminarla, magari fino a quando non giunga a
perdere il posto di lavoro, anche perché costretta a lasciarlo. Ma non
necessariamente, questo esito finale deve essere voluto sin dall’inizio
da chi pone in essere condotte di mobbing:
d’altronde, come ricorda Ege, per indicare la fattispecie caratterizzata
da questo specifico elemento intenzionale, è stata individuata una
categoria particolare di mobbing, il
cosiddetto bossing, già sopra
richiamato.
- Grande
importanza nell’ambito di questo capitolo deve essere attribuita alla
sentenza del Tribunale di Forlì, est. Sorgi, 15 marzo 2001 (27): sentenza
che si assume appieno il compito di formulare una definizione del
fenomeno, e soprattutto, di identificare le forme di risarcimento del
danno più idonee a fronte della fattispecie.
- Il
Tribunale di Forlì innanzitutto, partendo dalla pacifica constatazione
circa l’assenza nel nostro ordinamento di una normativa specifica che
fornisca una definizione di mobbing
ed appronti gli strumenti repressivi, esprime il convincimento per cui
tale fenomeno potrà ricorrere “solo
ed in quanto determinate condotte presentino i requisiti richiesti dalla
psicologia del lavoro internazionale (Leymann) e nazionale (Ege)”: in
tutti gli altri casi in cui
invece si registra una mera somiglianza, ogni episodio dovrà essere
diversamente catalogato e darà diritto a diversi profili di tutela
risarcitoria.
- Il
pericolo, in effetti, è quello che si affermi l’equazione per cui
“tutto è mobbing, niente è mobbing”:
compito primo della giurisprudenza è dunque quello di evitare dannose
generalizzazioni, e di affrontare consapevolmente e responsabilmente quel
lavoro definitorio che sin qui il legislatore ha trascurato.
- Il
Tribunale di Forlì parte appunto dalla condivisione dei caratteri
distintivi del mobbing, quali individuati dalla psicologia del lavoro: e fornisce
una nozione, in base alla quale per mobbing
si deve intendere “quel comportamento, reiterato nel tempo, da parte
di una o più persone, colleghi o superiori della vittima, teso a
respingere dal contesto lavorativo il soggetto mobbizzato che a causa di
tale comportamento in un certo arco di tempo subisce delle conseguenze
negative anche in ordine fisico da tale situazione”.
- Ma il
Giudice non condivide solo la nozione che dalla psicologia del lavoro,
dalla più classica in argomento, è stata elaborata: condivide anche quel
“modello italiano” di mobbing
elaborato da Ege, che arriva a individuare sei fasi diverse in cui si
realizza la sua escalation (a fronte delle quattro individuate da Leymann):
“Dopo la cd. condizione zero di conflitto fisiologico normale ed
accettato, si passa alla prima fase del conflitto mirato, in cui si
individua la vittima e verso di essa si dirige la conflittualità generale
... La seconda fase è il vero e proprio inizio
del mobbing nel quale la
vittima prova un senso di disagio e di fastidio ... La terza fase è
quella nella quale il mobbizzato comincia a manifestare i primi sintomi
psicosomatici, i primi problemi per la sua salute... La quarta fase del mobbing
è quella caratterizzata da errori ed abusi dell’amministrazione del
personale che, insospettita dalle assenze del soggetto mobbizzato, erra
nella valutazione negativa del caso non riuscendo, per carenza di
informazione sull’origine della situazione, a capire le ragioni del
disagio del dipendente... La quinta fase del mobbing
è quella dell’aggravamento delle condizioni di salute psicofisica del
mobbizzato che cade in piena depressione ed entra in una situazione di
vera e propria prostrazione... Resta la sesta fase, per altro indicata
solo e fortunatamente eventuale, nella quale la storia del mobbing
ha un epilogo: nei casi più gravi nel suicidio del lavoratore, negli
altri nelle dimissioni, o anticipazione di pensionamenti, o in
licenziamenti.”
- Per
individuare i punti salienti della decisione che si sta commentando, è
evidente innanzitutto che il Tribunale di Forlì condivide appieno i
risultati che ci derivano dagli studi degli specialisti psicologi:
condivide il tratto della ripetitività e della sistematicità delle
condotte, le quali peraltro non sono e non devono essere tipizzate (nel
caso di specie, si erano realizzati un trasferimento del lavoratore, un
demansionamento, e, accanto a queste evidenti violazioni di specifiche
norme a tutela del lavoratore, comportamenti materiali quali la privazione
delle chiavi del garage e della possibilità di usufruire del posto
macchina).
- Condivide
poi il Giudice di Forlì un altro carattere importante, ossia la durata
del mobbing: la vicenda concreta peraltro si era dipanata per più anni,
in cui via via si erano venute a realizzare le varie condotte, unificate,
per così dire, dall’esistenza dell’identità dello scopo, quindi non si poneva nemmeno il problema di un termine
minimo, sul quale invece, come si è visto, gli psicologi del lavoro si
sono espressi.
- Pare
discostarsi invece la decisione che si commenta dalle conclusioni cui è
pervenuta la psicologia, su un punto, posto che nega, o quantomeno non
contempla, che il mobbing possa
essere realizzato da colleghi posti in posizione gerarchica subordinata
rispetto alla vittima: e, anche se sul punto non sono state sviluppate dal
Giudice di Forlì particolari osservazioni, che d’altronde il caso di
specie non richiedeva, pare
davvero difficile, per chi è abituato ad osservare le dinamiche interne
agli ambienti di lavoro, che una condotta mobbizzante posta in essere da
subordinati possa avere un qualche seguito, ed un qualche effetto dannoso,
a meno che non venga a saldarsi con i comportamenti, commissivi od
omissivi, ma intenzionali, di chi nella scala gerarchica si colloca in
grado superiore rispetto al soggetto preso di mira.
- Sull’elemento
intenzionale, anche qui, vi era l’evidenza della prova: si trattava
infatti di ipotesi di cd. bossing,
posto in essere cioè da
superiori gerarchici, che avevano non tanto l’obbiettivo di isolare il
ricorrente, di interrompere i contatti umani con gli altri appartenenti
alla comunità costituita dall’ambiente di lavoro, quanto piuttosto
quello esplicito di ottenerne l’uscita definitiva, con risoluzione
contrattuale (che nelle more del processo era stata intimata).
- Ma il
Tribunale non limita il suo utilissimo sforzo alla definizione della
nozione di mobbing: affronta il secondo, essenziale nodo problematico, che è
poi quello della individuazione del danno ipoteticamente subito dalla
parte lesa.
- Il Giudice
dà ormai per superata la tradizionale tripartizione delle figure di danno
(patrimoniale, morale, biologico), in quanto ormai inadeguata a coprire
tutti gli spazi di possibile tutela: gli esempi sono quelli oggi presenti
alla mente di tutti, rappresentati da ipotesi di violazioni di norme
contrattuali (art. 2087, o 2103 c.c., o anche altro), non tali da causare
perdite patrimoniali, e nemmeno danni alla salute tali, quantomeno, da
essere valutati da un punto di vista medico – legale. Nel caso in cui
vengono allegate prima, e provate poi, conseguenze comunque negative che
incidono sulla vita di relazione del soggetto che è stato colpito
essenzialmente e primariamente nella sua dignità, di persona e di
lavoratore, l’ordinamento non solo consente, ma anzi impone, che si
appronti una risposta, magari attraverso una nuova qualificazione
risarcitoria. E tale nuova qualificazione risarcitoria già esiste
nell’ambito del diritto vivente, perché è stata già enunciata e
riconosciuta dalla Corte di Cassazione (in particolare, con le sentenze
n.2569 del 2001 e 5491del 2000, di cui si dirà infra),
sulla scorta degli insegnamenti forniti dalla dottrina: si tratta della
categoria del danno esistenziale, o danno alla vita di relazione, che si
realizza ogni qual volta il lavoratore viene aggredito nella sfera della
dignità senza che tale aggressione offra sbocchi per altra qualificazione
risarcitoria.
- E qui il
cerchio, tracciato così linearmente dalla decisione del Tribunale di Forlì,
davvero si chiude, dando modo a chi legge di comprendere e di inquadrare
da un punto di vista sistematico, non solo il fenomeno del mobbing,
da cui si era partiti, ma anche una delle possibili risposte, forse la più
originale e la più appropriata, tra quelle consentite dal nostro
ordinamento: un risarcimento ad hoc,
a fronte dell’avvenuta lesione della sua personalità morale,
oggetto specifico di tutela da parte dell’art. 2087 c.c.
- “Non a
caso – scrive il Giudice di Forlì – il mobbing
è stato definito violenza morale e non a caso il danno esistenziale
appare particolarmente congeniale a tale situazione. E’ la qualità
della vita del lavoratore mobbizzato a risentirne principalmente, con
tutte le conseguenze anche nell’ambito familiare” (dove, secondo gli
studi psicologici, si realizza quel fenomeno particolare denominato doppio
mobbing , per cui dopo un primo momento di pieno appoggio ed
incondizionata solidarietà, il nucleo familiare avverte la potenza
distruttiva di quanto sta subendo il congiunto, e per evitare che le
stesse conseguenze patite dal lavoratore lo raggiungano, incomincia per
parte sua ad isolare e ad escludere il proprio famigliare, cui vengono
negati affetto e comprensione (28).
- Il
percorso seguito poi per individuare la natura di tale nuova figura di
danno, se contrattuale o extracontrattuale, non si discosta poi da quello
già calcato per inquadrare il danno biologico: la responsabilità
datoriale può essere ricondotta infatti sia allo schema della
responsabilità contrattuale, ex art. 2087 c.c., sia a quello del danno
aquiliano ai sensi dell’art. 2043 c.c.
- Nulla quaestio circa la riconducibilità del danno esistenziale
alla norma dell’art. 2087 c.c., che per l’appunto obbliga
l’imprenditore ad usare tutte le cautele necessarie a tutelare
“l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di
lavoro”: e dunque, ovvia la conclusione a proposito della concorrenza
delle due azioni, salvo poi valutare come preferibile quella propria della
natura contrattuale del danno, sia per il regime dell’onere della prova,
sia per la maggior durata del termine prescrizionale.
- Secondo
tale schema, spetterà pertanto al datore di lavoro dimostrare di avere
adottato tutte le misure necessarie per
tutelare l’integrità psicofisica del lavoratore, mentre sarà onere del
lavoratore dimostrare la sussistenza del nesso causale tra l’evento
lesivo e il comportamento del datore di lavoro.
- Per quanto
riguarda infine la liquidazione del danno esistenziale, che evidentemente
non ha natura patrimoniale, il criterio adottato non potrà che essere
equitativo, secondo il combinato disposto degli artt. 2056 c.c. e 1226
c.c.
- Per
effettuare tale valutazione, il Tribunale di Forlì parte pur sempre dalla
considerazione della retribuzione del ricorrente, accordando un
risarcimento commisurato sulla stessa, in percentuale crescente, in
considerazione della maggiore intensità delle condotte.
- La
decisione del Tribunale di Forlì, lo si è detto sopra, costituisce ad
oggi un passaggio nodale della nostra giurisprudenza di merito: un
precedente cui ci si potrà adeguare, ovvero discostare, ma che
indubbiamente non potrà e non dovrà essere ignorato nella trattazione
prima, e nella decisione poi, delle controversie in cui si prospetta una
responsabilità del datore di lavoro a titolo specifico di mobbing.
- Indubbiamente,
molte saranno ancora le incertezze e le esitazioni nell’intraprendere un
cammino interpretativo ambizioso, proprio
perché supportato non dal dato normativo positivo, ma dai risultati degli
studi operati nell’ambito di scienze extragiuridiche, rispetto alle
quali non solo il magistrato non ha preparazione specifica, ma
nell’ambito delle quali non sempre si raggiungono risultati unanimemente
condivisi.
- Sicuramente,
la mancanza di una specifica previsione normativa fa sentire il suo peso,
e non potrebbe essere altrimenti: sì che di recente, il Tribunale di
Venezia ha espressamente affermato che “La mancanza nell’ordinamento
di una fattispecie legale di mobbing
non consente l’unificazione delle domande di risarcimento per i danni da
dequalificazione professionale che non possono, pertanto, essere imputati
a un illecito contrattuale permanente originato da comportamenti
persecutori sistematici. Il risarcimento dei danni da dequalificazione
professionale quindi, va valutato considerando distintamente i danni
originati da violazione di diritti già riconosciuti dall’ordinamento e
la prescrizione di ogni singolo diritto al risarcimento decorre dalla
manifestazione del danno” (29).
- Una scelta
interpretativa molto rigorosa, e restrittiva, che finisce comunque per
chiudere ogni nuova prospettiva di tutela, evidentemente ritenendo la
tassatività ed esaustività delle forme di reazione previste dal nostro
ordinamento positivo a fronte degli inadempimenti contrattuali del datore
di lavoro.
-
- 5. A
che cosa serve la nozione di mobbing?
- Ritorniamo
dunque là da dove si era partiti: a che cosa serve la nozione di mobbing
per l’operatore del diritto? Qual’è il “valore aggiunto” rispetto
alle ipotesi tradizionali e consuete in cui reagisce l’ordinamento ai
pregiudizi ingiusti arrecati ai prestatori di lavoro?
- La
risposta forse si trova proprio in quei caratteri identificativi tipici
del fenomeno (di qui, lo si ribadisce, l’importanza della scelta
definitoria, e dunque della sua consapevolezza da parte
dell’interprete): se mobbing è una serie ripetuta e coerente di atti e comportamenti
materiali che trovano una ratio
unificatrice nell’intento di isolare, di emarginare, e fors’anche di
espellere, la vittima dall’ambiente di lavoro, più forte ed efficace
sarà una forma di risposta unitaria a tale tipo di strategia, una forma
di risposta che tenga conto della stratificazione, della evoluzione, della
amplificazione delle sofferenze in ragione del tempo passato, del numero e
della diversificazione degli attacchi subiti. Sarà più efficace un tipo
di risposta che veda l’insieme dei singoli comportamenti discriminatori
come un’escalation di violenza, legati da un’unica strategia ben
finalizzata e non lasciata agli umori del momento.
- Soprattutto,
sarà un tipo di risposta che sarà in grado di andare oltre gli istituti
tipici della materia giuslavoristica: è vero che una strategia
complessiva di mobbing usualmente viene posta in essere attraverso un
demansionamento del lavoratore, se non addirittura attraverso la
sottrazione totale e completa dei contenuti della sua prestazione: è un
connubio che si può definire tipico, e non a caso, proprio perchè
nell’attacco alla professionalità del lavoratore vi è il tratto
saliente della svalutazione della sua personalità morale,
della sua dignità e della sua considerazione nella comunità
rappresentata dall’ambiente di lavoro.
- Ma con la
fattispecie del demansionamento siamo abituati tutti a confrontarci:
abbiamo a nostra disposizione lo strumento normativo espresso dell’art.
2103 c.c., sulla scorta del quale si è creata una ricca stratificazione
giurisprudenziale per la quale il danno causato al lavoratore non va
nemmeno provato, dal momento che può essere individuato
in re ipsa (30).
- La novità
per l’interprete consiste nel poter ricostruire la vicenda lavorativa ed
umana nel suo insieme, e di collocare in essa i vari passaggi, sia che gli
stessi si concretizzino in atti di rilevanza negoziale, sia invece che gli
stessi rappresentino meri comportamenti materiali, non autonomamente
sanzionabili, o non tali da comportare di per sé soli la
reazione dell’ordinamento. Il Tribunale di Forlì ha portato ad
esempio la sottrazione del posto auto, e il divieto dell’accesso al
garage: molti altri possono essere gli esempi che ad ognuno vengono in
mente, e che possono essere suggeriti dall’esperienza processuale.
- Se dunque mobbing è un processo, o forse meglio un progresso, di violenza da
una parte e di sofferenza dall’altra, bisognerà saper leggere tutta la
vicenda nel suo insieme, ed in essa collocare anche comportamenti
formalmente legittimi, da un punto di vista oggettivo, i quali però assumono un significato diverso perchè “tappe” di
una strategia prefigurata. Il mobbing
può realizzarsi anche “attraverso un provvedimento imprenditoriale
formalmente giustificato, un atto di amministrazione del rapporto di
lavoro conforme allo schema legislativo, un atteggiamento normalmente
tollerato nelle relazioni interpersonali che potrebbero nondimeno
collocati in un programma di persecuzione
e di molestia psicologica (...). La figura del danno da mobbing
costituisce invece una sicura ed innovativa acquisizione in termini di
tutela quando non siano accertabili atti o provvedimenti del datore di
lavoro provvisti di efficacia
negoziale, che il giudice possa individuare o rimuovere.” (31).
- Ma la
tutela si rafforza anche sotto altri profili: per esempio, se il fenomeno
viene letto secondo una chiave unitaria,
sarà solo con la cessazione delle condotte che incomincerà
a decorrere il termine di prescrizione (32). Nella stessa ottica,
per quel che riguarda il pubblico impiego,
ove i comportamenti si siano protratti oltre la data –
spartiacque del 1° luglio 1998, sarà davanti al giudice del lavoro che
la vicenda nel suo complesso unitario dovrà essere portata, con evidente
vantaggio per la vittima che otterrà in un’unica sede la ricostruzione
delle vicende poste in essere a suo svantaggio, e il ristoro del danno
patito.
- Per passare
poi al tipo di tutele che sarà possibile approntare, la strada è già
stata delineata sin dalla prima giurisprudenza che sul tema si è espressa
(33), e che sul punto ha trovato il consenso unanime della dottrina (34) :
la norma che consente, ed anzi impone, di riconoscere al lavoratore un
risarcimento a fronte delle condotte capaci di integrare mobbing, è la norma di cui all’art. 2087 c.c., posta a
salvaguardia dell’integrità fisica e psichica del lavoratore e della
sua personalità morale, classica norma di chiusura che consente di
sanzionare ogni tipo di condotta in qualche modo capace di creare un danno
ingiusto perchè lesivo di diritti costituzionalmente garantiti, in
particolare dagli artt. 32, 1° comma e 41, 2° comma della Costituzione.
- La tutela
offerta dall’art. 2087 c.c. ha natura esclusivamente risarcitoria: ma
prima di affrontare il punto relativo ai vari tipi di danno generati
dal mobbing, c’è
ancora da chiedersi se sono ipotizzabili altre forme di tutela,
eventualmente ripristinatoria: proprio perchè nella maggior parte dei
casi concreti, si può dire, lo scopo ultimo del mobber
è quello di ottenere le dimissioni del lavoratore, allora, nel caso in
cui tali dimissioni siano state effettivamente rese e risulti in giudizio
che sono state rassegnate a seguito di mobbing,
non v’è dubbio innanzitutto che rispetto alle stesse deve essere
riconosciuta la giusta causa, ex art. 2119 c.c.; ma soprattutto, nei casi
più gravi e coinvolgenti, può giungersi a ritenere l’annullabilità
delle dimissioni stesse, perché rese in condizioni di incapacità di
intendere o di volere, o più spesso, a seguito di violenza morale o della
minaccia di far valere un diritto (artt. 1434 – 1438 c.c.), e pertanto a
dichiararne l’annullamento, con il conseguente ripristino del rapporto
(35).
- Ma,
seguendo la strada già aperta dal Tribunale di Torino, e poi condivisa
dalle successive letture in sede giurisprudenziale e dottrinale,
se al lavoratore vittima di mobbing
spetta comunque una qualche forma di risarcimento del danno, ciò avviene
e deve avvenire in relazione alla ritenuta violazione da parte del datore
di lavoro dell’obbligo di protezione di cui all’art. 2087 c.c., che,
lo si ricorda ancora, impone all’imprenditore di farsi carico non solo
della salvaguardia dell’integrità fisica, ma altresì della personalità
morale dei prestatori di lavoro.
- Circa le
conseguenze della previsione, da parte del nostro ordinamento, di una
siffatta norma, siamo tutti abituati a confrontarci pressoché
quotidianamente.
- Non
soltanto l’art. 2087 c.c. trasferisce in ambito contrattuale il più
generale principio del neminem
laedere, così consentendo tra l’altro al lavoratore che agisce in
giudizio di fruire del più vantaggioso regime della prova e delle
prescrizioni; ma soprattutto consente di ampliare i margini della tutela
sino alle più avanzate frontiere della difesa, effettiva e concreta, di
beni che attengono alla personalità dell’individuo, ed alla sua dignità
di persona, partendo dalla considerazione che è proprio nell’ambito
dell’ambiente di lavoro che entrambe devono trovare realizzazione e
riconoscimento.
- Il
principio di cui all’art. 2087 c.c., come è stato autorevolmente
affermato(36), attiene al rispetto della personalità morale del
lavoratore: per questo l’imprenditore, ove non si sia fatto direttamente
responsabile di condotte di mobbing, o di bossing,
dovrà comunque reagire di fronte a comportamenti dei propri dipendenti
che vengano a costituire una minaccia o una lesione alla personalità
morale di altri dipendenti, adottando provvedimenti di carattere
disciplinare, di vario genere, nei confronti degli autori, se non
addirittura agendo in via diretta per il risarcimento dei danni subiti
dall’azienda (discredito dell’immagine aziendale, calo della
produttività, ecc). Anzi, partendo dalla lettura che è stata fatta
dell’art. 2087 c.c., nella parte in cui tutela l’integrità fisica del
lavoratore, ispirata al principio della cd. “massima sicurezza
tecnicamente fattibile” (cfr. Cass. 14 luglio 2001, n.9601, e Cass., 2
gennaio 2002 n.5), potrà trovare sanzione ogni violazione da parte del
datore di lavoro di quell’obbligo di porre in essere tutto quanto
necessario al fine di tutelare la persona fisica del lavoratore ricorrendo
a quanto di meglio la tecnica e l’esperienza possano offrire (37).
- Rimanendo
nell’alveo della responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c., si
esaminino le diverse voci di danno che potranno essere fatto oggetto di
rivendicazione da parte del lavoratore – vittima: innanzitutto, quindi,
il danno biologico, consacrato dalle ben note sentenze della Corte
Costituzionale, che gli hanno attribuito pieno diritto di cittadinanza
nell’ambito del nostro ordinamento positivo, in particolare con le
sentenze n. 184 del 1986 (38) e n.356 (39) del 1991, in occasione delle quali
la Corte fonda sul precetto dell’art. 32 Cost. la nozione di
danno biologico, risarcibile indipendentemente dall’avvenuta perdita del
soggetto dell’attitudine a produrre reddito.
- Il danno
biologico fa riferimento dunque ad ogni menomazione dell’integrità
psico – fisica del soggetto offeso: nell’originaria elaborazione della
Corte, si badi, esso deve essere riferito “a tutte le attività, le
situazioni, i rapporti in cui la persona esplica se stessa nella propria
vita: non soltanto quindi con riferimento alla sfera produttiva, ma anche
con riferimento alla sfera spirituale, culturale, affettiva, sociale,
sportiva e ad ogni altro ambito e modo in cui il soggetto svolge la sua
personalità, e cioè a tutte le attività realizzatrici della persona
umana”.
- Su questa
fondamentale apertura della Corte Costituzionale, si innesta tutta la
elaborazione successiva che, occorre sottolineare, riconosce
alla nozione di danno biologico una portata teorica “più vasta
di quello alla vita di relazione, tendendo ad assorbire alcuni tipi non
ben definiti di danno quali appunto, il danno alla vita di relazione, il
danno estetico, il danno alla sfera sessuale” (40).
- Va detto
peraltro che in controtendenza rispetto a tale allargamento della portata
del concetto, sino a ricondurre al concetto di “salute” ogni profilo,
statico e dinamico, attinente alla idea di “benessere”, di integrità
psico – fisica, nella considerazione della necessità di apprestare una
più ampia ed adeguata tutela del “bene uomo”, si sono posti alcuni
atteggiamenti della giurisprudenza, uno fra i quali, pare a chi scrive,
consistito nella tabellarizzazione del danno biologico, che viene
liquidato dalla maggior parte dei Tribunali sulla base di parametri
progressivi, condizionati da fattori oggettivi quali quelli dell’età
del soggetto leso: operazione, si badi, dagli esiti pratici quanto più
positivi e condivisibili, dal momento che l’obbiettivo che ci si poneva,
ossia quello di evitare differenziazioni arbitrarie nel trattamento di
situazioni assolutamente analoghe, veniva così sostanzialmente raggiunto,
ma che per contro comportava inevitabilmente il superamento, o meglio
l’annullamento, di ogni peculiarità soggettiva e di ogni
individualizzazione.
- Nè oggi
si può ignorare che, pervenendo finalmente a fornire la definizione
normativa del danno biologico, il Legislatore, prima con l’art. 13 del
d.lgs. n. 38 del 23 febbraio 2000, in tema di assicurazione obbligatoria
contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, poi con
l’art. 3 del d.lgs. 28 marzo 2000 n. 70, ha definito come danno
biologico la lesione all’integrità psicofisica della persona,
suscettibile di accertamento medico – legale, con ciò, pare davvero
leggendo la norma, volendo escludere ogni considerazione a tale titolo di
quelle sofferenze di natura meramente individuale, legate alla specificità
del singolo individuo, ai suoi modelli di vita ed alle sue forme di
socialità.
- Danno
biologico da mobbing, dunque, in
quanto si sia registrata dal punto di vista medico – legale una lesione
sul piano psichico, o al più psicosomatico, in capo alla vittima: non
quindi una mera sofferenza, un turbamento, anche se grave, ma una vera
patologia, da apprezzarsi e valutarsi da parte dell’esperto medico –
legale.
- La pratica
insegna che ben di rado il medico legale sarà in grado di ricondurre
conseguenze permanenti ad un tale tipo di danno, che viene collegato di
norma strettamente al perdurare delle condotte mobbizzanti, mentre è
destinato a sparire, a quantomeno ad attenuarsi sensibilmente, nel caso di
loro cessazione: sì che la forma naturale di danno biologico riconosciuto
in tali ipotesi è quello del danno da invalidità temporanea (in tal
senso, Trib. Torino, 16.11.1999, cit.).
- Ovvia poi
la sussistenza di una responsabilità per danno morale, ai sensi
dell’art. 2059 c.c. nel caso in cui il giudice ravvisi gli estremi del
fatto reato: ma è indubbio che, come rilevato dal Tribunale di Forlì, di
fronte ad una fattispecie che presenta le peculiarità che caratterizzano
il fenomeno del mobbing, è lecito chiedersi se vi possono essere voci risarcitorie
più calzanti e idonee a far fronte a quel particolare tipo di sofferenze
che da un tale tipo di fenomeno possono conseguire.
- Si è già
detto, una risposta specifica è già stata fornita dal Tribunale di Forlì,
che è partito proprio dalla considerazione dell’insufficienza della
tripartizione classica tra danno biologico – danno patrimoniale –
danno morale a coprire ogni spazio meritevole di tutela, perchè, ad
esempio, non è idonea a risarcire un danno subito da un lavoratore senza
conseguenze patrimoniali dirette (ad es., demansionamento con mantenimento
dell’identico livello retributivo) e non tale da causare una sofferenza
classificabile tecnicamente come malattia: di fronte a tale vuoto di
tutela, la risposta possibile è quella del ricorso ad una quarta
categoria di danno, il danno esistenziale appunto, che consiste in quella
modificazione peggiorativa dell’insieme delle attività realizzatrici
della persona, nell’alterazione di quell’universo di azioni,
consuetudini, affezioni attraverso cui l’individuo costruisce la propria
identità, la propria esistenza (41).
- Il danno
esistenziale nasce, secondo l’opinione di chi scrive,
dalla stessa esigenza da cui era stata ideata inizialmente la
nozione di danno biologico: dall’intenzione cioè di riconoscere una
peculiarità ed una specificità, anche sul fronte della giudiziale, al
“valore – uomo in sè e per sè considerato”, inteso come
quell’insieme di attività, di legami, di rapporti, che ne segnano
l’esistenza, e che ad essa danno un valore, indipendentemente dalla
capacità del soggetto di produrre reddito. Se questa complessità si è
via via perduta per quel che concerne il danno biologico, perchè hanno
fatalmente prevalso altre esigenze, essenzialmente di certezza
nell’accertamento prima e di omogeneità nella valutazione poi, è
evidente che però di tutti questi profili una giustizia che si proponga
la tutela effettiva della persona e dei suoi diritti e delle sue
prerogative, anche di rango costituzionale, finirà per farsi carico: e
nel caso di specie, ciò tra l’altro è avvenuto in tempi ben più
rapidi di quanto sia avvenuto per il danno biologico, che dopo le prime
elaborazioni del Tribunale di Genova e di Pisa, ha dovuto attendere
decenni, sino alla consacrazione finale, nei primi anni ’90 appunto da
parte della Corte Costituzionale.
- Di danno
esistenziale si parla invece oggi con estrema chiarezza e consapevolezza
presso i Tribunali di merito, e presso la Corte di Cassazione, che già in
più occasioni sul punto si è espressa. Oltre alle già richiamate
sentenze n. 2569 e 5491 del 2001, non
può qui essere ignorata la sentenza n.9009 del 3 luglio 2001, della
Sezione lavoro, che giunge a sposare appieno le tesi della scuola di
Trieste, ed a riconoscere
pieno diritto di cittadinanza, nel nostro ordinamento, a tale specifica
forma di danno.
- Il danno
esistenziale secondo la Corte è volto a coprire tutte le compromissioni
delle attività realizzatrici della persona umana, quali per esempio gli
impedimenti alla serenità familiare, al godimento di un ambiente salubre
e di una situazione di benessere, al sereno svolgimento della propria vita
lavorativa: è vero, precisa la Corte, che secondo alcune opinioni la
nozione di danno alla salute si presterebbe a comprendere anche i concreti
pregiudizi alla sfera esistenziale, ma si finisce fatalmente per
distinguere la lesione dell’integrità fisico o psichica (ossia la
presenza di una patologia oggettiva che si accerta in base a precisi
parametri medico legali), dal “pregiudizio esistenziale, che senza
ridursi al mero patema d’animo interno, richiama tuttavia disagi e
turbamenti di tipo soggettivo”. Quanto poi alla collocazione di tale
nuova forma di danno rispetto alle fonti di rango costituzionale, la Corte
di Cassazione, pur se esclude la riferibilità all’art. 32 Cost.,
ricorda che anche il libero dispiegarsi delle attività dell’uomo
nell’ambito della famiglia o di altra comunità riceve considerazione
costituzionale ai sensi degli artt. 2 e 29: pertanto, sia i pregiudizi
alla salute sia quelli alla dimensione esistenziale, sicuramente di natura
non patrimoniale, non possono essere lasciati privi di tutela
risarcitoria, “sulla scorta di una lettura costituzionalmente orientata
del sistema della responsabilità civile (cfr. Cass. N. 7713/2000 in tema
di pregiudizi di ordine non patrimoniale subiti dal figlio naturale per il
fatto della mancata corresponsione dei mezzi di sussistenza da parte del
genitore)”.
- Pertanto,
conclude la Corte, esaminando una fattispecie di mancata fruizione del
riposo settimanale (con ciò dimostrando l’astratta adattabilità del
danno esistenziale ad ogni ipotesi di inadempimento contrattuale o di
violazione al generale principio del neminem
laedere) poiché la persona umana è costituzionalmente tutelata nel
suo sviluppo e nelle sue manifestazioni, “il rango della posizione
soggettiva inviolabile – con esclusione, quindi, dei meri disagi che
trovano origine nella personale sensibilità del soggetto – impone di
ritenere inoperanti i limiti alla risarcibilità del danno non
patrimoniale risultanti dall’art. 2059 c.c.”.
- Il
comportamento antigiuridico del datore di lavoro tenuto in violazione dei
precetti dell’art. 36 Cost, può comunque ledere, accanto a diritti
economici, anche diritti fondamentali della persona: a maggior ragione,
questi diritti devono trovare tutela di fronte a condotte riconducibili al
datore di lavoro, o a suoi collaboratori, che se di per sé incapaci a
recare un danno patrimoniale, vengono comunque a colpire prioritariamente
la sfera della dignità del lavoratore, fuori e dentro l’ambiente di
lavoro.
- Seguendo
fedelmente lo sviluppo logico del pensiero della Corte di Cassazione, il
danno esistenziale, come riconosciuto dalla dottrina che se ne è
occupata, appare davvero la migliore risposta a fronte delle sofferenze e
dei patimenti subiti dal lavoratore a causa delle condotte mobbizzanti
poste in essere contro di lui: non solo, come si è detto, perchè è in
grado di coprire quelle zone d’ombra che erano fatalmente lasciate dalla
tripartizione tradizionale delle voci di danno, ma proprio perchè
costituisce la forma più adeguata a fornire tutela ai diritti inviolabili
della personalità, prima fra tutte la dignità umana della persona, e in
specie, del lavoratore (42).
- Quanto
alla sua liquidazione, lo ha detto anche la Corte, il criterio non potrà
che essere equitativo. Toccherà comunque alla giurisprudenza il lavoro di
enucleazione dei criteri da utilizzare pur nell’ambito dell’esercizio
di un potere tipicamente discrezionale: si è già detto, il Tribunale di
Forlì assume come base per la liquidazione la retribuzione mensile, da
cui individua una percentuale, variabile a seconda del livello di
sofferenza inflitto. E’ il percorso che viene normalmente utilizzato per
la liquidazione del danno da demansionamento, e che indubbiamente trova
consenso per qual che riguarda l’adozione di una base contabile
riscontrabile oggettivamente. Per altro verso, se è vero che il danno
esistenziale, per sua natura, è e deve rimanere sganciato da ogni
considerazione della capacità del soggetto di produrre reddito, lascia
quantomeno perplessi l’utilizzo del parametro retributivo (43).
- Indubbiamente,
uno sforzo volto alla enucleazione di alcuni parametri deve essere
compiuto, proprio per evitare che si realizzino quelle situazioni di
disparità di trattamento soprattutto incomprensibili, e per certi versi
inspiegabili, ai cittadini che si rivolgono alla giustizia per trovare,
quanto più possibile sulla base di criteri riconoscibili, un ristoro alle
proprie sofferenze. Sul punto si tornerà oltre.
- E un
ultimo cenno sia consentito di fare al punto delle condizioni soggettive
della vittima, al fine di escluderne qualsiasi rilevanza ai fini del
riconoscimento del diritto al
risarcimento del danno patito.
- E’
frequente il ricorso negli atti difensivi al richiamo di eventuali
precedenti sofferenze della vittima, per alterazioni psichiche, o comunque
di stati individuali di particolare sensibilità e fragilità emotiva: ma
a questi non potrà mai farsi riferimento al momento di valutare la
responsabilità del datore di lavoro per comportamenti rivelatisi idonei a
ledere l’integrità psichica, ovvero altri beni insopprimibili
costituzionalmente garantiti, quali la dignità personale. Non troverà
dunque applicazione la nozione di “violenza” dettata dal codice quale
presupposto per l’annullamento dei contratti, previsto dagli artt. 1434
e 1435 c.c., per cui questa deve essere di natura tale da fare impressione
su di una persona sensata e da farle temere di esporre sé o i suoi beni
ad un male ingiusto e notevole, avuto riguardo all’età, al sesso ed
alla condizione della vittima.
- Nel caso
della persecuzione psicologica sul posto di lavoro, non è in discussione
la libertà negoziale del soggetto che ne è stato fatto vittima, quanto
la voluta aggressione alla sfera personale del lavoratore, bene questo
tutelato dalla Carta Costituzionale e dalla norma ordinaria dell’art.
2087 c.c. Tutto ciò che attiene alle peculiarità soggettive del
prestatore di lavoro, sue precedenti alterazioni psicologiche, ovvero
suscettibilità o sensibilità individuali, potrà essere eventualmente
essere preso in considerazione al momento dell’accertamento medico –
legale degli effetti patologici della condotta e della lesione effettiva
al suo bene – salute, ma non al momento precedente e pregiudiziale della
ricostruzione della fattispecie illecita (44).
-
- 6. Il
diritto del lavoratore alla prestazione lavorativa.
- Questa
lunga premessa , per così dire, ci conduce al secondo dei temi che
costituiscono l’argomento della relazione. Tema che da solo meriterebbe
autonoma trattazione, perché sull’interrogativo se in capo al
lavoratore possa essere riconosciuto un vero e proprio diritto a rendere
la prestazione, ossia ad adempiere al proprio obbligo contrattuale, si
sono lungamente confrontate dottrina e giurisprudenza, dando vita
innanzitutto ad un dibattito teorico molto interessante e vivace, ma che
qui non può essere compiutamente riprodotto, dati i limiti dell’opera
(e di chi la scrive).
- Per
fornire solo gli estremi di questo ricco dibattito, e soprattutto per
ricavarne gli spunti di contatto e di analogia con quanto si è sin qui
detto, occorre partire dalla considerazione della norma di cui all’art.
2103 c.c., che mira alla tutela del bene costituito dalla professionalità
del lavoratore: in tale ottica, la norma vieta al datore di lavoro di
pregiudicare il patrimonio professionale del dipendente, adibendolo a
mansioni inferiori o, comunque, non equivalenti a quelle contrattualmente
dovute, pena la condanna, in sede giudiziale, ad adibire nuovamente il
lavoratore alle mansioni precedenti, o quantomeno ad altre di pari rango,
ed a risarcire il danno da costui patito.
- Se dunque
il lavoratore, nello svolgimento della prestazione, ossia
nell’adempimento della propria obbligazione contrattuale, trova anche la
realizzazione di un proprio positivo interesse, ossia quello al
mantenimento, ed anzi all’accrescimento della propria professionalità,
è logicamente conseguente ritenere che egli possa vantare un vero e
proprio diritto all’effettivo svolgimento delle mansioni per le quali
era stato assunto (45).
- Non è
comunque una conclusione universalmente
condivisa: anche perché essa contrasta con le ricostruzioni dottrinali
tradizionali, fondate sulla concezione libero – scambista del rapporto
di lavoro, e condizionate altresì, per altro verso, dalla considerazione
della pacifica incoercibilità in forma specifica degli obblighi
infungibili (46). Secondo tale lettura, è possibile ravvisare
l’esistenza di un diritto con tale contenuto solo in particolari
rapporti di lavoro a disciplina speciale (apprendistato, patto di prova,
lavoro artistico, giornalistico e sportivo), caratterizzati da un
interesse specifico del lavoratore ad eseguire effettivamente il proprio
lavoro, al più giungendo ad estendere tale area alle professionalità più
elevate (47).
- Ma un
orientamento di tali contenuti evidentemente limita il suo sguardo ad una
dimensione meramente patrimoniale del rapporto debito – credito tra i
due soggetti del rapporto di lavoro: trascura di considerare quanto di
peculiare e di specifico, rispetto alla contrattualistica classica, vi è
nello schema contrattuale del rapporto di lavoro, e soprattutto non
considera che i principi costituzionali dettati in materia, e le norme di
legge specifiche, danno conto della concezione per cui l’obbligazione di
lavorare è una peculiare modalità di espressione della personalità che
soddisfa un interesse non patrimoniale, o meglio, non solo patrimoniale,
del lavoratore. Il caposaldo di tale concezione viene individuato,
in particolare, nell’art. 13 dello Statuto dei lavoratori, la cui ratio
non può essere ridotta alla mera tutela degli interessi di ordine
patrimoniale del lavoratore (48): il lavoro dunque visto e concepito non
solo come fonte del reddito per provvedere al sostentamento proprio e
della propria famiglia, ma come mezzo di realizzazione personale, di
crescita individuale, di affermazione della propria dignità (49).
- Non
ultimo, e parimenti importante, l’orientamento critico volto ad
individuare il fondamento dell’obbligo del datore di lavoro di
consentire la prestazione del lavoratore sull’art. 2087 c.c., nella
parte in cui tutela la personalità morale del lavoratore, oltre che la
sua salute (50).
- Netta la
posizione della giurisprudenza, anche di legittimità, quantomeno a
partire dalla sentenza 15 agosto 1991, n.8835 (51), alla stregua della
quale, “stanti la lettera e la ratio
dell’art. 2103 c.c., la violazione di tale norma si ha identicamente sia
nell’ipotesi di assegnazione del dipendente a mansioni inferiori, sia
nell’ipotesi in cui il dipendente sia lasciato inattivo, in quanto il
lavoro non è soltanto un mezzo di guadagno, ma costituisce un mezzo
prevalentemente di estrinsecazione della personalità di ciascun
cittadino”.
- Sulla scia
di tale pronuncia, si collocano poi, sostanzialmente ribadendo la medesima
affermazione di principio, C.Cass., 3 giugno 1995, n. 6265 (52), e
soprattutto, C. Cass., 4.10.1995, n.10405 (53), che attribuisce all’art.
13 dello Statuto dei Lavoratori la ratio
di “apprestare una più efficace e pregnante tutela del patrimonio
professionale del lavoratore”: coerentemente con lo spirito informatore
dell’art. 2103 c.c, è pertanto l’affermazione del diritto del
lavoratore alla utilizzazione, al perfezionamento, ed all’accrescimento
del proprio corredo di nozioni di esperienza e di perizia acquisita nella
fase pregressa del rapporto, così che venga impedito che le nuove
mansioni determinino una perdita delle potenzialità professionali
acquisite, oppure comportino una sottoutilizzazione del patrimonio
professionale del lavoratore, avuto riguardo non solo alla natura
intrinseca delle attività lavorative svolte, ma anche del grado di
autonomia e discrezionalità nel loro esercizio, e della posizione del
dipendente nel contesto dell’organizzazione aziendale del lavoro.
- La
violazione dell’art. 2103 c.c. si realizza quindi, secondo la Corte,
anche quando si sia in presenza di una modifica quantitativa delle
mansioni assegnate al lavoratore, che si traduca in una riduzione dei suoi
compiti lavorativi. Questa modifica infatti, argomenta la Corte, può
determinare in concreto “un progressivo deperimento del bagaglio
culturale del dipendente e una perdita di quelle conoscenze e esperienze
richieste dal tipo di lavoro svolto, che finiscono per tradursi, in ultima
analisi, in un graduale appannamento della propria professionalità ed in
una sua più difficile futura utilizzazione”.
- Alcuni
commenti, pur condividendo la direzione verso la quale la Corte si stava
muovendo, hanno ritenuto “eccessivamente
sbrigativa” la motivazione adottata, non in grado di scacciare tutti i
dubbi relativi alla questione, come se si potesse dare appunto per
scontata la sussistenza di un generale diritto soggettivo del lavoratore
all’esecuzione della prestazione (54).
- Va detto peraltro che dopo tali
perentorie, ed autorevoli, affermazioni, la Cassazione non ha mai mostrato
di voler recedere, confermando via via la sussistenza di un pieno diritto
del lavoratore allo svolgimento della prestazione: ancora di recente, la
Cassazione (sent. 14 novembre 2001, n.14199 (55); sent.
6 novembre 2000, n.14443 (56) ha ribadito la sussistenza
del diritto del lavoratore all’effettivo svolgimento della propria
prestazione professionale e che la lesione di tale diritto da parte del
datore di lavoro costituisce inadempimento contrattuale e determina, oltre
all’obbligo di corrispondere le retribuzioni dovute, l’obbligo del
risarcimento del danno da dequalificazione professionale.
- Ricchissima
l’elaborazione giurisprudenziale, di merito e di legittimità, in
materia, e rispetto a diversi profili problematici: tra i tanti possibili,
se ne ricordano qui tre in particolare, quali quello relativo al contenuto
della lesione patita dal lavoratore privato delle proprie mansioni,
il secondo avente ad oggetto l’accertamento giudiziale dei danni
derivanti dall’illegittima dequalificazione e, in definitiva, il
problema della prova di tali danni, il terzo infine corrispondente alla
definizione dei criteri di liquidazione.
- Sul primo
punto, ancora di recente è stato ribadito, in particolare dalla
giurisprudenza di merito (57) che il lavoratore colpito da illegittimo
demansionamento subisce un danno non limitato alla sfera della
professionalità in senso stretto, venendo nei fatti a perdere le proprie
competenze professionali e quindi subendo un declassamento per quel che
riguarda il suo livello tecnico, ma esteso alla cosiddetta “immagine
professionale”, o “identità”, o “dignità professionale”, ossia
alla considerazione ed al prestigio di cui egli godeva, dentro e fuori
dall’ambiente di lavoro, proprio in ragione delle funzioni esercitate.
- Sul
secondo, particolarmente dibattuto, anche da parte della giurisprudenza
della Corte di Cassazione, resta il tema dell’onere della prova in tema
di danno da demansionamento: chiaro ed esplicito l’orientamento secondo
cui questo consisterebbe in re ipsa, nel senso che in caso di privazione delle mansioni il
lavoratore subisce inevitabilmente un danno, collegato alla perdita di
professionalità (58). L’accertamento del danno, secondo la Corte, può
ritenersi basato su dati di comune esperienza, non richiedendo pertanto
una prova specifica della lesione subita, che si presenterebbe come
pressochè impossibile.
- Non si
ignora peraltro l’orientamento di segno opposto che anche di recente
(59), ha posto espressamente a carico del lavoratore demansionato
l’onere di provare pienamente l’esistenza e l’entità del danno che
lamento: richiesta il cui rigore, se
può sembrare razionale relativamente alla tipologia del danno biologico
(60), davvero non pare adeguatamente considerare che, trattandosi di
eventi dannosi che si producono pur sempre su beni immateriali, quali la
professionalità, la dignità, l’immagine, anche se suscettibili di
valutazione patrimoniale, comportano inevitabilmente il ricorso alla prova
per presunzioni, che pure nel nostro ordinamento trova pieno diritto di
cittadinanza attraverso la previsione dell’art. 2729 c.c. (61).
- Da ultimo,
il punto relativo all’individuazione ed enucleazione dei criteri di
liquidazione del danno alla professionalità: è unanime, va detto, il
ricorso alla valutazione di natura equitativa, proprio per il generale
riconoscimento di parametri oggettivi in grado di essere utilizzati da
parte del giudice.
- La
liquidazione parte, si può dire per atteggiamento unanime della
giurisprudenza, dalla considerazione della retribuzione mensile percepita
dal lavoratore, considerata anche dalla Corte di Cassazione come legittima
base di calcolo per il risarcimento. Ciò che varia, ovviamente, è la
percentuale della stessa accordata al lavoratore demansionato come ristoro
del danno che ha patito, potendo oscillare da un 25 – 30 % sino ad
arrivare, nei casi più gravi, soprattutto segnati dalla maggior durata
del comportamento datoriale, alla totalità della retribuzione.
- Alcune
osservazioni qui si impongono: la ricca elaborazione
giurisprudenziale, soprattutto da parte dei giudici di merito, ha
condotto ad individuare all’interno della categoria “danno alla
professionalità”, contenuti che in realtà esulano dal “valore
professionale” del lavoratore, all’interno del suo ambiente di lavoro,
ma che attengono molto più da vicino alla pienezza della sua esistenza,
alle sue potenzialità di soddisfazione e di accrescimento da un punto di
vista lavorativo, ed anche esistenziale. Riterrei che la lunga serie di
pronunce di Preture prima, e di Tribunali, sia un po’ servita come
palestra anche per il varo della categoria del danno esistenziale, perchè
non è possibile non leggere una sovrapposizione, almeno parziale, dei
contenuti dell’una categoria del danno, con quelli dell’altra. Non del
tutto immeritate, pertanto, risultano quelle critiche formulate dalla dottrina, che ha
sottolineato una certa approssimazione, sia nell’individuazione delle
componenti del danno alla professionalità, sia nell’elaborazione dei
parametri di liquidazione (62).
- Più o
meno consapevolmente, pertanto, mi pare che proprio dalle spinte
giurisprudenziali anche, se non soprattutto, in tema di danno da
demansionamento, si siano aperte quelle nuove frontiere della tutela della
dignità personale del lavoratore, che oggi in vario modo occupano gli
interpreti e gli studiosi, e non solo quelli che si occupano di
mobbing.
- Insomma,
in pratica molti dei temi che oggi muovono la discussione intorno a questo
argomento, così attuale e dibattuto, erano già ben presenti in tutte
quelle decisioni che hanno riconosciuto al lavoratore che nello
svolgimento della propria prestazione lavorativa, egli poteva e doveva
ricercare non solo la corrispondente soddisfazione economica, ma anche la
realizzazione della propria persona, della propria dignità, di fronte a sè
medesimo ed agli altri: nel caso in cui tutto questo non gli fosse stato
consentito, era giusto e dovuto che egli trovasse un ristoro, un
risarcimento, non solo commisurato alla perdita professionale strettamente
intesa, ma ampliato appunto verso le dimensioni della sua dignità e del
suo valore come persona.
- Su basi
comuni, stiamo considerando però fenomeni diversi, sia per le loro
connotazioni oggettive, sia per la loro diversa collocazione rispetto alle
fonti dell’ordinamento positivo. E’ giunto comunque il momento di
trarre conclusioni, che da questo ricco insieme di analogie e di
peculiarità, siano di qualche utilità per che, quotidianamente, è
chiamato a fornire risposte, e soprattutto tutele, alle vittime dell’uno
e dell’altro genere di comportamenti.
-
- 7. Conclusioni.
- Demansionamento
e mobbing: dal confronto delle
due fattispecie emergono con evidenza i punti di differenziazione.
- Il primo
costituisce inadempimento di uno specifico e tipico obbligo imposto
all’imprenditore dalla norma di legge, l’art. 2103 c.c., obbligo che
viene violato in ogni occasione di attribuzione al lavoratore di mansioni
inferiori, da un punto di vista qualitativo ovvero quantitativo. Le
condotte rilevano oggettivamente, non è richiesto alcun animus
nocendi in capo al datore di lavoro.
- Per il
secondo, invece, ancora nessuna espressa previsione normativa: ma la ormai
generale diffusione nella
coscienza collettiva del fenomeno, e soprattutto la richiesta
generalizzata di una specifica tutela rispetto allo stesso, prospettano
innanzitutto al giudice del lavoro di
oggi il dovere di compiere un consapevole sforzo definitorio.
D’altronde, talmente ricca ed articolata risulta sin qui
l’elaborazione delle scienze psicologiche e più strettamente
giuridiche, e tali e tanti sono ormai i contributi specifici in materia,
che davvero il lavoro dell’interprete appare agevolato
nell’individuare alcuni elementi caratteristici e tipizzanti, sin qui
generalmente condivisi. I caratteri della ripetitività e della
reiterazione delle condotte, unite dal filo unificatore dell’elemento
intenzionale, risultano, si è detto, ormai acquisiti: così come
acquisito può dirsi l’inquadramento del mobbing
nell’ambito dei comportamenti lesivi della personalità morale del
lavoratore, oltre che, in alcuni casi, della sua integrità
fisico-psichica, a fronte dei quali soccorre la tutela offerta dall’art.
2087 c.c. Altro e diverso discorso dovrà essere fatto a proposito delle
difficoltà per il lavoratore di fornire la prova non solo
dell’effettiva materialità dei comportamenti, ma soprattutto
dell’elemento intenzionale: salvo poi potersi fare ampio ricorso, nelle
vicende giudiziarie, alla prova presuntiva.
- Un compito
preciso riguarderà poi l’individuazione precisa del danno,
ed ovviamente la sua liquidazione. Davvero, lo sforzo primo sarà
quello di acquisire maggior consapevolezza sulle componenti di questo
danno, e sulla loro natura.
- Con il mobbing, si è detto, trova consacrazione, come suo perfetto pendant,
il danno esistenziale, che certo non ha natura patrimoniale. La
liquidazione dello stesso, ovviamente equitativa, dovrà però partire
dalla constatazione, esplicitata in sede di motivazione, ai fini di
rendere trasparente e verificabile il procedimento logico seguito dal
giudice, di alcuni parametri, modellati sul numero e sulla frequenza degli
episodi facenti parte della strategia, sulla durata complessiva della
stessa, e poi su tutte le implicazioni relative alle condizioni
esistenziali del lavoratore. Se poi è stata individuata
nel mobbing, proprio per
la sua particolare connotazione, la capacità di produrre un “valore
aggiunto” quanto alla sofferenza dell’individuo, fatto oggetto di una
strategia complessiva di emarginazione e di isolamento, bisognerà pensare
poi a livelli risarcitori che tengano conto di tutto questo, e che si
propongano come più severi e punitivi rispetto a quelli normalmente
adottati per condotte costituenti oggettivamente violazione di obblighi di
legge, quali per l’appunto il demansionamento.
- Forse potrà
e dovrà essere superato il parametro rappresentato dalla retribuzione del
lavoratore. Allo stesso potrà ancora farsi ricorso, nel caso in cui
vengano allegati e provati danni, questi di natura patrimoniale,
conseguenti alla perdita di chances di carriera, e di professionalità, intesa come valore del
lavoratore sul mercato del lavoro. Ma per tutto ciò che concerne le
lesioni alla “personalità morale” del lavoratore, e quindi il
peggioramento delle sue condizioni esistenziali, davvero occorre ripensare
alla opportunità di parametrare il ristoro che egli merita al livello di
reddito da lui raggiunto (63). Paradossalmente anzi, proprio chi conta su
un livello economico più basso avrà a sua disposizione minori risorse
per riconquistare una “qualità della vita” che ha visto compromessa
dagli attacchi subiti nell’ambiente di lavoro alla sua dignità di
persona.
- Sinceramente,
non credo alla prospettiva della tabellarizzazione (64): se qualcosa di
nuovo e di originale esprimono queste tematiche, le quali davvero, che
piaccia o meno, segnano in qualche modo l’attuale prospettiva del
diritto e del processo del lavoro, è l’attenzione rivolta
all’individuo, al suo intreccio di relazioni e di affetti in cui si
realizza il suo microcosmo, e dunque alla dimensione individuale, in una
prospettiva quasi intimista. Il comodo
ormeggio alla tabella per la liquidazione del danno finisce in
qualche modo per annullare, per appiattire
questa realtà: e per sconfessare, in qualche modo, quelle ragioni
per le quali si era ritenuto di approntare una tutela ad hoc a fronte di un fenomeno di cui si avvertono le potenzialità
lesive nei confronti della vittima accertata.
- Ma da un
serio confronto sugli elementi che davvero caratterizzano la sussistenza
prima, e l’entità poi, del danno alla persona, credo che la
giurisprudenza non si possa e non si debba più sottrarre: e che vada
cercato ogni mezzo per dare, nella misura del possibile, trasparenza e
conoscibilità ai criteri di liquidazione, anche per cercare, come è
stato da ultimo detto, di “conferire dignità sistematica alla non
semplice costruzione di questo istituto ontologicamente dai confini molto
labili” (65).
- Sulla
richiesta di tutela effettiva da parte del cittadino, si gioca infatti,
ancora una volta, la continua sfida che ha ad oggetto la credibilità
della magistratura.
- Dott.ssa
Rita Sanlorenzo
- Giudice
del Tribunale di Torino
- NOTE
- 1)
Di recente, v. Il Sole 24 Ore, 21.10.2002, con un servizio dal titolo Il mobbing fa male, in cui si indica in 40 milioni il numero di
lavoratori colpiti in Europa, pari al 38% della forza lavoro, di cui il 4%
relativo a casi registrati in Italia sul totale UE. Ancora secondo il
servizio giornalistico, il 71% dei casi italiani si registra presso gli
uffici pubblici, il 52% dei medesimi riguarda lavoratori
di sesso maschile, e per l’80% le vittime appartengono alle
categorie dei quadri e degli impiegati. Ancora secondo la testata
giornalistica, il costo stimato della sindrome derivante per i Paesi della
UE ammonterebbe a circa 20 miliardi di euro. A questi si aggiungono i
costi in più, difficilmente quantificabili, che le aziende sostengono in
termini di minore produttività dei lavoratori mobbizzati. Per l’Ispesl
un lavoratore sottoposto a violenze psicologiche ha un rendimento
inferiore del 70%. Per altri riferimenti a pubblicazioni giornalistiche
aventi ad oggetto il mobbing, si
confrontino in particolare P.G.MONATERI, M.BONA, U.OLIVA, Mobbing.Vessazioni
sul lavoro, Milano 2000, p.5, in nota, e M.MEUCCI, Violenza
da mobbing sul posto di lavoro, in RCDL, 2000, 275, che contiene
numerose indicazioni per quel che riguarda siti internet, Associazioni di
ricerca, Movimenti costituiti da vittime del fenomeno.
- 2)
P.TULLINI, in RDIL, 2000, I,
251 – 268.
- 3)
A. VISCOMI, Il mobbing: alcune
questioni su fattispecie ed effetti, in LD 2002, 45 ss., sottolinea la
necessità di utilizzare una costante “razionalità critica che sappia
coniugare le esigenze di sistema e la sensibilità
al problema rinunciando alla tentazione di una immediata trasposizione
della figura medico – legale o di un fenomeno socio – organizzativo in
una fattispecie giuridicamente rilevante” (p.47).
- 4) H.EGE, Mobbing.
Che cos’è il terrore
psicologico sul posto di lavoro, Pitagora Editrice, Bologna.
- 5) La valutazione peritale del danno da mobbing, 2002, Giuffrè, Milano; in
precedenza, vedi anche Il mobbing,
ovvero il terrore psicologico sul posto di lavoro, e la situazione
italiana, in F.M.Hirigoyen, Molestie
morali: la violenza perversa nella famiglia e nel lavoro, 2000, Einaudi,
Torino, ove il mobbing veniva
descritto consistere “in un’azione (o una serie di azioni) che si
ripete con una certa frequenza e per un certo periodo di tempo, compiuta
da uno o più mobber per danneggiare la vittima, quasi sempre in modo sistematico
e con uno scopo ben preciso.” (p.236).
- 6)
H.EGE, Mobbing, conoscerlo per
vincerlo, Franco Angeli, 2001.
- 7)
H.EGE, La valutazione peritale del
danno da mobbing, op. cit, p.7 e segg. L’Autore in particolare
espone il ricorso a sette diversi parametri, solo in presenza dei quali,
nello stesso contesto, è possibile affermare la presenza del mobbing.
Tali parametri vengono così individuati: l’ambiente di lavoro, la
frequenza, la durata, il tipo di azioni, il dislivello tra gli
antagonisti, l’andamento in fasi successive e l’intento persecutorio
(p. 39 e ss.).
- 8)
H.EGE, op.ult. cit., p. 11: “Il
mobbing non è un problema dell’individuo, ma è un problema
dell’ambiente di lavoro”.
- 9)
come invece ritenuto da Corte di Appello di Torino, 21.2.2000, in FI,
2000, 155 e s., e sostanzialmente condiviso da P.G.MONATERI, M.BONA,
U.OLIVA, Mobbing. Vessazioni sul
lavoro, op.cit. p.15 e p.121 e ss., con richiami anche alla letteratura
francese, in particolare a F.HIRIGOYEN, Le
harcèlement moral, Paris, 1992, pubblicato anche in Italia, Molestie
morali. La violenza perversa nella vita quotidiana, Torino, 2000, con
appendice riportanti scritti di EGE, MENZIO, MONATERI, BONA, OLIVA.
- 10)
Concordi, sul punto le considerazioni riportate da Il Sole 24 Ore del
21.10.2002, riportate nella nota 1.
- 11)
A.GILIOLI, R.GILIOLI, Cattivi capi,
cattivi colleghi. Come
difendersi dal mobbing e dal nuovo”capitalismo selvaggio”, Mondadori,,
Milano. Renato Giglioli, neuropsichiatra, ha fondato e dirige il Centro
per il disadattamento lavorativo della Clinica del lavoro di Milano, che
offre ai pazienti una valutazione psicologica della rispettiva situazione
personale e quindi propone un trattamento farmacologico o
psicoterapeutico. Può anche rivolgersi alla azienda sanitaria locale per
richiedere ispezioni in azienda per far fronte alle situazioni più gravi.
- 12)
A.EGE, Mobbing, conoscerlo per
vincerlo, op.cit, p.51.
- 13)
A.GILIOLI, R.GILIOLI, op. cit, p.6.
- 14)
H.EGE, La valutazione peritale del
danno da mobbing, op. cit., p.23.
- 15)
H.EGE, La valutazione peritale del
danno da mobbing, op. cit., p.51 e ss.
- 16)
contra, Trib. Como, 22.5.2001, su cui infra.
- 17)
Per una approfondita analisi delle proposte di legge giacenti sul tema, v.
F.AMATO, M.V.CASCIANO, L.LAZZERONI, A. LOFFREDO, Il
Mobbing. Aspetti lavoristici: nozione, responsabilità, tutele, Giuffrè
Milano 2002. L’elenco completo delle proposte ad oggi presentate nella
XIV legislatura, si trova su htpp://www.clik.to/diritto lavoro.
- 18)
L.GRECO, Danno esistenziale e
risarcimento da mobbing, nota a Trib. Forlì 15 marzo 2001, in RCDL,
2001, p. 411 e ss, p. 413.
- 19)
Entrambe citate da F.NISTICO’, Mob,
Mobber, Mobbing, in Informazione Previdenziale 2002, 709 ss., e
comunque reperibili in www.unicz.it/lavoro.
- 20
Trib. Torino, 16.11.1999, in RIDL 2000, II, 102, con nota di PERA, La responsabilità dell’impresa per danno biologico subito dalla
lavoratrice perseguitata dal preposto (a proposito del cd. “mobbing”);
Trib. Torino, 11 dicembre 1999, in FI 2000, I, 1555, con note di
A.M.PERRINO, 1554 e ss., e di L. DE ANGELIS, Interrogativi
in tema di danno alla persona del lavoratore, 1557 e s.
- 21)
F.AMATO, e altri, Il Mobbing,
op.cit., p. 21.
- 22)
C.Cass., Sez. Lavoro, 8 gennaio 2000, n. 143, in FI 2000, I, 1554.
- 23)
H.EGE, in Mobbing,
conoscerlo per vincerlo, op. cit., p. 13, e in La valutazione peritale del danno da mobbing, op. cit., p.9 e ss.;
nello stesso senso, da parte della critica giuridica, PERA, in
RIDL 2000, p.102.
- 24)
Tribunale Milano, 20.5.2000, in OGL
2000, 959.
- 25)
Tribunale di Milano, 16.11.2000, in OGL 2000, 962.
- 26)
Tribunale di Como 22.5.2001, in Il Lavoro Nella Giurisprudenza, 2002, n.1,
73 e s., con nota critica di H.EGE,
p. 76 e s.
- 27)
in RCDL 2001, 411, con nota di L.GRECO, Danno
esistenziale e risarcimento da mobbing.
- 28) H.EGE, Mobbing.
Conoscerlo per vincerlo, op.
cit., p.23.
- 29)
Tribunale Venezia, 26 aprile 2001, in
R G L, 2002, II, 88, con nota di M.C.CIMAGLIA, Riflessioni su mobbing e danno esistenziale.
- 30)
Tra le tante sentenze in materia, vedi in tal senso (e poi infra), C.Cass., 7 luglio 2001, n.9228, in RCDL 2001, 999.
- 31)
P.Tullini, op.cit., p.256.
- 32)
contra, Trib. Venezia 26.4.2001, cit.
- 33)
Trib. Torino 16.11.1999 e 30.12.1999, cit.
- 34)
P.TULLINI, op.cit., 258; V.MATTO,
Il mobbing fra danno alla persona e
lesione del patrimonio professionale,in DRI, 1999, 491 ss.; VENERI, Il
danno alla persona nel rapporto di lavoro, in LPO, 1999, 1115 ss.
- 35)
F.AMATO ed altri, IL MOBBING, op.cit., p.79; P.TULLINI, op.cit.,
p. 254.
- 36)
G.PERA, Angherie e inurbanità negli
ambienti di lavoro, in RIDL 2001, I, 291 e ss., 297.
- 37) F.NISTICO’, Mob,
Mobber, Mobbing, op.cit., p.717.
- 38)
In FI 1986, I, 2053, con nota di G.PONZANELLI, La
Corte Costituzionale, il danno non patrimoniale e il danno alla salute.
- 39)
In FI 1991, I, 2967, con nota di DE MARZO, Pregiudizio
della capacità lavorativa generica: danno da lucro cessante o danno alla
salute?.
- 40)
così Cass., Sez.III civile, 30.3.1992, n. 3867, in F.I. 1993, i, 1959.
- 41)
Per la ormai ricca letteratura sull’argomento generale, vedi P.CENDON
– P.ZIVIZ, “Il danno
esistenziale”, in Le nuove voci della responsabilità civile, Milano,
1992;P.ZIVIZ., La tutela risarcitoria della persona: danno morale e danno esistenziale,
Milano 1999; U.OLIVA, Mobbing:
quale risarcimento? In Danno
e responsabilità, 2000, 27 ss.
- 42)
Per una ipotesi di risarcimento di danno esistenziale a fronte di condotte
ritenute lesive della personalità morale e della dignità umana della
lavoratrice, in un caso di molestie sessuali, v. Trib. Pisa, 6 ottobre
2001, in RCDL 2002, 126.
- 43)
V. nello stesso senso L.DE ANGELIS, Interrogativi
in tema di danno alla persona del lavoratore, cit., in partic. 1566.
- 44)
P. TULLINI, op.cit., 258.
- 45)
Già E.REDENTI, in Massimario della
giurisprudenza dei probiviri, opera risalente al 1906 (ristampata a
cura di S.CAPRIOLI, Torino, 1992), rilevava che “il
compiere le prestazioni, no è solo un obbligo, ma un diritto
dell’operaio, in quanto è presupposto del suo diritto alla mercede”
(p.171).
- 46)
La tesi “classica” è riportata (e sostanzialmente condivisa) da
E.BALLETTI, La cooperazione
del datore all’adempimento dell’obbligazione di lavoro, Padova,
1990; V.SPEZIALE, Mora del creditore
e contratto di lavoro, Bari, 1992;
A.VALLEBONA, Tutele giurisdizionali e autotutela individuale del
lavoratore, Padova, 1995; ID, Spunti
critici sulla questione del diritto del lavoratore allo svolgimento della
prestazione, in RIDL, 1996, II, p.364.
- 47)
F.CARINCI. R.DE LUCA TAMAJO, P.TOSI, T.TREU, Diritto
del lavoro.2.Il rapporto di lavoro subordinato, Torino, 1992, p.280.
- 48)
G.GIUGNI, Qualifica, mansioni e
tutela della professionalità, in RGL, 1973, I, p.14 – 15.
- 49)
Su questa stessa linea di pensiero, R.SCOGNAMIGLIO, Mansioni
e qualifiche dei lavoratori: evoluzione e crisi dei criteri tradizionali (relazione
AIDLaSS), Milano, 1973, p.15 ss; ID. Diritto
del Lavoro, Napoli, 1994, p. 117 – 118; U.ROMAGNOLI, Commento all’art. 13 Stat. Lav., in Statuto del diritti dei lavoratori, Comm. Scialoja – Branca, Bologna
– Roma, 1979, p. 259; F.LISO, La
mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, Milano, 1982, p.169. Alla stessa conclusione di un
generale diritto a lavorare giunge per altra via, segnata dall’art. 18
Stat. Lav., S.CHIARLONI, Dal diritto
alla retribuzione al diritto di lavorare, in RTDPC, 1978, p. 1461 ss.
- 50)
G.PERA, Sul diritto del lavoratore a
lavorare, in RIDL, 1991, II, 388, che rileva come non v’è dubbio
sul fatto “che lasciare senza lavoro il dipendente, ancor quando non si
abbia il coraggio di percorrere la via diretta della sanzione disciplinare
ed eventualmente del licenziamento, ne mortifica ed umilia la personalità
morale”
- 51)
in RCDL, 1992, 390, con nota di R.MUGGIA, Dequalificazione,
inattività e danni risarcibili, p. 391 e ss.; nonchè in RIDL, 1992,
II, p. 954, con nota di R.FOCARETA, Sottrazione
di mansioni e risarcimento del danno, p. 957 e s.
- 52)
in FI, 1996, i, 1000.
- 53)
In FI, 1995, I, 3134.
- 54)
In questi termini, sul punto, M.BROLLO,
La mobilità interna del lavoratore.
Mutamento di mansioni e trasferimento, Art. 2103, in Commentario al
codice civile diretto da Pietro Schlesinger, Milano, 1997. Parimenti
critico, F.FOCARETA, cit., nota a Cass., n.8835/91.
- 55)
In FI, Rep. 2001, voce Lavoro, n.751
- 56)
In FI, Repertorio 2000, voce Lavoro,
n.784.
- 57)
Tribunale Milano, 26 aprile 2000, in RCDL 2000, 750, con nota di A.PAVONE,
Illegittima dequalificazione: le “voci” di danno, l’accertamento e
la misura del risarcimento.
- 58)
Così Cass., Sez. Lav., 7 luglio 2001, n.9228, in RCDL, 2001, 999.
- 59)
C.Cass., 14 maggio 2002, n.6992. In precedenza, nello stesso senso, Cass.,
11 agosto 1998 n. 7905.
- 60)
Così Cass., Sez. Lav., 18.10.1999, N.11727, in LG 2000, 244.
- 61) Cass., 2 novembre 2001, n.
13580.
- 62)
M.BROLLO, op.cit., p.259, così
si esprime”L’analisi delle
sentenze edite in materia fa affiorare una sensazione di approssimazione,
di confusione terminologica e concettuale, se non di vero e proprio
disagio degli estensori nell’uso di categorie elaborate in sede
civilistica. Disagio questo che comunque non frena l’attuale tendenza
alla proliferazione di nuove ed ulteriori figure di danno, in un’ottica
di ampliamento delle possibilità di risarcimento del danno, per rendere
più pregnante – almeno sotto il profilo monetario- la tutela della
personalità del lavoratore. Intenzione condivisibile, ma perseguita con
tecniche che sollevano un concreto rischio di cadere nelle duplicazioni ed
appaiono scarsamente persuasive sul piano teorico – ricostruttivo”.
- 63)
In tal senso, L.DE ANGELIS, Interrogativi
in tema di danno alla persona, cit., 1566.
- 64)
H.EGE. La valutazione peritale del
danno da mobbing, op.cit., cap.III, p.83 e ss.
- 65) F.NISTICO’, Mob,
Mobber, Mobbing, op.cit., p.720
-